Archivio mensile:Agosto 2013

Trichocentrum pupulinianum

Nuova specie di orchidea scoperta in Costa Rica

Un lettore di orchids.it, Ing. Francesco Piz, ci comunica questa notizia che pubblichiamo con piacere:

…”Oggi ho avuto la conferma direttamente dall’interessato che è stato dato il suo nome ad una specie di orchidea.
L’AMICO è ITALIANO e risponde al nome di Franco PUPULIN. Non mi dilungo sui suoi meriti, basta vedere nel web. Vi allego un articolo apparso su un quotidiano qui in Costa Rica“…
Pare che il Kew Gardens non consideri valido questo nome.
Trichocentrum pupulinianum Bogarín & Karremans 2013.

Il Costa Rica con tutta la sua biodiversità è sicuramente un territorio molto interessante da esplorare per biologi, ricercatori e botanici. Già nel 19° secolo il ricercatore Auguste R. Endres trascorse sette anni alla scoperta, ricerca e raccolta della flora endemica del Costa Rica, in particolare orchidee. Nei suoi viaggi attraverso i Caraibi, descrisse una specie di orchidee del genere Trichocentrum. Più tardi, altri ricercatori trovarono una specie simile nel Sud del Pacifico e le assegnarono lo stesso nome di quella scoperta da Endres. Errore. Non era lo stesso fiore, affermò Diego Bogarin, ricercatore dell’Orto Botanico Lankester, Università di Costa Rica.
Le specie “mascherata” è stata recentemente descritta e rinominata da Bogarin e dal suo compagno di squadra Adam Karremans come Trichocentrum pupulinianum. La nuova scoperta non è stata casuale, ma è il risultato di cinque anni di sforzi, durante i quali gli scienziati, prima effettuarono una analisi storica sulle rice di Endres e poi una valutazione morfologica delle specie situate nel sud del Pacifico. Chi era Endres? Quali aree del paese ha esplorato? Endres, ad esempio, non ha mai esplorato la regione del Pacifico del Costa Rica.
Gli esperti hanno stabilito che “l’orchidea situata nella regione atlantica era diversa da quello del Pacifico”.

Trichocentrum pupulinianum è stato nominato in onore del botanico italiano Pupulin Franco, importante ricercatore nel Lankester Botanical Garden e studioso del genere Trichocentrum.

Nota: dedico questo nuovo post a Emanuela di Padova, assidua lettrice di orchids.it e appassionata delle orchidee. Nella sua piccola serra ne coltiva già una trentina – mi disse con orgoglio, ieri sera al telefono, e poi aggiunse:
“Ogni mattina, quando accendo il computer, mi collego subito al suo sito alla ricerca di nuove notizie”
Grazie Emanuela, a volte una telefonata ti trasmette più calore di una e-mail o di un “like” su Fb! e questo articolo è tutto per lei!

Libro Orchidea; parte 2

Parte: 2

CAPITOLO 5 Sognando la serra amatoriale per coltivare orchidee.

5.1. Primi problemi da risolvere.
Per evitare brutte sorprese con la legge, prima di decidere qualità, dimensione e stile della serra dei sogni è indispensabile analizzare la situazione urbanistica del territorio in cui si vive. La serra, piccola o grande che sia è un immobile e come tale è soggetto alle normative di legge che regolano la pianificazione urbanistica del territorio. In materia urbanistica ci sono leggi e normative, europee, nazionali e regionali, che si aggiungono, e a volte si sovrappongono a quelle locali.

Con l’arrivo delle nuove tecnologie rivolte alla produzione di energia rinnovabile (pannelli fotovoltaici) sono entrate in vigore nuove leggi in aggiunta alle prescrizioni urbanistiche già esistenti. A grandi linee le serre si suddividono in due tipologie: mobili e fisse. Entrando nel merito legislativo, va ricordato che i vari livelli istituzionali legiferano in modo autonomo, e pertanto, quando si decide di costruire una serra sia essa fissa o mobile è necessario prendere in esame l’intera mole di norme e regolamenti in vigore.

Nota per la tipografia: la foto è stata ricavata dal sito europrogress” vedere la dimensione e la qualità
foto 48 E’ considerata serra mobile, una struttura rivolta alla protezione stagionale delle colture, non dotata di fondazioni, costruita in legno o tubolare metallico e con copertura degli impianti in film plastico. Essa può essere ancorata al suolo con sistemi di bloccaggio ed è subordinata alla comunicazione al sindaco. Rientrano nella tipologia di serre fisse, quelle dotate di fondazioni e muri di cinta.

Foto 2: serra fissa
Nota per la tipografia: la foto è di piccole dimensioni è stata incollata dall’archivio fotografico di SerreGiardini, serve la stessa a misura grande.
foto 49 Conoscere la differenza tra serra mobile e serra fissa è un valido aiuto nelle fasi iniziali, ad esempio, nei casi in cui non si può ottenere la canonica concessione edilizia, sarà possibile optare per la serra “mobile”, installabile con una dichiarazione di inizio lavori, o una semplice comunicazione al Sindaco. Quanto già scritto, vale anche se si decide di installare una piccola serra su un lastrico solare o sulla terrazza. In questi casi possono intervenire ulteriori vincoli di carattere architettonico.

Prima di avventurarci in edificazioni incerte è quindi utile affrontare i vari adempimenti burocratici. Molti amici orchidofili hanno dovuto chiudere con la coltivazione delle orchidee proprio per problemi urbanistici. Prima o poi si incontra sempre il vicino o l’amico zelante (eufemismo), che trova il tempo per fare qualche denuncia.

5.2. Individuare lo spazio per la serra.
Quando il sogno della serra per coltivare orchidee esotiche nasce insieme alla costruzione di una nuova dimora, ci troviamo nella situazione ideale perché possiamo valutare le varie soluzioni, insieme al progettista.
In questo caso le dimensioni e lo stile della serra saranno solamente legate alle disponibilità economiche ed alla creatività dell’architetto.
Non sempre, in sede di progettazione di una nuova casa, il tecnico incaricato ci propone anche uno spazio per coltivare le piante esotiche. Soprattutto in Italia, a differenza di altri paesi, manca la cultura del verde. manca quella sensibilità proggettuale, che considera gli spazi da adibire alla vita delle piante, parte integrante dell’abitare e non onere accessorio. Stante questa situazione, purtroppo, per soddisfare la nostra prorompente passione dobbiamo trovare soluzioni postume:

1. Disponibilità di ampi spazi esterni dove poter edificare la serra in un corpo isolato.
Questa è sicuramente la situazione più auspicabile, ma anche la più costosa, perché bisogna edificare una struttura del tutto indipendente da eventuali corpi edilizi esistenti. Nella fase di studio va data massima importanza alla disponibilità di luce solare per gran parte delle ore del giorno; vanno quindi scelti spazi lontani almeno cinque metri da altri edifici esistenti e da alberature ad alto fuso. Altro punto fondamentale da analizzare preliminarmente è la disponibilità degli allacciamenti ai servizi: energia elettrica, gas e acqua potabile.

2. Addossare la serra, ad un corpo esistente.
Con questa soluzione si ottengono buoni risultati in termini di costi e di consumi. Inoltre, creando una struttura con linee architettoniche in armonia con l’esistente, può nascere veramente la serra dei sogni, il classico giardino d’inverno godibile anche come loggia luminosa. In questo caso è importante che lo spazio dove si installa la serra sia a sud sud-ovest della casa.

3. Utilizzo dei lastrici solari nelle abitazioni con tetto piatto ed accessibile.
Chi abita in case di questo tipo, anche se non dispone di spazi scoperti, può realizzare ugualmente il sogno della serra per le sue orchidee. C’è però un problema in più da risolvere: controllare l’ impermeabilizzazione della porzione di tetto adibita a pavimento della serra.

4. Sfruttare le ampie e soleggiate terrazze e terrazzini di cui sono dotati certi alloggi.
Fatte sempre salve le famose limitazioni urbanistiche, con un po’ di ingegno si possono realizzare delle graziose prospicienze chiudendo una porta finestra o attrezzando qualche ampia vetrata.

5. Inventare piccole soluzioni, ovvero le serre, che chiameremo “domestiche”.
Il pensiero va dritto al vecchio acquario in disuso parcheggiato in magazzino, non c’è nulla di più facile che far diventare “orchidario” un ex acquario.

5.3. La Serra in giardino.

foto 50 Dopo aver individuato la nostra piccola o grande porzione di terreno da destinare a serra, e sistemati anche un pò di conti in tasca, finalmente abbiamo deciso le misure: larga cinque metri e lunga sei. Si dirà:
“Non sarà troppo grande?”
In effetti, trenta metri quadri di spazio coperto prefigurano una bella serra, ma la serra non sarà mai troppo grande, questo ce lo ricorda anche l’amatissima Rebecca Tyson Northen in uno dei suoi libri. Quando lei ci dava i suoi consigli su come farci la serra, eravamo negli anni sessanta del secolo scorso, ma ancora nessuno meglio di lei è riuscito a far sintesi delle emozioni e delle aspirazioni del collezionista di orchidee tropicali. Quel libro porta il titolo (LE ORCHIDEE) edizioni Rizzoli 1981, ora introvabile e mai più ripubblicato in lingua italiana. Riscopriamo la sua delicata maniera espositiva andandoci a leggere alcuni paragrafi del suo libro:

foto 51“Il primo consiglio che ci sentiamo di dare ad un futuro possessore di serra, è di farsene una abbastanza grande da poter contenere il suo hobby in sicuro e costante aumento. Una serra piccola può dare l’impressione di essere immensa, al principio, se la si paragona al piccolo posto che normalmente si concede alle piante da appartamento. Ma è leggendario che i coltivatori di orchidee non sono mai soddisfatti: continuano ad aumentare le proprie collezioni.
All’inizio, forse, non vi interessate che di una specie o due e vi ritenete contenti con pochi esemplari di ciascuna. Ma è inevitabile che vi innamoriate quanto prima di un’altra specie e poi di un’altra ancora. E allora comprerete due o tre piantine dell’una e poi due o tre piantine dell’altra. E le piantine diventeranno piante adulte, e le piante adulte avranno presto bisogno di essere divise. Così, in un tempo relativamente breve, i vostri bancali saranno affollatissimi e a questo punto non potrete che unirvi alla generale lamentela: «Oh! se avessi un po’ più di posto!».

Vi suggeriamo quindi di non cambiare automobile per qualche anno o di fare una vacanza meno dispendiosa, per potervi così permettere di costruire una serra piuttosto grande per le orchidee. Vi sono anche altre ragioni per non farsi una serra troppo piccola. Una serra molto piccola è difficile da organizzare; lo scarso volume d’aria si scalda rapidamente e si raffredda rapidamente, creando un forte sbalzo di temperatura. E lavorare in una serra piccola è difficoltoso. Le infiorescenze grandi si intrecciano le une alle altre, le piante non hanno spazio sufficiente e la mancanza di spazio determina cattive condizioni di coltura. La dimensione minima (che non permetterà la coltivazione di un gran numero di esemplari) è di circa 2 metri e mezzo per 3 metri. Questa ampiezza permette di avere due bancali laterali e un passaggio al centro. Se invece l’ampiezza è di 3 metri e 70 centimetri, potrete avere due bancali ai lati e uno in centro, con due passaggi. Una serra di 4 metri di ampiezza per 5-6 metri di lunghezza vi offre abbastanza spazio per coltivare un numero veramente soddisfacente di piante e, nello stesso tempo, non è troppo grande perché una persona anche con altri impegni non possa occuparsene nel suo tempo libero.

Il costo di una serra e dell’equipaggiamento non si raddoppia, quando lo spazio si raddoppia; è di metà o di un terzo in più. In altre parole, potrete avere uno spazio doppio con un costo maggiorato appena di metà o di un terzo. Per avere un’idea dei tipi e dei costi di una serra, chiedete i cataloghi a diversi rivenditori e fabbricanti; visitate anche qualche serra nella regione dove abitate. Parlate ai proprietari, cercate di scoprire quali sono i difetti di certi tipi di impianti e quali ne sono le caratteristiche interessanti, in modo che possiate evitare i primi e adottare le seconde. Informatevi sull’efficienza dei termosifoni e prendete nota di ogni particolare, controllando quali dei sistemi adottati possono essere adatti per le orchidee. Esaminate accuratamente il rapporto fra le forme delle serre e lo spazio che ciascuna offre per i bancali. Forse, il tipo di serra più economico, da un punto di vista dello spazio e dell’efficienza del lavoro, è ancora quello che è in uso da molti anni.


