Archivio mensile:Febbraio 2021

Dendrobium Spring Dream ‘Kumiko’

Il piacere di conoscere storia e parenti delle tue orchidee. Da qualche tempo nei garden e nelle fiere delle orchidee si trovano piante fiorite di Dendrobium ibridi, senza storia e senza nome, alla domanda del nome della pianta, ben che vada il venditore risponde con ostentata nonchalance: Dendrobium nobile. Purtroppo la storia non è così, quella pianta che tanto ti affascina ha sicuramente come progenitore quella specie, ma la sua genealogia è un po’ più complessa. Si dirà “è già tanto conoscere il nome dell’ibrido” e tu pretendi che il venditore conosca anche la genealogia di quel povero Dendrobium stipato nei banchi vendita. Questo è un esercizio tassonomico per i botanici o per qualche collezionista. E’ bello però, diciamolo pure, è piacevole risalire alle origini dei nostri malcapitati ibridi della collezione. Proviamoci con la pianta esposta nelle foto che seguono e per farlo iniziamo il percorso a ritroso a partire dal nome registrato.

Dendrobium Spring Dream, H.W.B.Schroder 1965 (genitori) Dendrobium Constance Wrigley × Dendrobium Thwaitesiae —————————————————————————– Dendrobium Constance Wrigley 1929 (genitori) Dendrobium Lady Colman × Dendrobium Plumptonense

Dendrobium Thwaitesiae 1903 (genitori))
Dendrobium Ainsworthii × Dendrobium Wiganiae

Si prosegue a ritroso fino ai progenitori specie che sono: Dendrobium nobile – Dendrobium heterocarpum -. Dendrobium findlayanum – Dendrobium signatum

Pero, storia, misfatti e miracoli.

Introduzione. Il paese di Pero è, o meglio la sua storia è stata e forse lo è ancora legata a quel piccolo rio che lo attraversa da nord a sud, e che curiosamente porta due nomi: Rio Parnasso e Rio Pero. Chissà se è il corso d’acqua aver dato il nome alla località dove nasce, oppure l’opposto, lo scopriremo insieme. La curiosità e il desiderio di conoscere le origini dei luoghi nei quali abito e vivo, mi ha condotto a cercare prove e documenti. La prima traccia del nome del corso d’acqua in questione si rileva studiando la mappa del catasto della Repubblica veneziana che evidenzia la parte nord dove nasce il corso d’acqua, mappa riconducibile ai primi anni del diciottesimo secolo, nella quale si può notare il percorso tortuoso (per altro ancora tale) del corso d’acqua in questione, con il nome “Per”. La parlata dialettale di Pero, ancor oggi, per indicare quel corso d’acqua fa uso dell’epiteto (el Per)

Mappa veneziana: si può scorgere il tracciato del corso d’acqua fino alle risogive denominato Per.
Le risorgive del Per: confronta con la mappa della foto sopra.
Mappa veneziana (1700) di Pero.
Mappa austriaca di Pero (secolo dicianovesimo).

Le origini: Le foto che seguiranno mostrano, purtroppo, l’ultimo pezzo di storia che ci porta alle origini dei primi insediamenti abitativi di Pero. Si tratta della Chiesetta di S. Giovanni situata lungo le sponde del fiume Musestre, in quella parte del territorio, allora noto come “Pero di sopra”. L’accesso alla millenaria chiesetta di San Giovanni è attualmente impedito da una miriade di ostacoli, nonostante l’esistenza di una servitù di passaggio che ha consentito, da sempre, alle popolazioni locali di potersi recare in visita a quello che non esito definire, il simbolo per antonomasia delle origini di Pero. Così si legge in una nota giornalistica del mese di luglio 2012:…”Per porre fine a tale disagio, a Pero si sta costituendo un Comitato che si propone di ripristinare la servitù di passaggio così come previsto in un accordo tra parrocchia e immobiliare proprietaria del sedime della fabbrica”… Dov’è questo comitato e soprattutto cosa ha prodotto? Storia: un po’ osservando le mappe storiche del territorio, ma anche mettendo insieme la memoria dei racconti delle generazioni andate e non di meno osservando quel che rimane (poco, molto poco) dell’impianto edificato, si può sicuramente configurare quella che poteva essere la vita nel nostro territorio attorno al 1000. E’ sicuro che i primi insediamenti abitativi delle nostre zone, presero consistenza con l’arrivo di qualche avamposto dei monaci benedettini già presenti sin dalla metà del X secolo nell’Abazia di Monastier . “Ora et labora” era il loro motto e con questo spirito iniziarono a dissodare vaste zone boschive, lacustri ed insalubri, per poter trarne frutto. I monaci benedettini, sotto la direzione dell’abate (dal greco “abbas”=padre) oltre alle pratiche spirituali si dedicavano al lavoro dei campi per il proprio sostentamento. Si deve proprio alla secolare opera di bonifica dei monaci se le terre circostanti, prima incolte e insalubri, (il luogo era “lacustre e boscoso”) attirarono col tempo lo stanziamento dei villici…”Nel Veneto, già prima dell’anno Mille, erano sorti diversi monasteri benedettini. Fino al Mille una vasta parte del Basso Piave era palude e fitta boscaglia, e i monaci benedettini, oltre che alla preghiera (“Ora…”), si dedicavano al disboscamento dei terreni, alla coltivazione delle terre abbandonate, pulivano i fiumi e ne consolidavano gli argini, aprivano solchi d’acqua nelle zone paludose dove regnava la malaria, riassettavano le strade (“… et labora”); non ultimo, provvedevano a diffondere il cristianesimo contribuendo alla conversione dei barbari. Man mano che si disboscavano le terre e si tiravano a coltura, e le popolazioni, per lo più nomadi, diventavano residenti, venivano loro consegnati poderi da coltivare, con l’unico impegno di riconoscerne l’originaria proprietà portando la quarantesima parte dei raccolti al monastero.

