Archivio mensile:Ottobre 2013

Simbiosi

004… dice il “saggio”: per far germinare i semi delle orchidee, quasi sempre ci vuole il fungo. Allora, giù a raccogliere funghi, rigorosamente nelle siepi di casa mia, io non cementifico, lascio che la natura faccia il suo corso. Però, vista la raccolta odierna, dico al “saggio”: per questa volta lasciamo perdere la germinazione, queste primizie saranno la delizia dei nostri palati .
Guardate bene la foto, lo sfondo non è dato da uno specchio, ma da una pittura botanica della mia carissima amica Silvana Rava: stupenda!

“Jewel Box”… una serra a prova di “bomba”

All’inaugurazione del “secondo tentativo di serra”, così la definisce con malcelata modestia, Giorgio, l’architetto creativo del Club, eravamo un bel gruppetto.
001Le premesse per vedere soluzioni geniali c’erano tutte: l’ironica formulazione dell’invito… “non segue i sacri canoni progettuali, ma merita, a mio modesto avviso, di essere vista per alcune soluzioni adottate”, lasciava già intendere qualche piacevole sorpresa, ma la realtà ha superato qualsiasi previsione.
Nel mio post di invito all’inaugurazione, ho giocato con un po’ di sana ironia, sullo stato dell’arte dei ricoveri per orchidee nel portogruarese. Sapendo dell’arguta intelligenza dell’amico Giorgio e della sua spiccata “verve ironica”, con lui anfitrione dell’evento, e con gli altri invitati all’inaugurazione si è continuato a scherzare con simpatiche metafore, sulle passioni e sulle follie dei collezionisti di orchidee.

La serra
007La “scatola” o meglio il contenitore, appoggiato su due lati all’abitazione è costituito da una struttura portante in acciaio inox, chiusa da pannelli di policarbonato, opportunamente inseriti fra guarnizioni con la funzione di isolamento termico.
Alla serra si accede solamente dall’abitazione, le due porte di cui è dotata, non sono apribili dall’esterno.
Le amiche e gli amici orchidofili presenti, sono rimasti sbalorditi dalle modalità di apertura delle porte e dalla automatizzazione dell’utilizzo della rete ombreggiante, gestita da una fotocellula che sente i vari livelli di insolazione.

Dentro la serra
008E qui, purtroppo, il primo punto dolens 😉 . Uno arriva lì per visitare una nuova serra e si aspetta di trovarla mezza vuota, no! E’ già piena stracolma di tutto il ben di dio… o quasi :). Scrivo quasi, perché la nota compulsione, che assale l’orchidofilo in “espansione” ha colpito anche il nostro Giorgio e nell’arco di un anno ha messo dentro, di tutto e di più.
Galeotto fu colui che l’anno scorso inondò mezza Italia di Cattleya senza nome, ma dotate di varie specie di cocciniglia… qualche pianta, non si sa come, è riuscita a colonizzare anche la neonata serra di Giorgio.
Scherzi a parte, che saranno senza dubbio perdonati, desidero fare i complimenti a Giorgio: una serra ben strutturata, dotata delle tecnologie fondamentali per coltivare orchidee, che, seppur giovane, ti fa già respirare quella strana atmosfera dei tropici.
Ci sarà il tempo per affinare la collezione e per eliminare quello che ora sembra affascinante è capitato e capita a tutti. A pagina 122 del libro “Orchidea, la passione diventa serra” si legge: “L’avvio, nella più rosea delle ipotesi, riserva sempre qualche sorprsa, l’ambiente interno raggiungerà l’equilibrio biologico dopo mesi o forse anni. Nella fase iniziale sarà conveniente coltivare piante resistenti e poco costose. Una collezione di orchidee non si può improvvisare, essa cresce impercettibilmente intorno a noi, giorno per giorno, ed insieme divide gioie e delusioni”…

Buffet
010Sontuoso, delizioso. Ormai nel Club si è raggiunto il livello da grandi Chef. Giorgio, cuoco raffinato… a suo tempo ho avuto modo di apprezzare i suoi peperoni ripieni di capperi e acciughe, tanto da piantarne un’intera aiuola nell’orto di famiglia. Questa volta il piatto “novità” è stato: code di gamberi in saor.