Alcuni stili moderni possono attrarre per considerazioni di carattere estetico, ma prima dell’estetica vengono i requisiti fondamentali e necessari per una buona conduzione. Una serra può costituire un’unità a sé, o può essere appoggiata a un fabbricato esistente. In quest’ultimo caso, può essere congiunta a un estremo, con tutta la lunghezza della serra che corre all’esterno, oppure può essere appoggiata al fabbricato per un fianco, con il muro di questo che serve come muro laterale della serra stessa. Meno opportuna per la coltivazione delle orchidee è un passaggio, coperto e chiuso da vetri, tra due fabbricati, la casa e il garage, ad esempio. Questa soluzione non offre sufficiente luce, ma se si scelgono tipi di orchidee adatti per questo ambiente, anche questa soluzione può essere accettata e una serra così concepita darvi buone soddisfazioni. Nello scegliere il luogo per la serra, occorre tenere presente che questa deve poter ricevere tutta la luce possibile, in tutto l’arco del giorno. Se oltre che la serra state facendo i piani di costruzione anche di una nuova casa, allora potrete riservare ad essa un posticino buono; trovare invece una soluzione ideale in uno spazio dove esistono già costruzioni talvolta non è compito facile.”>

5.4. Scelte preliminari.
Il nostro sogno comincia a prendere corpo e dopo aver risolti gli aspetti burocratici, individuati gli spazi e decisa la dimensione, ora possiamo scegliere i materiali per costruirla. Se paragoniamo l’edificazione della nostra serra ad un viaggio verso una meta sognata, ora ci troviamo ad un bivio di importanza strategica:

1. Scelta della Ditta costruttrice.

2. Modalità e tipologia delle infrastrutture.

foto 52 La scelta della Ditta costruttrice assume un ruolo fondamentale per la buona riuscita del progetto, questa deve garantirci la qualità dei materiali e nel contempo la pazienza nel fornire risposte alle nostre mille domande, in buona sostanza deve nascere il “feeling” fra noi e il fornitore. Un concetto questo, che potrà sembrare scontato, ma non lo è. Non dobbiamo commettere l’errore di accontentarci delle prestazioni del bravo “artigiano generico”, nè avere la presunzione di saper far tutto. Il giusto equilibrio si trova consultando le ditte costruttrici di serre amatoriali, ad esempio “Serre Giardini”, azienda di medie dimensioni che propone la qualità delle serre professionali applicata a quelle amatoriali.
Scelta la ditta a cui affidare la costruzione della serra, le prime opzioni da valutare sono, la modalità e la tipologia delle infrastrutture da realizzare:

1. effettuare uno sbancamento del perimetro interno alla serra – anche profondo un metro – per guadagnare in altezza ed in risparmio energetico.

2. costruire un muretto di cinta, sul quale poggiare l’intera struttura.

3. apoggiare la serra direttamente al livello del suolo.
In ogni caso il pavimento interno alla serra deve essere drenante. Per ottenere un’ottimo drenaggio si effettua un lieve sbancamento del suolo (20 centimetri) e si rimpingua con ghiaia macinata che servirà da polmone assorbitore. Nel caso di costruzione semi interrata si effettua uno sbancamento maggiore a quello desiderato. I camminamenti di servizio potranno essere impreziositi con lastroni, a forma irregolare, di pietra viva. Durante questa fase, che possiamo definire di fondazione, non dobbiamo dimenticarci di pensare alle varie infrastrutture necessarie per gli allacciamenti:

1. Condotte sotterranee per l’energia elettrica, il gas e l’acquedotto.

2. Vasca sotterranea o in superficie per raccogliere le acque pluviali provenienti dalle grondaie.

5.5. Il sogno prosegue.
foto 53 Abbiamo già preparato la base sulla quale posare la serra ed ora, con l’aiuto del nostro amico costruttore, possiamo individuare l’agibilità complessiva: modalità di accesso alla serra, materiali e impiantistica. La porta di ingresso, nel limite del possibile, conviene collocarla dal lato più stretto e possibilmente verso sud. Così facendo si ottiene un’ottima resa del sistema di raffreddamento della serra. Per quanto riguarda i materiali ha molta importanza la modularità dei suoi elementi strutturali già prefabbricati, questa peculiarità, consente maggior facilità di montaggio e smontaggio. Possiamo suddividere i materiali di costruzione della serra, in tre standard:

1. Standard di elevata qualità, che prevede strutture portanti in alluminio, pannelli perimetrali in vetro camera ed elementi di copertura in policarbonato.

2. Standard di media qualità, che prevede strutture portanti in profilato di ferro zincato e pannelli di policarbonato.

3. Standard minimale, che prevede strutture portanti in tubolare zincato e copertura in nylon a foglio semplice o doppio e gonfiato.

L’esperienza personale mi spinge ad affermare che, esclusa la soluzione a “telo” singolo, le altre sono quasi equiparabili sotto l’aspetto della resa termica: la differenza sta tutta nella durata e sulla diversa qualità estetica.

L’effetto “serra”, ottimo sistema per catturare l’energia solare, pone problemi di sovratemperature, generalmente risolto con finestre di apertura variamente automatizzate. Le aperture, se da un lato arieggiano e raffrescano la serra, d’altro canto abbassano drasticamente l’umidità interna, creando in tal modo periodici “stress” secchi.
Nella serra ideale per coltivare orchidee, il mantenimento di un alto (60/70%) e costante valore di umidità è molto importante, ed il raffrescamento ottenuto esclusivamente con aperture – per i motivi già esposti – può essere dannoso.
Non servono aperture supplementari alla porta di ingresso, i parametri (umidità – temperatura) interni saranno gestiti da appositi sistemi di coibentazione, umidificazione e ricambio interno dell’aria.
La misura in altezza delle pareti assemblate con moduli prefabbricati sarà stabilita a seconda che esse, siano poggiate ed ancorate sulla base della fondazione, piuttosto che sul muretto di cinta. In entrambi i casi il risultato complessivo potrà vedere le pareti alte minimo due metri, mentre il colmo del tetto, tenuto conto delle canoniche pendenze (30/35%), potrà superare i tre metri di altezza.
foto 54 Due aspetti molto importanti da considerare in fase di costruzione del tetto sono:

1. Intelaiatura portante e sovrastante il tetto di 40 centimetri dove poggiare la rete ombreggiante.

2. Grondaie di raccolta dell’acqua piovana.

Le uniche aperture ed immissioni di aria dall’esterno in questo modello di serra saranno offerte dalla porta di accesso (80-100 cm.), e sul lato opposto, dai pannelli alveolari per il raffreddamento interno “cooling”. Qualora si decidesse di coprire il tetto della serra con doppio nylon gonfiabile, si dovranno installare tubature curve e mantenere una intercapedine di aria non superiore a 10 cm. fra i due teli, che sarà gestita da un ventilatore centrifugo pilotato da un pressostato.

5.6. Organizzazione interna
foto 55 La gran parte delle oltre 25000 specie di orchidee sono epifite, questo implica una particolare organizzazione interna della serra. I supporti interni siano essi bancali, ganci o reti di appoggio, dovranno rispondere alle esigenze vegetative delle piante e cioè:

1. poter ispezionare tutte le piante esposte.

2. disporre di bancali a gradini per ottenere il massimo utilizzo degli spazi, in un bancale largo due metri si possono ricavare sei gradini – tre per lato – che ci consentiranno di incrementare del 25% lo spazio utile.

3. allestire i gradini – dove poggiano i vasi delle piante – con rete metallica zincata; in commercio si trovano varie misure e sezioni. Questa soluzione garantisce, robustezza, resistenza nel tempo e massima diffusione della luce fra le piante.

4. collocare all’apice centrale della piramide del bancale, una rete verticale. Così facendo si ottiene una griglia dove poter appendere le zattere delle orchidee epifite che richiedono maggior luce.

Nella realizzazione dei bancali è indispensabile prevedere uno spazio di “camminamento e lavoro” attorno ad essi non inferiore a settanta centimetri. Il primo gradino di supporto dei vasi, può essere collocato ad un’altezza di settanta-ottanta centimetri dal suolo, in ogni caso si deve calcolare un giusto equilibrio delle masse fra la base ed il soffitto. E’ utile ricordare che con una corretta organizzazione degli spazi, in una serra di orchidee, si possono ottenere quattro ed anche cinque livelli di microclimi diversi.

foto 56 L’impiantistica interna per la gestione della serra, dovrà godere di un alto tasso di automazione. Questo si ottiene con un controllo complessivo, sia in loco che remoto, pilotato da un (PLC). Controllore logico programmabile, letteralmente (Programmable Logic Controller) specializzato in origine nella gestione o controllo dei processi industriali. Il PLC esegue un programma ed elabora i segnali digitali ed analogici provenienti da sensori e diretti agli attuatori presenti in serra.

Un buon livello di controllo e gestione automatici si ottiene anche con l’ausilio di termostati e umidostati digitali. Complessivamente la serra dovrà essere dotata dei seguenti attuatori di sevizi:

1. Sistema di riscaldamento pilotabile. La scelta della fonte sarà determinata dalle disponibilità in loco. In caso sia disponibile energia elettrica prodotta con pannelli fotovoltaici si può optare per la pompa di calore, in altri casi si può ricorrere ad altre fonti energetiche, non da ultima la stufa a pellet.

2. Ventilatori per il movimento interno dell’aria.

3. Aspiratore per il ricambio dell’aria interna.

4. Pompa per le bagnature, ed i trattamenti da 10-20 bar.

5. Pompa ad alta pressione (70 bar), filtri, ugelli, porta ugelli e tubi di raccordo per la nebulizzazione interna (FOG).

6. Pompa per il ricircolo dell’acqua nei pannelli (cooling) e relativo kit modulare.

Tutte le apparecchiature elencate sopra vanno organizzate e gestite da un quadro di protezione, comando, e controllo di tutte le funzioni richieste, comprese alcune prese di corrente e qualche punto luce per le normali esigenze operative interne. Sembra una centrale elettronica, ma appena inizieremo ad affrontare i vari aspetti funzionali, capiremo che non è poi tanto difficile. Se si opta per la soluzione (PLC), tutto diventa più semplice e meno costoso, però serve qualcuno che sappia implementare le programmazioni software.

CAPITOLO 6 – Controllo e gestione di temperatura e umidità interne.

6.1. Supporti tecnologici.
La temperatura interna alla serra va tenuta negli standard voluti con riscaldamento supplementare in inverno e con il raffrescamento nelle stagioni calde. Il riscaldamento invernale va scelto tenendo conto delle disponibilità tecnologiche esistenti ed individuando la fonte energetica più economica: gasolio, gas metano, geotermia, pompa di calore, stufa a pellet o propaggine dell’abitazione. A prescindere dalle fonti, le soluzioni tecniche, possono essere di tre tipi:

1. Generatori di aria calda.

2. Radiatori o tubi alettati, collegati con il riscaldamento dell’abitazione.

3. Tubazioni a pavimento, con acqua a bassa temperatura, collegati l’impianto dell’abitazione.

Riscaldare costa e quindi vanno trovate tutte le strategie per risparmiare. Nella stagione invernale, molti coltivatori usano proteggere internamente la serra con nylon supplementare dotato di piccole camere d’aria a forma ovale. Il raffrescamento, o meglio, il giusto regime della temperatura e dell’umidità interne durante i mesi caldi è dato dalla magica simbiosi di due parole: “fog e cooling”.