Chiesetta di San Giovanni.

Per ogni gruppo di case i monaci provvedevano alla costruzione di una piccola chiesa o di un oratorio dove la gente poteva soddisfare al precetto festivo, con annesso anche un modesto beneficio, cioè una piccola rendita per il mantenimento del sacerdote e per le spese del culto; oppure giungevano i benedettini stessi a celebrare la messa e poi rientravano in comunità.”… Una di queste chiesette fu costruita in prossimità del fiume Musestre e dedicata a S. Giovanni Battista, dove sicuramente si battezzavano le genti dei luoghi. Siamo nel X o XI secolo. Da questi riferimenbti storici si evince chiaramente anche l’origine del nome del paese di Pero. Non dalla credenza popolana del grande albero di Pere attorno il quale si riunivano i “saggi del luogo”, non dal greco Piros = Fuoco derivante dai falò utili al disboscamento, ma più semplicemente Pyro, dal nome antico del Fiume Meolo. Ecco che tutto comincia a prendere forma: Abazia benedettina a Monastier, posta lungo il fiume (Pyro) ora Meolo, insediamento che funge da baricentro di nuovi insediamenti monacali con la formazione dei primi nuclei abitati dei terreni nei dintorni del monastero.Per ogni gruppo di case (agli inizi semplici tuguri con i tetti ricoperti con canne lacustri), i monaci provvedevano alla costruzione di una piccola chiesa o di un oratorio. La zona geografica di Pero, sia per la sua facilità ad essere raggiunta per via fluviale (attraverso il fiume Musestre, il fiume Meolo e per finire il fiume Vallio, è stata sicuramente la prima ad essere raggiunta dai monaci benedettini (le decanie) a ovvero a gruppi di dieci. Ancora oggi, seppur totalmente sconvolta da ristrutturazioni scellerate, è immaginabile la via che dal fiume Musestre, dove sorge la Chiesetta di S. Giovanni, conduce a tre insediamenti di allora (case ex Baccini, in Via Silvio Pellico, casa ex Scotta in via cal del Brolo e Case ex Della Libera, per portarci verso Monastier, dove, sempre via fluviale (Vallio) si può giungere all’Abbazia di Monastier. Le case di cui si parla sono state rifatte ex novo e della conformazione storica rimane ben poco, ma nella mente di qualche paesano e magari in qualche vecchia foto, rimane certamente qualche testimonianza. La chiesetta di S. Giovanni (come si potrà vedere nel sevizio fotografico che propongo) è edificata su di una altura, quasi a significare un acropoli dove gli abitanti si radunavano per le funzioni religiose (battesimi, messe ed altre) e per i commerci. Con tutta questa storia, dovremmo tenere in massima considerazione questi luoghi, a testimonianza delle nostre radici, per il piacere del sapere ed anche per il godimento di momenti di spiritualità religiosa o più semplicemente ameni, ed invece NO!

Ho provato a raggiungere la Chiesetta, ma per arrivarci ho dovuto attraversare (quasi abusivamente) capezzagne private, guadare corsi d’acqua, e impantanarmi su improbabili stradoni. All’arrivo mi son trovato circondato dal degrado di insediamenti industriali (eufemismo) edificati a pochi metri dalla Chiesetta; una totale sensazione di tristezza ha pervaso la mia coscienza.

