L’orchidea dedicata a Fulvio Tomizza

Altri erano rimasti in patria semplicemente perché non sentivano legame più forte di quello esercitato su di loro dalla casa, i campi, gli scogli, la barca; o appartenevano a famiglie miste e non si opponevano a matrimoni promiscui come pacificamente avveniva ai tempi dell’Austria e come la situazione forzava adesso che gli slavi erano in maggioranza. Tutti, non esclusi gli scoperti opportunisti ai quali nelle terre di frontiera non è richiesto coprirsi, avrebbero a lungo andare vissuto sulla loro pelle il declassamento da maggioritari a minoritari subordinati giorno e notte, sul posto di lavoro e nel rispettivo quartiere, a una maggioranza improvvisata e prevenuta al massimo verso i «taliani», il loro nemico storico, come lo sono tutt’ora gli slavi per coloro che se ne erano andati con una valigia.
Ai padri compromessi, taluni dei quali, dopo la scomunica di Tito votata anche dal Pci, erano finiti nel lager bestiale del Goli Otok in Dalmazia, successero i figli, discriminati già durante i giuochi e sui banchi di scuola. Sarebbe toccato a essi la sonante beffa di vivere esuli in patria e di continuare a subire il disprezzo dei conterranei emigrati. Nemmeno a questi ultimi venne risparmiata una terza o ennesima beffa riservata all’Istria e alla sua gente. Sparsi per l’Italia, in altri Paesi europei e nei continenti più lontani, morsi da nostalgia e da propositi vendicativi, accarezzati dalle destre e invisi alle sinistre per il loro acceso anticomunismo, là dove avevano avuto la possibilità di concentrarsi in un gruppo di poderi o in alcuni caseggiati, questi scampati allo slavismo rosso anche per orgoglio nazionale vengono candidamente chiamati slavi.
Era perciò inevitabile che s’innescasse un processo destinato a portare i due settori incompatibili di istriani italiani a un graduale avvicinamento non fisico bensì ideologico e sentimentale, in qualche caso a uno scambio mentale delle rispettive posizioni come lascia intendere Nelida Milani, la più dotata intellettuale italiana vivente a Pola, nel suo romanzo La valigia di cartone.
Il fiumiciattolo Dragogna, nuovo confine tra Slovenia e Croazia, tra una concezione e uno stile di vita più occidentale e maggiormente orientale-balcanico, tra un grigio suolo verdeggiante e quello pietroso e rosso del Carso e della Dalmazia, è all’origine di questi nuovi risentimenti e rivolgimenti psicologici. Di fatto esso ha comportato più cose e tutte negative: prima rottura della continuità istriana sospesa soltanto nel decennio della Zona B al Quieto; prima discordia per il tracciato del confine tra le Repubbliche gemelle di Slovenia e Croazia, prima presa di coscienza da parte degli italiani in Croazia di essersi liberati dal giogo jugoslavo plurietnico e socialista per cadere sotto quello croato, più immediato e meno tollerante delle distinzioni e delle particolarità. Se la Jugoslavia si era staccata dall’asse sovietico per divenire nazione a sé stante – si chiedeva l’uomo della strada istriano –, se poi le due repubbliche satelliti di Belgrado erano divenute padrone in casa loro, quando toccherà a noi, ceduti alla Jugoslavia e non integralmente sloveni né croati, di governarci da soli?

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