Qualche anno fa, mettiamone più di venti, le serre amatoriali per la coltivazione delle orchidee erano poche e generalmente autocostruite. Le motivazioni erano tutte legate ai costi proibitivi dei materiali e delle implementazioni tecnologiche, e quei pochi appassionati di orchidee si cimentavano nella coltivazione in condizioni veramente difficili.
Il problema principale che si presentava al coltivatore dilettante era il controllo della temperatura massima in serra. Nelle serre a coltivazione “standard” (ortaggi, talee ed altro) è sufficiente il raffrescamento ottenuto con aperture, mentre le nostre serre amatoriali devono rispondere anche al costante mantenimento dell’umidità relativa dell’aria, non garantito dalle occasionali aperture. La tecnologia che consente la corretta gestione della temperatura e della umidità di una serra amatoriale è quella già applicata su larga scala nelle serre professionali e cioè: nebulizzazione e raffrescamento evaporativo. L’impiantistica necessaria si realizza con due applicazioni tecnologiche:

1. Impianto nebulizzante interno alla serra, detto “sistema fog”.

2. Impianto di raffrescamento, detto “sistema cooling”: immissione di aria dall’esterno attraverso pannelli alveolari bagnati.

L’aria entra per depressione interna provocata da estrattori posizionati nella parte alta del lato opposto ai pannelli stessi. Nel passato questa tecnologia era economicamente compatibile solo per grandi serre, ora i costi sono abbastanza contenuti ed è possibile usarla anche per serre amatoriali.

6.2. Qualche nozione di termodinamica.
Il processo termodinamico che fa modificare lo stato dell’aria può essere definito “controllo adiabatico”.

ADIABATICA – dal greco adiábatos, impenetrabile al calore-. Indica la trasformazione subita da un gas o vapore quando il passaggio da uno stato iniziale a uno finale avviene senza scambio di calore con l’esterno. Durante una espansione adiabatica, un fluido si raffredda, durante una compressione adiabatica un fluido si riscalda. Ogni trasformazione adiabatica è quindi accompagnata da variazioni di energia interna.
ARIA – L’aria è una miscela di azoto (78 %), di ossigeno (21 %) e di piccoli quantitativi di altri gas. L’aria atmosferica contiene anche vapore acqueo o (umidità), se non contiene vapore viene detta aria secca mentre nel caso opposto viene detta aria umida.
foto 57 Il processo adiabatico non prevede apporto di energia termica dall’esterno: l’acqua presente nei pannelli alveolari viene finemente nebulizzata dall’aria e immessa nell’ambiente. Il processo necessario per la trasformazione e/o mantenimento dell’acqua da liquido a vapore viene fornito dall’aria immessa, che quindi diminuisce la propria temperatura.
Le proprietà termodinamiche dell’aria umida sono regolate dalle leggi della fisica, per poter capire i fenomeni che ci interessano, evidenziamo alcuni concetti:

1. Temperatura a bulbo asciutto espressa in °C è quella misurata da un termometro ordinario.

2. Temperatura a bulbo bagnato espressa in °C è quella rilevata con un termometro il cui bulbo sia stato ricoperto da una garza bagnata con acqua pura ed esposto ad una corrente d’aria in moto turbolento (velocità maggiore di circa tre m/s). Il termometro dove essere schermato e protetto da eventuali effetti radianti.

3. Umidità relativa (RH) è la percentuale di umidità presente nell’aria rispetto a quanta ne sarebbe contenuta se saturata alla stessa temperatura. Solitamente è espressa come percentuale.

4. Temperatura al punto di condensa espressa in °C, o temperatura di rugiada è quella che provoca la condensa dell’acqua contenuta nell’aria. In questo stato l’umidità relativa dell’aria è del 100% e le temperature a bulbo asciutto o bagnato sono le stesse.

5. Saturazione adiabatica è il trasferimento di una certa quantità del calore sensibile dell’aria (calore che può essere percepito) sotto forma di calore latente aggiunto (calore non percepito). Durante questo processo il calore totale in un determinato volume d’aria rimane esattamente lo stesso, ma la proporzione tra calore sensibile e calore latente è stata modificata. Quindi, aggiungendo acqua vaporizzata alla massa di aria presente in serra, si diminuisce la temperatura fino a raggiungere la sua saturazione: “temperatura di rugiada”.
Come possiamo ottenere questo effetto:

1. Con il sistema “fog” che ci consente di giocare su due parametri strettamente legati, (temperatura ed umidità dell’aria), e fortemente condizionati dal riscaldamento dell’aria stessa per l’effetto serra.

2. Con il sistema “cooling” che interviene quando il sistema “fog” da solo ci porta fuori soglia.

Il sistema cooling si avvale sempre della nebulizzazione dell’aria, per ottenere la variazione di stato, ma in aggiunta, ricambia anche l’aria calda interna, con aria esterna più fresca. I due sistemi di raffrescamento sono strettamente interdipendenti è utile installarli entrambi.

6.3. Concetti pratici del sistema cooling.
Una serra amatoriale per la coltivazione delle orchidee non può essere paragonata a nessun tipo di coltivazione professionale, sia per la densità delle piante alloggiate ed anche per la loro particolare collocazione. L’equilibrio complessivo si perfeziona col tempo, con gli errori e con la conoscenza di ogni angolo della serra: come si ama spesso dire, ogni serra di orchidee ha una sua peculiarità. Il controllo della temperatura interna, sempre legato all’umidità relativa dell’aria è il problema principe da risolvere. Il buon rendimento dipende molto dal giusto equilibrio fra la dimensione della parete di raffrescamento (pannelli alveolari) e la massa d’aria aspirata.

Ci sono formule matematiche che stabiliscono parametri dei rapporti massa/tempo di estrazione dell’aria interna. Una volta fatti i calcoli è buona regola installare un aspiratore più potente di quanto necessario; può essere usato a velocità ridotta. Stesso discorso vale per la parete raffrescante, mettiamo pure un pannello in più. I pannelli alveolari vanno posizionati nella parte bassa di un lato più stretto della serra ed in opposizione a quello dove è installato l’estrattore, che generalmente coincide con la porta di ingresso.

L’installazione dei pannelli alveolari nella parte bassa della parete ci consente di creare una porzione di serra molto fresca dove coltivare tutte le nostre specie da serra fredda. Il cono di aria calda che si forma sotto il tetto può essere tranquillamente miscelato da un ventilatore interno posto il più alto possibile. I pannelli alveolari possono essere installati nella parete a nord oppure in quella a sud: con i pannelli posti a nord si ottengono due climi distinti in serra, mentre con la soluzione opposta di può disporre di una serra con temperatura interna più uniforme.

Nei paragrafi precedenti si è enunciato il principio della saturazione (umidità relativa dell’aria 100%)
La saturazione dell’ambiente presuppone di rilevare la stessa temperatura sia essa misurata a bulbo asciutto che rilevata a bulbo secco. La massima discordanza fra le due misure si ha con l’aria secca.
Quindi, disponendo di due termometri, uno dei quali attrezzato a bulbo bagnato, si può tarare la giusta velocità dell’estrattore e la corretta quantità di acqua che attraversa la parete raffrescante e miscelazione interna dell’aria, fino a raggiungere il compromesso desiderato fra temperatura massima compatibile ed umidità relativa dell’aria. I valori di compromesso medio possono essere 30 C° di temperatura massima con 60/70% di umidità relativa, inoltre, per garantire un buon ambiente di vita alle orchidee è utile mantenere costante l’umidità relativa dell’aria a parità di temperatura: esempio 30° – 60/70% costanti e non 30° con oscillazioni 40- 90%.

6.4. Ombreggiatura della serra
foto 58L’ultimo problema da risolvere prima di passare al collaudo vero e proprio della serra, è il controllo della luce solare. La gran parte delle orchidee vive in habitat dove la luce giunge filtrata dagli alberi; poche specie di orchidee accettano la luce diretta del sole. Pertanto, una serra pensata per coltivare orchidee deve essere dotata di sistemi ombreggianti. L’ombreggiatura si ottiene facilmente con l’ausilio di reti di plastica di varia gradazione, di filtraggio: dal 30% al 90% della luce solare.

Posto che la rete va collocata esternamente alla struttura – l’interno deve rimanere totalmente disponibile per la collocazione delle piante – è buona norma tenere la rete staccata di almeno 30 cm dal tetto della serra, questo per consentire la circolazione dell’aria fra tetto e rete, con lo scopo di evitare indesiderabili accumuli di calore. La gradazione ombreggiante deve tener conto del livello di trasparenza della serra e delle varietà di orchidee in coltivazione. Un filtraggio del 50-60% può rappresentare una base media accettabile: ferme restando le valutazioni specifiche dei singoli casi.

foto 59 Giunti a questo punto, la serra dovrebbe essere in condizione di funzionare. L’avvio, nella più rosea delle ipotesi, riserva sempre qualche sorpresa, l’ambiente interno raggiungerà l’equilibrio biologico dopo mesi o forse anni. Nella fase iniziale sarà conveniente coltivare piante relativamente resistenti e poco costose. Una collezione di orchidee non si può improvvisare, essa cresce impercettibilmente intorno a noi, giorno per giorno, ed insieme divide gioie e delusioni.

CAPITOLO 7 Il sogno è finito, ora vediamo passo dopo passo, come è nato il prototipo “ORCHIDEA”
7.1. Finalmente funzionante.
Il sogno è finito, sì, nei vari capitoli di questo libro, abbiamo sognato ed esplorato con la fantasia, una piccola parte dei miti che hanno scritto la storia delle orchidee. Abbiamo anche accarezzato e studiato l’idea di costruirci una bella serra per le orchidee: il sogno si è trasformato in realtà.

foto 60 Oggi 12 Agosto 2013, comincia a pulsare di “energia propria” il prototipo della nuova serra amatoriale “ORCHIDEA”, pensata “chiavi in mano”, per coltivare orchidee ed altre piante esotiche. Quel sogno, nato la scorsa primavera nel “buen retiro” di Orchids Club Italia, in occasione della mostra di Ortogiardino a Pordenone è diventato realtà.
Durante i giorni della mostra, ammaliati dalle orchidee, dai tarallucci e dalle abbondanti bollicine dei “fruit” di prosecco, si discuteva su come dovrebbe essere la casa ideale per coltivare orchidee esotiche.
Luca Bedin, titolare di SerreGiardini presente in fiera con il suo stand, fine osservatore ma sempre parco di parole, forse cogliendo il filo dei discorsi, esordì:
” Guido, vuoi che proviamo a costruire una serra per coltivare orchidee?”
Il resto è storia attuale. E’ nata la collaborazione con SerreGiardini ed ora cominciamo a veder maturare i primi frutti.
Si dirà, ma dov’è la notizia, di serre amatoriali ce ne sono di tutte le misure, qualità e prezzi.
Sì è vero, ma nell’attuale mercatro si trovano tutte scatole vuote da “attrezzare” a posteriori, con oneri ed imprevisti, a volte insuperabili. La notizia è semplice e disarmante: serra automatizzata, studiata, testata e già attrezzata per ospitare orchidee esotiche “chiavi in mano”, ovvero quello che prima non c’era.

foto 61 Ecco, amiche ed amici orchidofili, vi invito a ripercorrere con a me, tutte le fasi che hanno reso realtà il sogno di ognuno di noi, realtà maturata con il frutto delle mie esperienze di vita in simbiosi con le orchidee. Per creare le condizioni ideali alla loro vita ho sperimentato varie soluzioni: le vedremo insieme.
In questa serra si troveranno bene le orchidee, ma anche altre piante. Sono molto soddisfatto del lavoro fatto, devo dire la verità. Con un pizzico di vanità mi piacerebbe immaginarla come la mia “opera matura”, da mettere a disposizione di quanti intendono e intenderanno avventurarsi nella coltivazione delle orchidee esotiche.
Tutto questo, ha preso forma grazie alla lungimiranza di Luca Bedin, titolare di SerreGiardini, senza la sua disponibilità il sogno sarebbe rimasto tale.