Il degrado industriale e pochi metri dalla chiesetta

All’improvviso nella mia mente si è riavvolto il film dei tempi della mia gioventù, quando in occasione della festa di S. Giovanni Battista (24 Giugno), tutto il paese di Pero migrava in questi luoghi senza problemi. Per documentare quello che ho visto non servono altre parole, spero che il reportage fotografico che propongo, serva a trovare qualche soluzione, lo spero vivamente.

Il capitello di Pero. Nel mese di luglio del 2015 scrivevo. Quel vecchio capitello di Pero sta crollando. Le poche testimonianze storiche e culturali ancora presenti (seppur ingabbiate da ingiustificabili edifici privati) sta crollando sotto l’incuria ed il peso del tempo. Questo è il capitello (o quel che ne rimane), che un tempo segnava l’incrocio ora chiamato Piazza Cesare Battisti a Pero.

Il capitello in rovina

E’ una strana storia quella che vede questa edificazione votiva, probabilmente eretta dopo il mille dai frati benedettini, dimenticata da Dio e dagli uomini di Pero. Non sta a me vedere il problema sotto l’aspetto fideistico, io sono laico, o meglio “credente agnostico”, quello che mi angoscia e mi rende triste è verificare come siamo cambiati in peggio. In quei luoghi, ora abbandonati e vuoti, non più di 60 anni fa, pulsava il paese vivo, fatto di momenti di vita semplice e condivisa. Il capitello era posto al limite della riva destra della strada che giungeva da Breda, il Rio Parnasso passava a sud lambendo il caseggiato che fungeva da osteria e drogheria. Il corso d’acqua, allora costeggiava la riva sinistra di un unica via di comunicazione, che attraversava l’abitato composto da qualche casa con tetto di canne e tre più strutturate, resiudi della presenza benedettina, più qualche casa padronale pur sempre di fattura minimale, e conduceva alla Chiesa di S. Giovanni, ubicata ad ovest del paese: Pero di sopra lo chiamavano allora, per distiguerlo da Pero di sotto, più basso e paludoso. Ed è proprio per bonificare la parte centrale del paese attraversata dal Rio Parnasso, carica di paludi e risogive, che sul finire del dicianovesimo secolo, il suo corso fu portato più a sud (più in alto) dando così forma all’attuale via Silvio Pellico, allora denominata Via levada (elevata, per l’appunto). Il mio ricordo più intenso va al 1950, quando in occasione della Madonna Pellegrina, giunta nel suo pellegrinare anche a Pero, i giovani del paese, (ai miei occhi di bambino di 6 anni), forti e coraggiosi, salirono fino in cima a due platani secolari altissimi, posti ai lati del capitello, per collocare due stelle illuminate da lampadine elettriche, aventi lo scopo simbolico di indicare la via alla processione della Madonna. Poca cosa, si dirà, ma se lasciamo andare anche quel poco che rimane, si estingue tutto di noi. Spero che le istituzioni locali mi leggano, non fosse altro per evitare che questo mio grido di dolore venga spazzato via da vento dell’oblio.

Il capitello ingabbiato

Il miracolo. Le istituzioni locali non diedero segni di vita e quel capitello sembrava destinato a sparire, ma avenne un miracolo. Nel 2019 la proprietà dell’intero immobile, già osteria, ristorante e ipermercato, cambiò di mano. Il nuovo propietario conosceva a fondo la storia di quei luoghi. La conoscva per essere nato a pochi metri, per aver vissuto la sua infanzia tra quelle mura e quelle strade. Si percepiva che quella testimonianza del nostro comune passato, non sarebbe andata distrutta e fu salvata. Il capitello violentato e nascosto per anni fra le macerie di magazzini vari, fu riportato all’antico splendore dei tempi andati.

Il capitello restaurato

Furono rimessi a dimora perfino i due platani che tanti ricordi facevano rimbalzare nelle nostre menti. Sì nelle nostre menti perchè ci sono storie di comune infanzia fra me e Baccini Gisulfo (Nineto per gli amici d’infanzia), il nuovo propietario che volle il restauro ed il recupero di questa significativa testimonianza del nostro passato. Ora Nineto non è più fra noi, il destino se l’è portato via sul finire del 2019. Ebbe appena il tempo di sedersi su una delle due panchine, per pensare, chissà, forse per godersi momenti di vita andata, o semplicemente per riposare. Grazie Nino.