Grazie ai signori Facchin per l’ospitalità, grazie anche ai partecipanti. Per me è stata una salutare iniezione per continuare a coltivare la nostra bellissima passione.

Frammenti… dal libro “Orchidea, la passione diventa serra”

Dal capitolo 1

…” Ma come e quando nacque l’idea di proteggere in ambiente chiuso le essenze vegetali, e chi scoprì il miracolo della coltivazione sotto vetro? A fare questa scoperta fu Nathaniel Bagshaw Ward (1791-1868), quest’uomo, che ha il merito di aver cambiato il mondo botanico così drasticamente, rimane l’ennesimo personaggio-ombra che emerge dalle nebbie della Londra vittoriana. Non pensiate che questa sia la solita frase retorica, dietro alle sue scoperte, si nascondono una serie di evoluzioni storiche senza le quali il mondo moderno sarebbe decisamente diverso da quello che noi conosciamo.

1.4 Nathaniel Bagshaw Ward
NPG D37486; Nathaniel Bagshaw Ward by Richard James Lane, printed by  M & N Hanhart, after  John Prescott KnightSarebbe noioso stilare l’elenco delle società che lo vedevano attore partecipe, basti sapere che spaziavano dal campo medico, farmaceutico a quello botanico. Ma partiamo con ordine: nato a Londra Ward sviluppò presto il suo interesse per il mondo naturale nonostante lo circondasse il grigio panorama della città industrializzata. Alla tenera età di 13 anni si ritrova per mare su una nave in viaggio per la Giamaica: era convinto di far carriera in marina.

Dopo quel viaggio, come sperava il padre, valente chirurgo, egli abbandonava l’idea di essere un marinaio per seguirlo nella pratica medica. Ma la flora tropicale aveva risvegliato in lui l’interesse per la natura e in particolare per palme e felci. Ward lavorava nell’est End di Londra e continuava a coltivare la sua passione per la botanica e l’entomologia tra un paziente e l’altro, nel tempo libero collezionava piante coltivandole all’aperto: il suo erbario contava più di 25.000 specie. Sognava di ricoprire un vecchio muro di confine del suo giardino di felci e muschi.

Il suo giardino a Wellclose Square non fu esattamente quello che Ward si era immaginato, solo poche delle felci piantate sopravvissero. Questo tasso di fallimento fu determinato dalla cappa di inquinamento soffocante della Londra industrializzata, la stessa atmosfera inquinata dal fumo proveniente dalla combustione del carbone e dai solfuri che fece coniare a un giornalista nel 1905 il termine “smog”, abbreviazione di “smokey fog” (nebbia fumosa).

Ward girò il mondo per dar soddisfazione al suo interesse per l’entomologia. In occasione di uno dei suoi viaggi, egli raccolse la pupa di un lepidottero (sfinge) e la collocò in un contenitore trasparente e sigillato. La storia non ricorda il destino del lepidottero, ma dopo un po’ di tempo, Ward notò che alla base del contenitore chiuso, dal terreno iniziavano a germogliare delle felci: la sua curiosità su quanto tempo queste potessero vivere in un ambiente protetto, o meglio sigillato, portò a una delle scoperte botaniche ed economiche più importanti dell’età vittoriana: la cassetta wardiana (Wardian Case).

Wardian_Case_foto_6_parte_1Preso dal fervore per la sua scoperta, Ward inizò tutta una serie di esperimenti. Costruì dei terrari in vetro, di varie dimensioni, che riempirono il suo giardino e ogni stanza della sua abitazione: alcuni li mise perfino sopra il tetto di casa! Il terrario più grande (2.4 mq.) conteneva al suo interno più di 50 specie di piante abbarbicate sulla riproduzione di una finestra della Tintern Abbey.
I contatti con la famosa Loddiges Nursery che sponsorizzava le spedizioni esplorative volte alla scoperta di nuove piante, gli permisero di testare il potenziale della sua invenzione per il trasporto di esemplari per mare. All’epoca la sopravvivenza a questi lunghi viaggi era impensabile. Le piante tenute sottocoperta morivano per mancanza di luce, mentre quelle tenute sul ponte per salsedine, forti venti, bruciature da sole e mancanza d’acqua.