7.2. 10 Maggio 2013 iniziano i primi lavori di sondaggio e posizionamento
Gli spazi a mia disposizione, per sistemare la serra, erano veramente pochi. Il tutto doveva essere completamente rimovibile perchè il prototipo, una volta collaudato (due cicli vegetativi), sarebbe stato rimosso.
Sono riuscito a ricavare quei 30 metri quadri, a nord della mia proprietà, rubandoli all’orto di famiglia.
foto 62 Proprio per quanto scritto poco sopra, non erano possibili fondazioni e quindi, dopo aver effettuato un sommario livellamento del suolo, abbiamo proceduto alla sistemazione della base su cui appoggiare la serra. Si è deciso di utilizzare i moduli di cemento in uso per la delimitazione delle aiuole nei giardini.

foto 63 La soluzione si è dimostrata molto funzionale. Ne è uscito un basamento (20cm di larghezza x 6 cm di spessore), molto solido e facile da posare in quanto gli elementi (1 metro di lunghezza) sono dotati di incastro, particolare che favorisce la loro unione. Per garantire una sufficente stabilità al suolo sono stati prevvisti degli ancoraggi agli angoli.

foto 64 A questo punto, sistemata la base del perimetro, abbiamo predisposto le tubature sotterranee, per l’impianto elettrico e per i rifornimenti idrici. Per poter realizzare il pavimento drenante, si è dovuto sbancare una decina di cm. nel terreno interno della serra.

foto 65 Nel perimetro interno è stato posato un telo “anti erbe”. Nel nostro caso, il telo assolve alla precisa funzione di contenimento del pietrisco (ghiaia macinata) drenante, per facilitarne un eventuale recupero postumo. Inoltre la posa del telo impedisce la crescita di erbe indesiderate e crea una sorta di legame stabilizzante fra tutte le parti del sottofondo.

foto 66 Ecco il pietrisco da livellare internamente alla serra, circa 3 metri cubi di materiale. La principale caratteristica del pietrisco è la sua funzione di spessore drenante, che evita ristagni di acqua, e nel contempo garantisce un buon livello di umidità al suolo. Altra sua ottima caratteristica è la sua duttilità a stabilizzare pavimentazioni a “secco” sovvrastanti, cioè senza uso di cementificazione.
foto 67 La sezione dei pezzetti di pietrisco macinato può variare da 0,5 a 1 cm.
Con questa operazione, i lavori preminilari sono terminati e si può dare inizo al montaggio della serra.
la struttura complessiva della serra è in alluminio con profilati brevettati e modulari. Le pareti sono in vetro camera da 0,8 cm, mentre il tetto e le sue appendici sono in policarbonato da 2,4 cm.

7.3. Inizia il montaggio della serra.
Alle ore 8 di giovedì 16 maggio, puntuali come un orologio svizzero, arrivarono i tecnici di SerreGiardini, Stefano e Antonio, con il carico “prezioso” da installare.

foto 68 Non potei trattenere la mia incredulità. Mi pareva impossibile che in quel furgone ci fosse tutto il materiale neccessario per allestire la serra, ma poi, vista la sua inusuale lunghezza, cominciai a tranquillizzarmi. Per la verità qualche accessorio mancava, ma sarebbe giunto pochi giorni dopo.

foto 69 Un occhiata alla situazione generale, i complimenti per la buona qualità dei lavori preliminari di basamento, e via al montaggio. La solerzia e la sicurezza dei tecnici davano l’idea di musicisti davanti allo spartito letto ed eseguito tante altre volte.

foto 70 Si parte con la distribuzione dei moduli profilati, per poi procedere all’assemblaggio dei longaroni di basamento sui quali saranno successivamente agganciati con viti in acciaio, tutte le strutture verticali.
Ero preoccupato che la struttura combinasse con la base in cemento preparata in precedenza: per fortuna, tutto bene!

foto 71La bella giornata di sole facilita le operazioni di assemblaggio. Già sono state issate le quattro colonne agli angoli della serra e si sta procedendo alla sistemazione dei longaroni laterali che assolvono anche alla funzione di grondaie raccoglitrici della preziosa acqua piovana.

foto 72 Sono trascorse poco più di due ore e “l’ossatura” strutturale della serra comincia a prendere forma. I moduli delle pareti danno già l’idea di come sarà l’opera compiuta e intanto si iniziano ad installare i moduli che costituiranno il tetto. I profilati dovranno assolvere a due funzioni essenziali: portanza e tenuta stagna.

foto 73 Le operazioni procedono senza intoppi, cerco di rendermi utile, ma vedo che tutto è stato proggettato alla perfezione, tanto che le gestualità dei nostri tecnici mi mandano con la memoria alle costruzioni “LEGO” e al piacere della loro composizione.

foto 74 Le “travature” del tetto sono state sistemate ed ora si procede al montaggio del “sopratetto”, una struttura in tubi di alluminio sistemata circa 40 cm. sopra il livello del tetto, con la funzione di sostenere la rete ombreggiante staccata dal tetto. Questo garantirà la formazione di un’intercapedine arieggiata fra rete e tetto che bloccherà eccessivi accumuli di calore.

foto 75 A questo punto può iniziare il posizionamento dei pannelli di policarbonato sul tetto, a copertura degli spazi previsti fra i profilati. I pannelli di policarbonato, 2.4 cm di spessore, sono dotati di 8 “anime” interne e sono protetti da uno speciale trattamento contro i raggi del sole.

foto 76 La particolare conformazione dei profilati portanti, consente di proteggere ermeticamente il tetto da indesiderate infiltrazioni di acqua piovana, attarverso la facile applicazione di una guarnizione in gomma, appositamente studiata. La stessa tecnologia sarà applicata anche nelle pareti e in tutti gli altri punti di unione.

foto 77 La copertura del tetto è ultimata, una breve pausa pranzo, e poi si procede alle “finiture”. Bisogna tamponare con policarbonato gli spazi triangolari fra le pareti ed il tetto. Questa operazione deve tener conto dello spazio per l’aspiratore, che va individuato nella parte alta dei tamponamenti.

foto 78 Dopo qualche imprevisto iniziale, era la prima volta, l’aspiratore è stato provvisoriamente installato. Stante la mole ed il suo peso, si è deciso di studiare dei supporti aggiuntivi, per evitare vibrazioni pericolose, e per poter applicare la protezione esterna.

foto 79 Le pareti della serra, esclusa quella che ospiterà i pannelli del “cooling” sono costituite da vetrate di 2 metri di altezza per 1 di larghezza e vanno incastrate con precisione fra i vari profilati verticali.
La loro tenuta statica è garantita da una apposita sede, sia alla base che al vertice, il tutto bloccato da un profilato e dalla guarnizione in gomma.

fotot 80 E’ ormai sera, la serra è praticamente montata. Manca qualche finitura e l’installazione dei pannelli “cooling”. Siamo soddisfatti, anche Stefano e Antonio lo sono e ammirano il loro lavoro con un pizzico di orgoglio.
A loro va il mio ringraziamento, una bella giornata, un bel lavoro: grazie.

7.4. Le applicazioni accessorie che faranno funzionare la serra
I tecnici di SerreGiardini hanno montato la “scatola” trasparente, ma così, senza i lavori di funzionalità – che vedremo più avanti – la serra non può certo ospitare le orchidee esotiche.
Cari amici orchidofili, siamo giunti veramente al giro di boa: inizieremo a installare tutte quelle implementazioni tecnologiche accessorie, che renderanno la serra, ospitale e vivibile. La personalizzeremo con dei particolari “sentieri” di camminamento, con la realizzazione di bancali appositamente studiati per le orchideee, e non da ultimo, doteremo la serra delle tecnologie di raffrescamento: cooling e fog.
foto 81 Il proggetto di questa serra, proprio perchè doveva essere un prototipo, quindi modificabile e all’occorenza anche smontabile, non prevede alcuna struttura cementificata. Pertanto, i sentieri di camminamento sono stati realizzati con lastre di pietra viva a forma irregolare, poggiati a secco sopra la pavimentazione drenante in pietrisco.

foto 82 Direte voi:
“come riusciremo a tenere ferme quelle lastre, senza nessun ancoraggio in malta”
Innanzittutto la base di sottofondo in pietrisco è un ottimo supporto di ancoraggio, in secondo luogo, rimpinguando le fughe fra le lastre con sabbia di fiume di grossa pezzatura, si ottiene un ulteriore fissaggio e un delizioso effetto architettonico.

foto 83 L’ingresso della serra è stato impreziosito dal posizionamento, sempre a secco, di una gradinata di lastre in pietra della Lissinia, costituita da sedimenti pelagici che si sono depositati durante il periodo Cretacico. Gli spazi laterali alle lastre, ancora spogli, ospiteranno piante aromatiche di varie specie, che daranno il benvenuto gli ospiti che entreranno in serra.

foto 84 Finalmente è arrivato tutto l’occorrente per installare il sistema di raffrescamento adiabatico. Operazione delicata perchè è la prima volta che viene assemblato il tutto e soprattutto a livello sperimentale. L’insieme è costituito da una parete di pannelli alveolari di 15 cm. di spessore, da una pompa per il ricircolo dell’acqua attraverso i pannelli e da un sistema di raccolta dell’acqua stessa.

foto 85 Negli impianti cooling in uso, l’acqua viene raccolta da una “grondaia” di base, e poi convogliata in una vasca. In questo impianto, l’acqua decanta direttamente nella grande grondaia di recupero, che assolve anche alle funzioni di contenitore di riseva. La pompa ricircola questa acqua, mantenuta a livello da un galleggiante che apre e chiude la condotta di alimentazione.

foto 86 La parete di pannelli alveolari è stata ultimata. La pompa e i pannelli sono stati sistemati all’esterno del filo dei montanti di perimetro, per ottimizzare gli spazi interni. Sui montanti prospicenti i pannelli alveolari verrà applicata una rete elettrosaldata, utile per sistemare le orchidee da clima freddo. All’esterno verrà studiata una intercapedine, di protezione e di chiusura, nei mesi freddi.

foto 87 Ora possono iniziare i lavori “elettrici”: illuminazione interna, prese di alimentazione e quadro di comando per le protezioni e le automatizzazioni delle funzioni. Nella parte alta della parete opposta a quella del “cooling” è già collegato l’aspiratore, parte integrante del sistema di raffrescamento adiabatico.

foto 88 La serra amatoriale per la coltivazione delle orchidee deve assomigliare più ad una giunla, piuttosto che alla ordinata sitemazione delle coltivazioni professionali. La soluzione ideale per i bancali dove poter sistemare le piante è a gradini, con una parete verticale in rete, in questo modo si possono ottenere 5 piani di coltivazione.

foto 89 Manca poco al fatidico momento del collaudo ed è ora di installare l’impianto “fog”. L’insieme è costituito da una pompa ad alta pressione 70-100 Bar, un serbatoio per la raccolta dell’acqua piovana che, dopo essere stata filtrata, alimenta l’ingresso della pompa stessa, e da un circuito secondario dotato di ugelli appositamente studiati per nebulizzare l’acqua.

foto 90 Il circuito secondario può essere strutturato ad anello oppure con più rami, a seconda della predisposizione dei bancali. Le varie tratte dei tubi in plastica ad alta pressione andranno sistemate nella parte alta dei bancali, e saranno collegate fra loro ad innesto con dei porta ugelli, sui quali sranno poi inseriti gli ugelli stessi.

foto 91 Bene, la serra è veramente finita, ora possiamo fare il collaudo a “spazi vuoti”, cioè senza piante. Il fog funzionna, le automatizzazioni pure, la temperatura e l’umidità interna si lasciano facilmente “addomesticare” dalle tecnologie implementate: c’è grande soddisfazione fra noi!