Coelogyne lactea

Coelogyne lactea vive in Birmania, Thailandia, Laos e Vietnam ad altitudini di circa 1100 metri. Specie epifita a sviluppo simpodiale, a volte citata come sinonimo di Coelogyne flacida della quale è molto simile sotto tutti gli aspetti, ma si differenzia per avere diversi calli sul labello e più sporgenze sulla colonna.

Coelogyne lactea è nota anche con il nome popolare “Coelogyne bianco latte” o con i sinonimi, Coelogyne huettneriana var. lactea. Questa specie è stata descritta da Heinrich Gustav Reichenbach nel 1885. Coelogyne lactea fiorisce in inverno formando più infiorescenze lunghe 15 – 20 cm. Coelogyne lactea ama buona luce filtrata, si consiglia pertanto di sistemarla nella parte più alta della serra con temperature estive di 30 ° C; Temperatura invernale a 10-14 ° C.

Questa orchidea viene solitamente coltivata in vasi con substrato costituito da miscela di bark e perlite. Il momento migliore per per i rinvasi è dopo la fioritura, quando inizia una nuova vegetazione. Durante il periodo di nuova crescita, la pianta necessita abbondanti e frequenti bagnature. L’acqua in eccesso deve fuoriuscire liberamente dal vaso, in quanto il ristagno di acqua può portare molto rapidamente al deperimento delle radici e della parte inferiore della pianta. Concimare ogni due settimane durante la fase vegetativa. Coelogyne lactea necessita di un periodo di riposo ben definito che inizia dopo la maturazione dei nuovi bulbi, cioè quando i nuovi germogli raggiungono le dimensioni di quelli vecchi. La temperatura durante questo periodo dovrebbe essere di 10-14° con bagnature molto diradate.

Maxillaria schunkeana

Le orchidee con i fiori che tendono al colore nero sono sempre affascinanti e desiderate, misteriose e impossibili.
In natura sono poche le specie dai fiori fortemente scuri, ma gli ibridatori, ben consci dell’iteresse del collezionismo per le orchidee “nere” sono riusciti a creare incroci interessanti.
L’argomento è di quelli che affascinano perché sta sempre a metà strada fra la realtà ed il mito. Nero Wolfe coltivava la sua “orchidea nera” nella serra a New York.
Nota con il nome popolare di “orchidea nera” è anche la
Coelogyne pandurata
, per la verità i fiori di questa orchidea, di nero hanno solamente alcune protuberanze sul labello.

Maxillaria schunkeana M.A. Campacci & R.A. Kautsky 1993.
Da qualche tempo nelle nostre collezioni si incontra una specie del genere Maxillaria che impressiona enormemente per il colore verosimilmente nero dei suoi fiori è la Maxillaria schunkeana, l’ennesima orchidea nera. Il genere Maxillaria
Maxillaria Ruiz & Pav. (1794) è un genere di orchidee vasto e con morfologie molto diverse, per questo motivo molti orchidofili ritengono che l’attuale stato della tassonomia del genere Maxillaria, abbia bisogno di una profonda revisione.
Il nome scientifico è derivato dalla parola latina “maxilla” – mascella, dalla forma della colonna e della base del labello di alcune specie, che può evocare un mandibola sporgente. La specie tipo è Maxillaria ramosa Ruiz & Pavon 1794.

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Maxillaria schunkeana M.A. Campacci & R.A. Kautsky 1993 – “O gênero Maxillaria no Espírito Santo: uma nova espécie. Orquidário 7: 136–137.”
Sottofamiglia: Epidendroideae
Tribù: Maxillarieae
Sottotribù: Maxillariinae
Genere: Maxillaria Ruiz & Pav.
Specie originaria del Brasile, Stato di Espirito Santo costa atlantica foresta pluviale ad altitudini di 600 a 700 metri.

Maxillaria schunkeana propone un problema interessante. L’architettura vegetativa di questa specie assomiglia a quella del gruppo M. gracilis, poichè ha foglie esili e lanceolate. Tuttavia la morfologia del fiore è estremamente simile al complesso M. madida , poichè i fiori di M. schunkeana sono color vinaccia scuro, con il labello ed il pollinarium molto brillanti. Inoltre, ricerche molecolari preliminari evidenziano uno stretto collegamento della M. schunkeana con M. picta e M. marginata. Questa specie quindi, richiede ulteriori approfondimenti morfologici e molecolari per chiarire la sua posizione filogenetica.
Lo studio degli insetti pronubi delle varie specie di Maxillaria può contribuire a conoscere meglio l’intera tribù, a tal riguardo è interessante questo lavoro:
RODRIGO B. SINGER SAMANTHA KOEHLER