Coltivare e spedire piante sotto vetro non era cosa nuova, ma nuovo era il concetto dell’ambiente sigillato non contaminato dalle condzioni atmosferiche circostanti. Ward fece costruire da un carpentiere una cassa per le sperimentazioni, il telaio doveva essere in legno duro e le connessioni più rigide e resistenti possibili: questo per evitare danni per effetto della condensa. Ed ecco nato il primo terrario!
Nel 1833 spedì, in due casse, delle felci native dell’Inghilterra, in Australia, questo fu il suo primo grande esperimento. Dopo 6 mesi di navigazione il carico sbarcò nel porto di Sydney con le piante vive e vegete! Le casse come su richiesta vennero pulite e riempite di specie native australiane che prima di allora non si erano mai riuscite a trasportare oltremare; nel febbraio del 1835 il carico salpò, ma la nave, sconvolta dalle tempeste di Capo Horn arrivò a Londra solo dopo 8 mesi di navigazione. Le casse erano sul ponte e non erano state aperte nonostante le temperature fossero variate da -7 a 49 C° e coperte dalla neve durante parte del viaggio.

1.5 I successi degli esperimenti
Intanto in città Ward attendeva ansioso di visionare il carico. Nel suo libro del 1852 scrisse: “I shall not readily forget the delight expressed by Mr. G. Loddiges, who accompanied me on board, at the beautiful appearance of the fronds of Gleichenia microphylla [umbrella or coral fern], a plant now for the first time seen alive in this country”.
L’esperimento ebbe successo e Ward pubblicò un pamphlet dal titolo “The growth of Plants without open exposure to the Air” in cui descriveva i sui metodi. A questo seguì la pubblicazione nel 1842 del libro “On the Growth of Plants in Closely Glazed Cases”.
Dopo di lui tutta l’Inghilterra iniziò a usare i terrari, sia per le coltivazioni cittadine che per le spedizioni via mare e Loddiges potè constatare che il tasso di sopravvivenza delle piante era cresciuto dallo 0.1 al 90%.

Joseph Dalton Hooker fu uno dei primi a servirsi delle cassette wardiane per la sua spedizione in Antartico nel 1839, ma il primo di cui si ha notizia fu John Gibson, pupillo di Paxton, che partì per l’India nel 1835 per conto del duca del Devonshire, in un viaggio che lo tenne lontano dall’Inghilterra per oltre 2 anni e che riportò al duca più di 80 specie di orchidee diverse, tra cui quello che venne chiamato Dendrobium devonianum, che fiorì per la prima volta nelle serre di Chatsworth nel 1840.
Nel 1854 il Dott. Ward diede lettura della sua scoperta alla Royal Society nel Chelsea Physic Garden: in quel tempo era già noto che la sue wardian cases avevano cambiato la faccia del commercio in tutto il mondo. Queste rimasero in uso per parecchio tempo, si dovette aspettare più di un secolo l’arrivo delle buste in plastica e le ingombranti e pesanti cassette vennero soppiantate”….

Nota: Il libro non è ancora in distribuzione. Sono state stampate 100 copie, distribuite gratuitamente in occasione della presentazione della serra “ORCHIDEA” e recapitate a vari amici orchidofili. Praticamente una pre edizione, con “vari errori”, dei quali mi scuso con chi avrà modo di leggere il libro, ma, volendo metterla in positivo: le renderanno uniche.

Orchidee in medicina…da mangiare e da bere

Paese che vai, usanza che trovi, si usa dire. Proviamo a vedere nel mondo delle orchidee, se vale lo stesso proverbio.
Pare proprio di sì, soprattutto nella farmacopea tradizionale e popolare:

In Malesia si usa cuocere le bacche (i frutti) di Bulbophillum vaginatum, per lenire il mal d’orecchie.
Le popolazioni dell’Africa centrale, masticano le foglie del Bulbophyllum longiflorum per provocare il vomito contro forti febbri.
Sempre in Africa, tra gli Zulù, le radici di Ansellia gigantea sono uno degli ingredienti di un contraccettivo preparato per le giovani nubili; mentre i ragazzi quando iniziano il corteggiamento si addobbano il petto con le foglie diAnsellia humilis.
In varie località della Cina, gli pseudobulbi di Dendrobium nobile sono usati come ingrediente di medicinali per curare tante malattie.
In America Latina, Epidendrum bifidus viene utilizzato come diuretico e contro il verme solitario.
Nella medicina popolare antica, le radici di Epipactis helleborine erano usate come vulneraria (guarisce le ferite) ed anche come rimedio contro la gotta e i reumatismi.
La radice tuberosa di Gastrodia elata, in Cina è usata contro le cefalee e l’ipertensione.
Jumellea fragans alle Mauritius è usata per favorire la digestione e contro i disturbi respiratori.
leptotes_bicolor_stampaIn Brasile con le bacche (frutti) di Leptotes bicolor si aromatizzano tè e gelati.
Nelle Filippine, la linfa della Macodes petola è utilizzata come collirio.
Le foglie di Renanthera moluccana nelle omonime isole, vengono raccolte e messe in salamoia con sale e aceto, come sostituto dei capperi.
Nel Borneo e Sumatra, si raccolgono le foglie di Vanda hookeriana, per formare un cataplasma contro i dolori articolari.
A chiusura di questo simpatico “carosello” di usi e riti, in Sud America, le orchidee sono presenti in tutte le cerimonie religiose.

Restrepia guttulata

Restrepia è un piccolo genere composto da circa 50 specie, strettamente legate alle Pleurothallis. Il nome di genere è stato assegnato in onore di Don José Restrepo. Gran parte delle specie si trovano a quote più elevate nelle fresche e umide foreste montane delle Ande del Venezuela , vari paesi dell’America centrale fino al sud del Messico.
Scritto questo, sotto l’aspetto tassonomico, può sembrare un genere di facile ricognizione, tutt’altro, almeno per le mie conoscenze.
002 Restrepia guttulata Lindl. 1836
Esempi? Eccone uno: la specie rappresentata nella foto a sinistra, proviene dalla Colombia, con il nome: Restrepia antennifera. Purtroppo, gran parte delle specie, soprattutto quando non è chiara l’esatta sistemazione tassonomica, riportano l’epiteto “antennifera”.
Da una prima ricognizione bibliografica, allora non c’era ancora internet, mi era parsa Restrepia pandurata: la forma dei fiori corrispondeva, come pure le punteggiature.
Con l’avvento di internet, più che trovare chiarimenti, ho aumentato la mia confusione. Capita di vedere foto di fiori diversi per forma e maculature, descritte con lo stesso nome di specie. Possiamo trovarci in presenza di errori (internet va sempre preso con le pinze), ma anche di varietà diverse, a seconda del loro luogo di endemicità.
Per ottenere una certa sicurezza, bisognerebbe disporre delle descrizioni originali, ma non sempre è possibile ed anche in questo caso rimarrebbero ampi margini di dubbio: anche la più scrupolosa registrazione, risente sempre della soggettività del suo autore ed anche dello specifico luogo di endemicità della pianta raccolta.
021 Restrepia guttulata var. leopardina Lindl. 1836
Allora, come procedere? Siccome gran parte dei nomi di specie, fanno riferimento a particolarità anatomiche della specie in esame, conviene far riferimento ad essi.
Ed ora analizziamo con attenzione il fiore della foto. Per poter essere Restrepia pandurata, (dal greco antico “pandoura”, strumento a tre corde molto simile al violino), deve sicuramente avere qualche parte del fiore, simile allo strumento citato poco fa: magari il labello, vedi il link a orchidspecies. Questa caratteristica non è tanto evidente nella nostra specie in esame, e quindi dobbiamo continuare la ricerca.
020Molto simile è anche Restrepia contorta (vedi foto a sinistra), ma non ha il sinsepalo recurvo (da cui il nome contorta). Altra specie con caratteristiche anatomiche similari è Restrepia guttulata
Restrepia guttulata è endemica in Venezuela, Colombia, Peru ed Ecuador E’ epifita e vive nelle foreste montane ad altitudini fra 1700 e 3000 m. Guttula, è una parola latina: diminutivo di gutta = goccia. Probabilmente chi ha descritto questa specie è rimasto colpito dall’effetto “goccia” delle maculature e dei piccoli puntini sui petali dei fiori.
Pare proprio che questa volta ci siamo… però uso ancora il condizionale.