7.5. Il trasloco: le nuove inquiline che abiteranno la serra
Si è scritto che la serra “ORCHIDEA” è un prototipo dedicato alla coltivazione delle orchidee, pertanto la sua funzionalità va testata nel tempo e a regime, cioè piena di orchidee.
La mia collezione è composta da varie migliaia di piante e quindi il trasferimento nella nuova serra, di un migliaio di piante, tale è la sua capienza presunta è gioco facile. Mica tanto però, sì perchè, appena iniziato il trasloco c’è stato un parapiglia fra le orchidee della mia collezione: tutte volevano cambiare dimora!
Godiamoci insieme questa bella avventura. Sarà anche l’occasione per rivivere altri miti ed altre storie

foto 92 Per mettere d’accordo le maliarde ho dovuto stabilire dei parametri “draconiani”: saranno trasferite per prime, quelle che abitano in condizioni precarie nella parte vecchia della prima serra, così potremo svuotarla e chiuderla. E’ stato anche stabilito che la trasferta sarebbe avvenuta in “cariola”.

foto 93 Il trasloco è iniziato di buon mattino. Per prime sono giunte nella nuova serra le piccole Schoenorchis e subito si sono ambientate, ma durante la prima notte da sole, hanno ricevuto la visita di una lumaca che ha pasteggiato con i loro piccoli fiori… le orchidee piacciono agli orchidofili, ma alle lumache ancor di più! Tu aspetti un anno per vedere i fiori e in una sola notte le lumache li disruggono!

Il genere Schoenorchis comprende 10 specie di origine asiatica: dall’Himalaya alla Nuova Guinea.
Tutte le specie del genere sono di piccole dimensioni, alcune sono vere e proprie miniature, hanno foglie strette, carnose, con radici molto grosse rispetto alla dimensione della pianta stessa.
GENERE Schoenorchis
FAMIGLIA: Epidendroideae
TRIBÙ: Vandeae
SOTTOTRIBÙ: Sarcanthinae.
Il genere Schoenorchis, è stato stabilito da Blume nel 1825, con la descrizione della specie tipo: Schoenorchis juncifolia.
Le orchidee appartenenti a questo genere producono molte infiorescenze ramificate e di colore rosa, i fiori delle varie specie variano per la struttura della piccola spiga fiorale o per la compattezza dei fiori stessi: tutti sono caratterizzati da sepali e petali minuscoli con il labello molto pronunciato e sottile.
Nella letteratura e nella simbologia delle orchidee, proprio per la loro ridottissima dimensione e per la delicatezza dei fiori, alcune specie di questo genere sono note come “orchidea da occhiello”.
Con la fioritura, le piante raggiungono le loro massime dimensioni, successivamente possono solo produrre piantine laterali (keikis), che crescendo daranno il senso di incespimento, in realtà sono tutte singole unità vegetative.
foto 94 Delizioso esemplare (5 x 4 cm.) di Schoenorchis fragrans (Parish & Rchb. f.) Seidenf. & Smitin. 1963.
Sinonimo: Saccolabium fragrans Parish & Rchb. f. 1874.
Ama essere coltivata su ramoscelli di legno poroso e duro attorno ai quali trova facile sostegno con le sue radici.
Va coltivata in serra calda o ambiente similare – TERRARIO – senza particolari riposi vegetativi e durante la stagione calda, quando vegeta e fiorisce (primavera estate), va spruzzata e fertilizzata con generosità.
Tutte le specie di Schoenorchis, danno grosse soddisfazioni e pochissimi problemi di coltivazione, ma inspiegabilmente, non sono di facile reperimento.

7.6. Paphiupedilum Saint Swithin: portami nella nuova serra!
foto 95 Paphiupedilum Saint Swithin.
Qesto bellissimo esemplare viveva nella serra grande, quella coperta a tunnel, brutta da morire, ma custode degli esemplari che hanno fatto la storia dell’orchidofilia europea degli ultimi 20 anni. Non avrebbe avuto il diritto di cambiare serra, lui non abitava in quella vecchia, ma era da tempo che mi implorava:
“Guido” – mi sussurrava ogni volta che gli passavo da vicino:
“guarda come sono conciato, mi hai relegato in questo spazio angusto, ho perso tante foglie ed anche qualche nuova vegetazione … dai portami di la nella nuova serra! Ed eccolo qua, pimpante e quasi risorto, con i suoi fiori in bella mostra.
foto 96Paphiopedilum Saint Swithin è un ibrido primario (Paph. philippinense x rothschildianum), il grex è stato registrato per la prima volta il 1° Novembre del 1901 da Statter.
Per la precisione in questa ibridazione sono state fissate le masse polliniche di Paph. philippinense nello stigma del fiore di Paph. rothschildianum. Questo grex ha resistito alla prova del tempo e rimane ancora oggi molto popolare, dopo aver raccolto oltre 150 premi, almeno cinque dei quali sono FCC. Considerato che è stato registrato nel 1901, i premi che ha ottenuto, abbracciano più di un secolo di storia dell’orchidologia mondiale.
Paph. Saint Swithin è forse l’ibrido Coryopedilum quintessenza. Esso combina le migliori caratteristiche di ciascun genitore, dal grande sepalo dorsale a righe molto marcate e la grande somiglianza del fiore del genitore Paph. rothschildianum, ai petali lunghi scuri e al vigore dell’altro genitore Paph. philippinense. Quindi non c’è da stupirsi che questo grex abbia resistito alla prova del tempo, accumulando oltre 100 premi AM/AOS. Oltre alle qualità estetiche, Paph. Saint Swithin, pur avendo uno sviluppo lento, è assai vigoroso e va coltivato nelle condizioni standard di tutti i Paph. multiflorali: luce diffusa, buona umidità e temperature calde con un riposo invernale freddo, soprattutto di notte.
Così come si fa per tutti i Paphiopedilun è buona norma rinvasare le piante ogni anno.

7.7. Vanda coerulea, “figlia” della collezione di villa Sutter (Genova)

foto 97 Anche lei, l’orchidea blu, per la precisione il suo nome botanico è Vanda coerulea, ha chiesto di poter cambiare “casa” e come si poteva rifiutare! Oltre ad essere famosa come specie, ha anche una sua storia, questa pianta: proviene dalla famosa collezione di orchidee delle serre di villa Sutter, smenbrata nei primi anni 80 del 1900. Milena Sutter, appena 13 anni, figlia di Arturo – industriale svizzero della cera per pavimenti e del lucido da scarpe – sparisce alle cinque del pomeriggio del 6 maggio 1971. Milena esce dall’esclusiva scuola elvetica che frequenta a Genova e scompare nel nulla. La prima terribile ipotesi è quella del rapimento.
Il giorno dopo la sua sparizione, nella lussuosa villa dei Sutter, arriva una telefonata: un voce maschile chiede un riscatto di 50 milioni. Poi il silenzio, fino a quando – due settimane dopo – il corpo della ragazzina riemerge 500 metri al largo della spiaggia di Priaruggia, sempre a Genova. A trovarlo sono due pescatori. Non c’è alcun dubbio: Milena Sutter è rimasta viva appena mezz’ora, forse un’ora. E’ stata strangolata prima di essere gettata in mare. I pesi che avrebbero dovuto tenere il suo corpicino sul fondo non hanno funzionato. Di questo delitto sarà incolpato
Lorenzo Bozano, 25 anni, figlio della buona borghesia genovese (la sua famiglia è imparentata con gli armatori Costa).
Il vecchio edificio che ospitò la direzione della fabbrica Sutter a Sturla fino agli anni ’80, è rimasto pressoché uguale. È scomparsa la grossa insegna del lucido per scarpe Marga, sul lato più vicino al ponticello che scavalca il torrente Sturla. La villa, quella del nonno di Milena, è ancora della famiglia. In via Mosto, ad Albaro, sorgevano le serre di orchidee, tanto care a Milena. Era suo nonno Adolfo che aveva la passione per le orchidee. A seguito della morte della nipote, Adolfo non volle più nessuno dentro le serre, si chiuse nel suo dolore e le rigogliose piante di orchidee finirono i loro giorni insieme a lui. Oggi, sulle vecchie serre dove giocava Milena, scarni basamenti in cemento armato ricordano un tempo oramai dimenticato. Con la morte del nonno Adolfo, la collezione fu smembrata e venduta a vari (allora) coltivatori di orchidee, fra i quali, anche alla mia cara amica Anna Maria Boticelli ( biologa e brava giornalista botanica). Da lei, acquistai la mia prima Vanda coerulea… parte della collezione dei Sutter. Chissà quante volte Milena avrà ammirato il delicato colore azzurro dei suoi fiori. La salma di Milena riposa lontano dalla curiosità dei genovesi che allora coltivavrono un morboso interesse per la tragedia della ricca adolescente. Fu la madre a scegliere che Milena fosse tumulata i Belgio, dove nacque il nonno paterno, tanto amato dalla studentessa.

foto 98 Vanda coerulea Griff. ex Lindl. 1847
Sinonimi: Vanda coerulescens Lindl. 1857
Nomi popolari: Vanda blu, Autumn lady’s tresses orchid, Kwak Lei (Manipuri)
Etimologia del nome Vanda: da un parola sanscrita con la quale le antiche popolazioni indiane indicavano la Vanda tessellata.
Abbastanza rara in natura, recentemente sono state individuate delle nuove varietà, che sono in attesa di classificazione.
Vanda coerulea è conosciuta anche con il nome popolare “Orchidea blu” ed è originaria dell’Asia sud orientale – Myanmar, Assam, Tailandia – e vive ad altezze comprese fra 800 – 1600 metri.
E’ una specie epifita a sviluppo monopodiale e preferisce climi freschi.

Vanda coerulea var. rosea
foto 100 Sono note molte varietà, si differenziano tra loro per la tessellatura più o meno marcata sui fiori, per le tonalità dei colori, che vanno dal blu marcato, semi alba, e per la loro diversa dimensione.
I mesi di fioritura di Vanda coerulea sono generalmente: Luglio, Agosto e Settembre.
Analizzando esemplari di Vanda coerulea si nota la netta differenza fra piante in coltivazione, selezionate da vari auto incroci per impollinazione, e piante provenienti dai luoghi d’origine raccolte in sito, che possiamo chiamare “selvagge”.
Vanda coerulea è stata scoperta nel 1937 dal botanico inglese William Griffith (1810-1845), sugli alberi di Gordonia (Theaceae) delle foreste di pino e di quercia, durante un suo viaggio nelle zone collinose dell’India orientale.
Questa nuova orchidea rimase pressoché sconosciuta fino al 1847 quando Lindley la descrisse sulla base di un esemplare presente in un erbario. La raccolta in sito è iniziata qualche anno più tardi, e nel 1850 con le importazioni in Inghilterra da parte di Thomas Lobb e Joseph Hooker. L’orchidea blu, potè essere ammirata per prima vota dagli appassionati orchidofili europei, nelle serre della Ditta inglese “Veitch & Sons”.
Questo evento suscitò un gran interesse fra i collezionisti dell’epoca. Purtroppo, le raccolte indiscriminate che seguirono la sua scoperta, decimarono velocemente le varie colonie in sito e presto fu severamente limitata la commercializzazione di questa orchidea.
Ciò nonostante, sia dilettanti che professionisti, incoraggiati dalle richieste di mercato, continuarono l’accumulazione di questa specie facilmente reperibile anche nei mercati locali sempre ben forniti di piante in fiore, strappate nei siti di endemicità dalle popolazioni indigene.
Le raccolte eccessive di questa nuova specie, la distruzione dell’habitat dovuto ad incendi dolosi per ricavare nuovi terreni coltivabili, e non da ultimo il mutamento dell’equilibrio ambientale causato dal riscaldamento atmosferico per l’effetto serra sono state e continuano ad essere gravi minacce della sua estinzione in natura.
A tal proposito giunge strana la notizia che Vanda coerulea sia tornata, suo malgrado, in Appendice II del CITES.
Questa specie era stata inclusa in Appendice I (specie in forte pericolo di estinzione) del CITES, nel 1979, ma nel 2004 in occasione del 13° Meeting of the Conferences of the Party in Bangkok è stata spostata in Appendice II (possibilità di commercializzazione).
Ecco il testo del verbale di trasferimento:
” Prop. 44. Transfer the blue vanda orchid (Vanda coerulea) from Appendix I to Appendix II (Thailand). Tentative U.S. negotiating position: Oppose. This orchid was severely depleted in portions of its range due to over-collection in the past, although, the proponent states that most range countries’ populations are believed to have recovered and that export of wild-collected specimens is prohibited in all range countries by domestic legislation. The preferred specimens for trade in this species are artificially propagated specimens of select clones and hybrids, which are vastly superior in color and form to wild-collected specimens. This species is listed as Rare in the 1997 IUCN Red List of Threatened Plants, although currently the main threat to the species is forest conversion and not collection from the wild for international trade. There is still concern, however, that this species continues to be collected from the wild, particularly in India and Myanmar”.
Le motivazioni sono state più o meno queste: impossibilità di stabilire con sicurezza il reale pericolo di estinzione in quanto i paesi interessati ritengono possibile il recupero delle popolazioni di Vanda coerulea ed inoltre, che le nuove tecnologie di riproduzione renderanno meno appetibile il mercato delle piante in sito… decisamente poco convincenti queste motivazioni.