Note morfologiche
Pianta di piccole dimensioni, epifita a sviluppo simpodiale con pseudobulbi fusiformi e cilindrici dotati di 2 foglie apicali.
Le corte infiorescenze escono dalla base degli pseudobulbi maturi e producono fiori singoli di colore viola scuro tendente fortemente al nero.
In natura (Brasile) fiorisce in primavera estate, non è profumata.
Desidera temperature fresco-intermedie (minime 10-18) , buona luce, substrato sempre umido e ben drenato. Questa specie può essere coltivata sia in vaso con substrato di corteccia o di fibra arborea, ed anche su zattera.

Pontieva racemosa

Pontieva racemosa, fiori – collezione rio Parnasso le orchidee di Guido

Genere:
Ponthieva R. Brown, Hortus Kew. 5: 199. 1813. Il nome del genere è stato dato in onore di Henri de Ponthieu, francese, mercante e raccoglitore di specie nelle Indie Occidentali, che ha inviato queste piante alla collezione di Sir Joseph Banks nel 1778.
Ponthieva (comunemente denominato Shadow Witch- Strega dell’Ombra) è un genere terricolo, raramente epifita, a sviluppo simpodiale, composto da oltre 60 specie.
Questo genere vive nella fascia tropicale e subtropicale americana, comprendente alcuni Stati meridionali degli U.S.A, Messico, Indie occidentali, America Centrale, Sudamerica.

Pontieva racemosa, pianta fiorita- collezione rio Parnasso le orchidee di Guido

L’apparato radicale è fibroso, morbido ed organizzato a gruppi, uniti fra loro da rizomi ispessiti, sui quali si sviluppano lunghi ed esili steli fiorali circondati da leggiadri cespugli di foglie basali, subsessili e petiolate. I fiori, più o meno numerosi secondo la specie, si formano su corti peduncoli posti lungo steli pubescenti.

Specie: Ponthieva racemosa (Walter) C. Mohr 1901

Pontieva racemosa, fiori – collezione rio Parnasso le orchidee di Guido

Sinonimi: Arethusa racemosa Walter, Fl. Carol., 222. 1788; Neottia glandulosa Sims; Ponthieva glandulosa (Sims) R. Brown. Ponthieva racemosa è conosciuta con il nome popolare Shadow witch (Strega dell’ombra). Questa specie può essere confusa anche con Ponthieva orchioides, a tal proposito segnalo una utilissima analisi fatta in questo brillantissimo forum delle orchidee terrestri spontanee. In natura vive nel Sud del Messico e Panama, a 200 – 4000 metri sul livello del mare. E’ una specie terricola, a sviluppo simpodiale, di dimensione medio-piccola, facilmente coltivabile a temperature fresche.

Le radici sono organizzate a gruppi uniti fra loro da esili rizomi, sui quali si formano i ceppi fogliari e gli steli fiorali. Le foglie basali sono, ellittiche, lanceolate e molto sottili.
Gli steli fiorali, lunghi 20 – 30 centimetri, sono pubescenti e portano piccoli fiori di colore bianco – verdastro, ancorati a peduncoli eretti.
Periodo di fioritura primaria: da Novembre a Febbraio.

Pontieva racemosa, pianta in fiore – collezione rio Parnasso le orchidee di Guido

Coltivazione:
E’ utile usare substrato di coltura, vaporoso ed umido – bark sminuzzato, torba di sfagno, perlite – le dosi di miscelazione vanno equilibrate in funzione dell’ambiente di coltivazione.
Duranta la fase vegetativa è consigliabile mantenere il substrato sempre umido.
Ponthieva racemosa va coltivata in posti ombrosi e freschi.

Osservazioni di coltivazione:
Il ciclo vegetativo della Ponthieva racemosa, prevede la spogliazione fogliare ed un conseguente periodo di riposo. Durante il riposo si può agire in 2 maniere:
1 – Mantenere il substrato di coltura leggermente umido finché la pianta non riprende a vegetare.
2 – Svasare la pianta, dividere le unità radicali e risistemarle in piccoli vasi (10 centimetri di diametro), a gruppi di 2 o 3 unità, con substrato nuovo e umido.
Scegliendo la seconda modalità e coltivando le piante in serra con temperature intermedie, si possono ottenere due fioriture annuali.
Le concimazioni vanno attuate indirettamente: durante le fertilizzazioni solubili, programmate per le altre orchidee, passare velocemente sopra questa pianta senza attendere la completa bagnatura del suo substrato.