Descrizione e coltivazione:
Vanda coerulea f. rogersii‘Dottori’
foto 101 Vanda coerulea è dotata di un fusto vegetativo corpulento, presenta foglie coriacee, ligulate, distiche, conduplicate, oblique e tridentate agli apici. Gli steli fiorali possono raggiungere anche lunghezze di 60 cm ed escono dalle ascelle delle foglie a portamento eretto o sub eretto con 5-12 fiori di di grande dimensione e lunga durata. A differenza di tante altre specie dello stesso genere, Vanda coerulea preferisce temperature fresche e luce media, con notti invernali fredde (alcuni coltivatori durante la stagione invernale tengono le loro piante di Vanda coerulea insieme ai Cymbidium con temperature notturne di pochi gradi sopra lo zero termico) e periodo secco (garantire solamente leggere nebulizzazioni di mantenimento) per favorire la successiva fioritura.

7.8. Vanda coerulea, l’orchidea preferita dal Signor Bellamy.
Per cogliere le emozioni che si vivono fra appasionati orchidofili, seppur datati, trovo molto interessanti gli appunti di un viaggio nell’allora Birmania (ora Myanmar), apparsi nel bollettino dell’American Orchid Society del primo Settembre 1952.
“Orchids in Burma Today by Philip R. Fehlandt”
Il signor Philip R. Fehlandt, americano e collezionista di orchidee, racconta la realizzazione di un suo grande sogno: poter visitare i paesi d’origine di molte orchidee della sua collezione.
Descrive con dovizia di particolari, delusioni, paure e difficoltà incontrate in un paese difficile, sempre in balia di guerre e colpi di Stato. Alla fine, le difficoltà incontrate, trovano soddisfazione con la conoscenza di un appassionato collezionista residente da anni in Myanmar ex (Birmania): il signor Bellamy.

Libera riduzione ed interpretazione di quel racconto:
…”Un motivo naturalmente, la guerra. Durante i quasi quattro anni del conflitto, la Birmania è stata devastata dalla guerra. L’avanzamento giapponese ed il ritiro degli americani, gli anni lunghi dell’occupazione giapponese sotto il bombardamento alleato quasi costante, poi la ritirata giapponese e l’avanzamento finale americano, hanno inflitto danni pesanti al paese.
In questa situazione girare per il paese a caccia di orchidee non poteva essere un’impresa facile… senza conoscenze locali, qualsiasi spostamento risultava infruttuoso per non dire pericoloso, ma col tempo qualche contatto cominciava a dare i suoi frutti.
Il primo incontro positivo si materializza con il solito missionario appassionato di orchidee, in questo caso un americano super conoscitore di tutti i Dendrobium indigeni, compreso il famoso Dendrobium color rosso luminoso.
Il vero colpo di teatro succede quando, sparsasi la voce della passione per le orchidee di Philip R. Fehlandt, un conoscente del luogo gli propone un incontro con la principessa Ma Lat, cugina del Re. Si dice che abbia una collezione stupenda, colpo di fortuna! La Principessa per la verità è la moglie del signor Bellamy, un australiano geniale che vive in Birmania da oltre venticinque anni ed è lui il vero collezionista.
I coniugi Bellamy vivono nella Birmania del nord, a Maymyo, più di mille metri sul livello del mare, luce luminosa di giorno, fresco e ventilato la notte. A mezzogiorno, con il sole diretto il caldo si fa sentire, ma basta mettersi all’ombra per godere una temperatura frizzante.
Il signor Bellamy durante la guerra perse l’intera collezione ed ora sta ricostruendola con passione e con risultati lusinghieri. L’incontro nella coltivazione del signor Bellamy avviene in un periodo di scarse fioriture, ma la visione delle piante in piena vegetazione, rigogliose e in perfetta salute è ugualmente uno spettacolo bellissimo – il vero appassionato di orchidee trova enorme soddisfazione quando può ammirare buone coltivazioni – e poi che meraviglia quel Saccolabium là in fondo, carico di fiori e le radici, tutte quelle radici aeree lunghe e ben sviluppate.
Birmania è la patria della Vanda coerulea, e paese adottivo del signor Bellamy, nella sua collezione dovevano essere sicuramente presenti alcuni esemplari:
“Sì, eccoli in bella mostra, ben coltivati e carichi di fiori in tutte le tonalità naturali: blu, rosa e porpora.

La preferita del signor Bellamy è la Vanda coerulea sistemata nel cestello di legno: quattro gambi con steli fiorali per un totale di oltre 200 fiori, che spettacolo!”
“Qual’è il segreto di tanto successo nella coltivazione” – chiedo –
“Il segreto di tanto successo è semplicemente un buon periodo di riposo con notti fredde nel periodo invernale” – esordisce il signor Bellamy -.
A Maymyo durante la stagione invernale le temperature oscillano da 35 gradi centigradi durante il giorno a 16 notturni.
Famosa rimane la foto del signor Bellamy mentre mostra orgoglioso una delle sue piante di Vanda coerulea con ben quattro gambi in fioritura con oltre 200 fiori.
Le variazioni di colore delle varietà di Vanda coerulea della collezione del sig. Bellamy variano dall’azzurro profondo con blu-chiaro e dal lillà al colore rosa”…

Eravamo sul finire degli anni 40 ma ancor oggi il periodo di fresco secco invernale è il vero segreto per poter godere superbe fioriture di Vanda coerulea.

7.8. Phalaenopsis: basta la parola!
foto 102 Eccola! Bellina, vero? Sì, bellina anche di nome: Phalaenopsis bellina. Questa pianta compie 24 anni. Quando è giunta nella mia collezione si chiamava ancora Phalaenopsis violacera var. borneo, poi ha cambiato nome ed è diventata “bellina”. Il posto nella nuova serra lo ha avuto di diritto perchè la struttura dove viveva prima è stata smantellata.

foto 103 Phalaenopsis bellina Christenson 1995
Sottogenere: Polychilos
Sezione: Amboinenses Sweet 1968
Questa specie, precedentemente conosciuta come P.violacea var. borneo, è endemica dell’isola di Borneo e cresce nel Sarawak e nel Kalamantan. In natura, le piante crescono in modo pendulo, con corte infiorescenze che producono fiori di colore bianco con pallide tonalità verdi e marcature viola sui sepali inferiori. Sono estremamente fragranti e possono fiorire per diversi mesi, in particolare nei mesi primaverili ed estivi. Le piante adulte sviluppano grandi foglie ondulate di colore verde traslucido.
Il complesso Phalaenopsis violacea comprende anche la specie Phalaenopsis violacea Hort. ex H. Witte ed è stato sistemata nella sezione Amboinenses, sottogenere Polychilos, dove, secondo la classificazione di Christenson (2001) sono incluse 19 specie.
Studi basati sui dati molecolari, evidenziano che queste specie non sembrano essere monofiletiche (Tsai et al. 2006a, b, 2010). All’interno di questo complesso, un recente studio sistematico, ha identificato due specie distinte, Phal. violacea e Phal. Bellina. Si è giunti a questa determinazione, grazie anche all’esame della fragranza floreale – Christenson Whitten (1995), che ha riconosciuto alla ex Phal. violacea ‘forma borneo’ lo status di specie separata.
Il genere Phalaenopsis rappresenta un gruppo di orchidee, belle e popolari. Secondo le ultime classificazione di Christenson (2001) è composto da circa 66 specie divise in cinque sottogeneri:
Proboscidioides, Aphyllae, Parishianae, Polychilos, e Phalaenopsis.
Di questi, il sottogenere Polychilos è stato ulteriormente suddiviso in quattro sezioni: Polychilos, Fuscatae, Amboinenses e Zebrinae. Stessa decisione anche per il sottogenere Phalaenopsis: Phalaenopsis, Deliciosae, Esmeralda, e Stauroglottis.

Vediamo un po’ più da vicino il genere Phalaenopsis.
foto 104 Le ibridazioni commerciali hanno reso molto popolare questo genere e si può ben dire che ormai regnano in tutte le nostre case.
Queste orchidee vivono e convivono con le ansie ed i patemi d’animo di tanti neofiti, sempre attenti agli spruzzini, alle temperature, ai trucchi per umidificare, alle illuminazioni artificiali etc.
E che dire di quel grande “enigma”, che assale le entusiaste signore “Maria”, – termine coniato per rappresentare la moltitudine che coltiva in casa – quando devono decidere di recidere lo stelo fiorale?
Taglio o non taglio, e se taglio devo farlo al secondo o al terzo nodo?
Sappiamo che le Phalaenopsis sono rifiorenti sullo stesso stelo e questo fenomeno crea sempre delle attese fra i possessori di queste orchidee.
In natura, molte specie di Phalaenopsis sono sempre in fiore. Gli ibridi creati per il mercato delle piante fiorite, hanno fatto tesoro di queste caratteristiche genetiche, e se la salute delle piante è buona, dai nodi (gemme dormienti) posti lungo lo stelo fiorale, ne spuntano di secondari, in progressione.
Fra le varie tendenze, la più in voga nell’ambiente orchidofilo è quella di tagliare lo stelo sfiorito al primo o al secondo nodo: non è un consiglio sbagliato, ma è solo un fatto estetico quasi inutile. Inutile perché è più naturale aspettare che sia la pianta a decidere se e dove produrre i nuovi getti fiorali. Può capitare che lo stelo sfiorito si secchi, in tal caso conviene reciderlo alla base.

7.9. Phalaenopsis, un mercato fatto di milioni di piante.
foto 105 L’origine del nome del genere, deriva dal greco phalaina “farfalla notturna” e opsis “simile”, per via della loro somiglianza con certe falene tropicali. Alcune specie sono assai note, altre più rare nelle collezioni. Certe specie mostrano splendidi fiori di breve durata, altre mantengono la fioritura da due a cinque mesi e fioriscono in successione.
Le piante di questo genere non hanno bisogno di molta luce e richiedono una minima temperatura notturna di 18°, due fattori che rendono facile la loro coltura in serra e non eccessivamente difficile in ambienti domestici.
Le Phalaenopsis sono orchidee a sviluppo monopodiale e si strutturano con ampie e lunghe foglie incurvate, lucide o coriacee, verdi o chiazzate di grigioverde, oppure con la pagina inferiore pigmentata di porpora. Crescono lentamente e formano solo una o due foglie nuove ogni anno. Specie ed ibridi producono radici robuste, sovente appiattite, che si formano alla base del fusto vegetativo. Le spighe fiorali spuntano dalle ascelle delle foglie più basse, oppure anche dove le vecchie foglie sono già cadute. I fiori si dividono in due gruppi:
1 – gruppo delle Euphalaenopsis caratterizzato da appendici che sporgono dal labello e da petali assai più ampi dei sepali.
2 – gruppo delle Stauroglottis, con i petali simili ai sepali e il labello privo di appendici.
La stagione vegetativa delle Phalaenopsis va dalla primavera all’autunno, mentre gli steli fiorali compaiono dalla tarda estate all’inverno. Alcune varietà sono molto puntuali nella fioritura, altre un po’ meno, soprattutto gli ibridi, e quindi gli steli fiorali potranno svilupparsi in qualsiasi momento dell’anno, a prescindere dallo sviluppo vegetativo della pianta.
Lo stelo fiorale può essere arcuato e senza ramificazioni, oppure ramificato. Alcune varietà di Phalaenopsis formano tutti i fiori su un unico stelo e nello stesso tempo, altre aprono i fiori in successione, quest’ultime possono rimanere in fiore per buona parte dell’anno.

Coltivare le Phalaenopsis è abbastanza facile, possono essere sistemate su zattere oppure in vaso, e non richiedono rinvasature frequenti.
Il substrato che incontra generale successo è costituito da corteccia d’abete (bark), miscelata con poca torba di sfagno. Il bark va messo a bagno 3-4 giorni prima dell’uso. Così facendo si evitano inoportune disidratazioni della pianta e si eliminano polvere e impurità di vario genere. Si rinvasa quando il substrato non è più in buone condizioni, generalmente ogni 2 o 3 anni ed il periodo ideale è quando le radici sono in pieno sviluppo.
Nel caso in cui le radici attive siano troppo lunghe, conviene tagliarle oltre i 5 cm. La corteccia dovrà essere di media pezzatura e la pianta andrà sistemata al centro del vaso. Dopo il rinvaso, per evitare marcescenze dell’apparato radicale, la pianta va innaffiata con moderazione. E’ preferibile nebulizzare le foglie anche più volte al giorno, purchè siano asciutte prima della notte.
Una volta formatesi le nuove radici si può procedere con generose bagnature in modo da mantenere sempre umido il substrato di coltura. La pianta in vegetazione trarrà maggior beneficio dalla somministrazione di fertilizzanti: il quantitativo opportuno è di un grammo per litro d’acqua ogni 2 o 3 settimane, scegliendo la formula 30-10-10 nella fase vegetativa e 20-20-20 il restante periodo.
In natura le Phalaenopsis dispongono di luce filtra dagli alberi dei boschi, in coltivazione prosperano bene nella parte più ombreggiata della serra. Una buona ventilazione e circolazione dell’aria interna alla serra, aiuta a mantenere sane le piante e impedisce l’attecchimento di funghi tipo Botrytis, che prosperano a basse temperature in ambiente stagnante.
Fra i vari agenti patogeni, il nemico delle Phalaenopsis è il “falso ragnetto rosso”, la specie Tenuipalpus pacificus è appunto chiamato: parassita delle Phalaenopsis.
Esistono diverse specie simili al Tenuipalpus, queste appartengono al genere Brevipalpus, e gli rassomigliano per l’aspetto e per il comportamento. Il falso ragnetto rosso provoca danni gravissimi alle foglie. Dapprima si manifesta con macchie irregolari, giallastre e incavate. Successivamente le foglie si necrotizzano assumendo colorazioni bianche, grigie o marrone, per poi cadere precocemente. Il danno provocato dal “falso ragnetto rosso” ha l’aspetto di una malattia fungina o virale. I parassiti sono invisibili ad occhio nudo, e per questo ancor più pericolosi: possono essere visti soltanto con una lente a dieci ingrandimenti, oppure con un microscopio binoculare di media qualità.
Altro nemico micidiale per tutte le orchidee ed anche per le Phalaenopsis è la cocciniglia cotonosa: Lichtensia viburni. La cocciniglia cotonosa non è molto resistente agli insetticidi, ma è molto difficile da aggredire: qualche individuo o uova rimangono sempre nascosti e pronti a ricolonizzare la pianta. Può essere combattuta con olio emulsionato oppure con insetticidi sistemici Cloronicotinili (a base di nicotina).

7.10. Missione compiuta, la serra “ORCHIDEA” è a vostra disposizione.
Il mese di Agosto del 2013 se n’è andato quasi tutto, le piogge hanno rinfrescato l’atmosfera, ora il sole splende limpido e una leggera brezza mi accompagna per mano ad ammirare la nuova serra, già piena di rare orchidee.

foto 106 Mi guardo attorno con soddisfazione. Pare che le piante siano in serra da una vita ed invece l’ultima arrivata, la famosa Laelia lundii, medaglia d’oro all’European Orchid Congress and Show ad Hannover 1994, premio bissato anche all’EOC di Padova 2006 è entrata da pochi minuti.

foto 107 Ha già un’anima la serra, si possono odorare gli aromi delle piante in fiore, mentre tutte le nuove inquiline vestite a festa ti fanno l’occhiolino, come a dire:
“hai viso che belle siamo!”
Il mio lavoro è concluso, le “modelle” stanno già sfilando, ma dopo il defilè ufficiale sarà difficile dire a loro che la festa è finita.

foto 108 Fine e inizio sono due concetti che si intersecano: non c’è inizio se non c’è fine e dopo la fine di un progetto ne inizia sempre uno nuovo. Luca Bedin, titolare di SerreGiardini, sembra dire questo, mentre ammira con visibile felicità, l’opera compiuta. Ora può iniziare il grande viaggio della serra “ORCHIDEA”… un sogno diventato realtà.

Libro Orchidea; parte 1

Titolo del libro:

“ORCHIDEA”: la serra per coltivare orchidee esotiche.

Storie di serre, di orchidee, di personaggi e di ego per il loro possesso

PARTE 1
LE MALIARDE TROPICALI

CAPITOLO 1

FASCINO E PROBLEMI

1.1. Sensuali e misteriose come i luoghi della loro provenienza
Da qualche secolo la coltivazione ed il collezionismo delle orchidee tropicali affascina e “rapisce” persone di ogni ceto sociale e di diverse nazionalità. Però le nostre maliarde, in natura, vivono nella fascia tropicale del pianeta e quindi richiedono particolari esigenze di vita, condizioni, che nei nostri climi temperati non ci sono.
Storie fantasiose, passioni sfrenate, un amore febbrile, una vera e propria mania; per gran parte dell’Ottocento il vecchio continente, e sopratutto l’Inghilterra, vennero travolti da un’ammirazione incontenibile per le orchidee esotiche.
Irresistibli oggetti del desiderio arrivati da ogni parte dei nuovi mondi, nei giardini e negli orti botanici europei nella seconda metà del Settecento, circondati da un alone di mistero trasformatosi in entusiasmo sfrenato di gran lunga superiore a quello suscitato un paio di secoli prima dalla “tulipano-mania”.
foto 1
Angraecum magdalenae Schltr. & H. Perrier. (Foto De Vidi)
In quel periodo le orchidee tropicali sembravano fatte apposta per rispondere alla mania esotica dell’Inghilterra Vittoriana. Fiori sensuali, strani, spettacolari, grandi come mai se n’ erano visti in precedenza, oppure minuscoli come preziose miniature, accesero l’immaginario della società più opulenta dell’epoca.
Le inedite fragranze dei fiori delle orchidee esotiche, estasiavano le nobildonne che nelle occasioni mondane, non esitavano ad esibire le rarità appena giunte dalle colonie. Ad eccitare la fantasia si aggiungevano le radici delle specie epifite, che invece di nascondersi nella profondità della terra pendevano sospese nell’aria come per incanto, e poi quelle bacche piene di una misteriosa polvere impalpabile: la scoperta, in seguito, che si trattava solo di una miriade di minuscoli semi non cambiò di molto l’impressione originaria, visto che per molto tempo non si riuscì assolutamente a farli germinare.
In più, le orchidee arrivavano da luoghi dei quali si conoscevano a stento i nomi e le coordinate geografiche, un mondo che per l’Europa era ancora in gran parte da scoprire: vivevano nel cuore di giungle tropicali popolate da animali feroci, percorse da rumori sinistri, e molti erano anche fermamente convinti dell’esistenza, in quegli angoli remotissimi, di piante capaci di divorare esseri umani. Circolavano con insistenza voci inquietanti che riferivano addirittura la presenza di orchidee carnivore: una credenza rafforzata dalla vendita, a un’asta londinese, di un Dendrobium abbarbicato a un teschio umano, una bizzarria scovata da un cacciatore di piante in una zona impervia della Nuova Guinea.
All’epoca, le orchidee esotiche se le potevano permettere soltanto gli aristocratici, nelle loro costosissime serre.
All’inizio dell’Ottocento le orchidee esotiche si potevano trovare negli orti botanici oppure nelle lussuose residenze di qualche aristocratico che poteva permettersi giardinieri e serre costosissime, come ad esempio William George Spencer Cavendish, sesto duca del Devonshire, che per soddisfare una passione nata davanti a un esemplare di Oncidium papilio esposto in una mostra londinese, spedì nell’Assam, John Gibson, famoso cacciatore di orchidee dell’epoca.
foto 2 Chatsworth: Great Conservatory
Serra costruita (1836-1841) e demolita nel 1920.
Questi, risalendo il corso del Brahmaputra e dei suoi affluenti, riuscì a trovare un centinaio di specie che poi spedì nella nebbiosa residenza del duca a Chatsworth, per essere custodite nella fantastica serra costruita dal capogiardiniere, Joseph Paxton.
Un paradiso tropicale che suscitò l’ammirazione di tutti, perfino della regina Vittoria e del principe Alberto, che in una gelida serata invernale del 1843 lo visitarono in carrozza scoperta e alla luce di ben 12.000 lampade predisposte proprio per l’occasione.

1.2. Il clima tropicale piace alle orchidee esotiche.
Il clima tropicale abbraccia la zona torrida della Terra, quella parte del pianeta, compreso dentro i due tropici del Cancro e del Capricorno. In questo clima si sviluppano le foreste tropicali, e le savane, habitat ideali per le orchidee. Esso si caratterizza per avere elevate temperature durante tutto l’anno, e nel sottotipo equatoriale, per le precipitazioni assai abbondanti. E’ proprio il regime pluviometrico che codifica i vari tipi di clima tropicale:
1. della foresta pluviale tropicale, sempre umida.
2. monsonico con una stagione secca e una umida.
3. della foresta pluviale nonostante un periodo secco.
4. della savana, più secco e con forti escursioni termiche.
Le aree del pianeta con clima tropicale si trovano nell’America centrale, nella parte nord dell’America del sud, in una porzione dell’Africa e nell’intera Oceania. E’ in questa fascia climatica, che le orchidee “esotiche”, trovano la loro endemicità naturale.
L’incontro con loro comincia sempre per caso e si rimane presto affascinati da tutto quello che ci raccontano. Ci ammalia la voglia di scoprire quello che non si sa della loro vita, della loro storia e della affascinante letteratura che le descrive, ma soprattutto si insinua nella nostra mente il desiderio di coltivarle. I commercianti di fiori e di piante, a partire dalle fiorerie, che tengono in negozio anche qualche pianta di orchidea “commerciale”, arrivando fino ai venditori specialisti di orchidee rare, tranquillizzano il neofita titubante, che si accinge ad effettuare il suo primo acquisto. “E’ facile coltivare orchidee esotiche”, esclama con suadente gestualità, il venditore. Il principiante sa perfettamente che la storia è diversa, ma non sempre sa resistere ed ecco che si crea quella strana dimensione evanescente nella quale il denaro perde valore, mentre quelle piante strane, devono essere possedute a tutti i costi. Nei salotti e nelle verande delle nostre abitazioni capita sempre più spesso di trovare le orchidee più impossibili.
Nei secoli passati le orchidee erano considerate piante misteriose e costose, per questi motivi era raro trovarle come elemento floreale di coreografia abitativa. Con il trascorrere degli anni sono migliorate e tecnologie per la riproduzione da seme e da meristema, fattori questi, che hanno resa possibile la proliferazione di massa delle orchidee. Da qualche anno, le varie fiere e mercati, presenti in varie città, sono sempre fornitissimi di specie, un tempo introvabili. Ma il neofita, che tanto ha sognato il possesso di quelle piante dai nomi così affascinanti, finito l’onirico viaggio esotico, comincia a porsi mille domande.
foto 3 Cattleya skinneri Bateman 1839. (Foto De Vidi)
L’orchidea è come un “virus”, e come tale non sempre attecchisce. Il suo possessore, a volte, la considera solo una pianta da riempimento coreografico ecome le altre e la lascia presto al suo destino. In qualche caso l’orgoglio e la curiosità si prestano ad essere un ottimo substrato di coltura per quel “virus” e impercettibilmente prenderà sostanza una sorta di connivenza fra l’orchidea ed il suo possessore: sarà l’embrione dal quale nascerà il futuro collezionista di orchidee esotiche.
Fatti salvi pochi generi che riescono con qualche accorgimento ad acclimatarsi anche nei nostri spazi abitativi a clima mediterraneo, la gran parte delle 25000 specie botaniche note e degli altrettanti ibridi da loro discendenti, hanno bisogno di ambienti che simulino il più possibile i climi delle loro endemicità. Il futuro collezionista di orchidee, pur di riuscire nell’impresa, inventa le soluzioni più disparate. Egli coltiva in spazi di fortuna, sui davanzali, nelle terrazze o nei pianerotoli delle scale, ma il vero traguardo che porta l’appassionato orchidofilo alla piena soddisfazione nella coltivazione di orchidee esotiche è la serra.
“Bene, se il problema è la serra cercherò spazio e quattrini per dar soddisfazione alle mie “sciagurate” tropicali”, obietterà con baldanzoso tono di sfida, il collezionista in pectore.
L’avventura inizia proprio quando comincia il sogno della serra. Purtroppo in commercio non si trovano serre amatoriali – chiavi in mano – pensate e costruite per coltivare orchidee tropicali. Per la verità avrei dovuto usare il tempo passato del verbo “trovare”, sì perchè ora, comincia già a pulsare di “energia propria” il prototipo della nuova serra amatoriale “ORCHIDEA”, pensata “chiavi in mano”, per coltivare orchidee ed altre piante esotiche. Quel sogno, nato la scorsa primavera nel “buen retiro” di Orchids Club Italia, in occasione della mostra di Ortogiardino a Pordenone è diventato realtà.
Durante i giorni della mostra, ammaliati dalle orchidee, dai tarallucci e dalle abbondanti bollicine dei fruit di prosecco, si discuteva su come dovrebbe essere la casa ideale per coltivare orchidee esotiche.
Luca Bedin, titolare di SerreGiardini presente in fiera con il suo stand, fine osservatore ma sempre parco di parole, forse cogliendo il filo dei discorsi, esordì:
” Guido, vuoi che proviamo a costruire una serra per coltivare orchidee?”
Il resto è storia attuale. E’ nata la collaborazione con SerreGiardini ed ora cominciamo a veder maturare i primi frutti.
Ora possiamo entrare nel magico mondo delle orchidee. Prima di iniziare il viaggio che ci porterà a seguire passo dopo passo la nascita della serra “ORCHIDEA”, andiamo a curiosare nella storia dell’orchidofilia, storia fortemente impregnata di ossessioni e di passioni impossibili.

1.3. Storie di serre famose e di passioni amorose.
La passione per le piante tropicali fu dominante in vari paesi europei per tutto il 19 ° secolo. L’nteresse coincise con lo sviluppo delle varie tecnologie per la costruzione di grandi “serre”. La più bella e la più famosa è sicuramente quella costruita presso il Royal Botanic Gardens di Kew, appena fuori Londra, dove furono realizzati enormi contenitori in vetro per ospitare diversi tipi di piante tropicali provenienti dalle varie colonie dell’Impero Britannico. Grande protagonista di quell’epoca fu il costruttore di serre, Joseph Paxton.
Sir Joseph Paxton (3 agosto 1803 – 8 giugno 1865), architetto britannico nato a Milton Bryant, nel Bedfordshire, intuendo le grandi possibilità tecniche, nonchè gli spettacolari e innovativi effetti formali del ferro, fu tra i primi a servirsi di strutture metalliche per costruire serre.

foto_4 Crystal Palace ricostruito in versione ingrandita dopo il trasloco.
Nel 1850 gli fu affidato l’incarico di portare a termine l’opera a cui è rimasta legata essenzialmente la sua fama: il Palazzo di Cristallo per l’esposizione internazionale di Londra in Hyde Park (circa 120 metri di larghezza e 562 di lunghezza), coperto da archi di varie altezze e interamente costruito con pezzi prefabbricati.
L’enorme costruzione in stile vittoriano, eretta nella capitale britannica, ma inizialmente installata a Hyde Park, è stata smontata nel 1854 e ricostruita in un’altra zona della città, Sydenham Hill. Il 30 novembre del 1936 viene purtroppo distrutto da un incendio.

Ma fu nel 1827, che un medico inglese di nome Nathaniel Ward, rivoluzionò completamente il rapporto dell’uomo con la botanica. Nell’immaginario collettivo la serra è vista come una scatola di materiale trasparente, che lascia filtrare la luce. La scatola può essere di dimensioni enormi, vedi quelle professionali, oppure le amatoriali medio piccole, per arrivare fino ai microscopici terrari o orchidari che dir si voglia.
L’orchidario, per chi ama le orchidee è l’embrione del sogno chiamato serra, sogno di chi è in attesa della serra vera o del jardin d’hiver, dove immergersi in un piccolo angolo tropicale, un luogo intimo dove concentrare il proprio sguardo verso la natura.
Ma come e quando nacque l’idea di proteggere in ambiente chiuso le essenze vegetali, e chi scoprì il miracolo della coltivazione sotto vetro?
foto 5 Nathaniel Bagshaw Ward, by Richard James Lane, printed by M & N Hanhart, after John Prescott Knight, 1859.
A fare questa scoperta fu Nathaniel Bagshaw Ward (1791-1868), quest’uomo, che ha il merito di aver cambiato il mondo botanico così drasticamente, rimane l’ennesimo personaggio-ombra che emerge dalle nebbie della Londra vittoriana. Non pensiate che questa sia la solita frase retorica, dietro alle sue scoperte, si nascondono una serie di evoluzioni storiche senza le quali il mondo moderno sarebbe decisamente diverso da quello che noi conosciamo.

1.4. Nathaniel Bagshaw Ward (1791-1868)
Sarebbe noioso stilare l’elenco delle società che lo vedevano attore partecipe, basti sapere che spaziavano dal campo medico, farmaceutico a quello botanico. Ma partiamo con ordine: nato a Londra Ward sviluppò presto il suo interesse per il mondo naturale nonostante lo circondasse il grigio panorama della città industrializzata. Alla tenera età di 13 anni si ritrova per mare su una nave in viaggio per la Giamaica: era convinto di far carriera in marina. Dopo quel viaggio, come sperava il padre, valente chirurgo, egli abbandonava l’idea di essere un marinaio per seguirlo nella pratica medica. Ma la flora tropicale aveva risvegliato in lui l’interesse per la natura e in particolare per palme e felci. Ward lavorava nell’est End di Londra e continuava a coltivare la sua passione per la botanica e l’entomologia tra un paziente e l’altro, nel tempo libero collezionava piante coltivandole all’aperto: il suo erbario contava più di 25000 specie. Sognava ricoprire un vecchio muro di confine del suo giardino di felci e muschi.
Il suo giardino a Wellclose square non fu esattamente quello che Ward si era immaginato, solo poche delle felci piantate sopravvissero. Questo tasso di fallimento fu determinato dalla cappa di inquinamento soffocante della Londra industrializzata, la stessa atmosfera inquinata dal fumo proveniente dalla combustione del carbone e dai solfuri che fece coniare a un giornalista nel 1905 il termine “smog”, abbreviazione di “smokey fog” (nebbia fumosa). Ward girò il mondo per dar soddisfazione al suo interesse per l’entomologia. In occasione di uno dei suoi viaggi, egli raccolse la pupa di un lepidottero (sfinge) e la collocò in un contenitore trasparente e sigillato. La storia non ricorda il destino del lepidottero, ma dopo un po’ di tempo, Ward notò che alla base del contenitore chiuso, dal terreno iniziavano a germogliare delle felci: la sua curiosità su quanto tempo queste potessero vivere in un ambiente protetto, o meglio sigillato, portò a una delle scoperte botaniche ed economiche più importanti dell’età vittoriana: la cassetta wardiana (Wardian Case).
Preso dal fervore per la sua scoperta, Ward inizò tutta una serie di esperimenti. Costruì dei terrari in vetro, di varie dimensioni, che riempirono il suo giardino e ogni stanza della sua abitazione: alcuni li mise perfino sopra il tetto di casa! Il terrario più grande (2.4 mq) conteneva al suo interno più di 50 specie di piante abbarbicate sulla riproduzione di una finestra della Tintern Abbey.
I contatti con la famosa Loddiges Nursery che sponsorizzava le spedizioni esplorative, volte alla scoperta di nuove piante, gli permisero di testare il potenziale della sua invenzione per il trasporto di esemplari per mare. All’epoca la sopravvivenza a questi lunghi viaggi era impensabile. Le piante tenute sottocoperta morivano per mancanza di luce, mentre quelle tenute sul ponte per salsedine, forti venti, bruciature da sole e mancanza d’acqua.

foto 6 Wardian Case da interno. Foto tratta dal libro:
On the Growth of Plants in Closely Glazed Cases di Nathaniel Bagshaw Ward (1852)

Coltivare e spedire piante sotto vetro non era cosa nuova, ma nuovo era il concetto dell’ambiente sigillato non contaminato dalle condizioni atmosferiche circostanti. Ward fece costruire da un carpentiere una cassa per le sperimentazioni, il telaio doveva essere in legno duro e le connessioni più rigide e resistenti possibili: questo per evitare danni per effetto della condensa. Ed ecco nato il primo terrario! Nel 1833 spedì, in due casse, delle felci native dell’Inghilterra, in Australia, questo fu il suo primo grande esperimento. Dopo 6 mesi di navigazione il carico sbarcò nel porto di Sydney con le piante vive e vegete! Le casse come su richiesta vennero pulite e riempite di specie native australiane che prima di allora non si erano mai riuscite a trasportare oltremare; nel febbraio del 1835 il carico salpò, ma la nave, sconvolta dalle tempeste di Capo Horn arrivò a Londra solo dopo 8 mesi di navigazione. Le casse erano sul ponte e non erano state aperte nonostante le temperature fossero variate da -7 a 49 C° e coperte dalla neve durante parte del viaggio.

1.5. I successi degli esperimenti
Intanto in città Ward attendeva ansioso di visionare il carico. Nel suo libro del 1852 scrisse: “I shall not readily forget the delight expressed by Mr. G. Loddiges, who accompanied me on board, at the beautiful appearance of the fronds of Gleichenia microphylla [umbrella or coral fern], a plant now for the first time seen alive in this country.”
L’esperimento ebbe successo e Ward pubblicò un pamphlet dal titolo “The growth of Plants without open exposure to the Air” in cui descriveva i sui metodi. A questo seguì la pubblicazione nel 1842 del libro “On the Growth of Plants in Closely Glazed Cases”.
Dopo di lui tutta l’Inghilterra iniziò a usare i terrari, sia per le coltivazioni cittadine che per le spedizioni via mare e Loddiges potè constatare che il tasso di sopravvivenza delle piante era cresciuto dallo 0.1 al 90%.
Joseph Dalton Hooker fu uno dei primi a servirsi delle cassette wardiane per la sua spedizione in Antartico nel 1839, ma il primo di cui si ha notizia fu John Gibson, pupillo di Paxton, che partì per l’India nel 1835 per conto del duca del Devonshire, in un viaggio che lo tenne lontano dall’Inghilterra per oltre 2 anni e che riportò al duca più di 80 specie di orchidee diverse, tra cui quello che venne chiamato Dendrobium devonianum, che fiorì per la prima volta nelle serre di Chatsworth nel 1840.
Nel 1854 il dott. Ward diede lettura della sua scoperta alla Royal Society nel Chelsea Physic Garden: in quel tempo era già noto che la sue wardian cases avevano cambiato la faccia del commercio in tutto il mondo. Queste rimasero in uso per parecchio tempo, si dovette aspettare più di un secolo l’arrivo delle buste in plastica e le ingombranti e pesanti cassette vennero soppiantate.

1.6. La prima serra riscaldata, in Italia
Sul finire del Settecento veneziano, nella serra stile Vittoriano, sistemata ad est del grande parco della Villa Albrizzi-Franchetti (Treviso), riscaldata da una grande stufa a legna, crescevano rigogliose molte piante esotiche fatte arrivare appositamente da tutte le parti del mondo per rendere ancor più ameni, piacevoli ed esotici, gli ampi spazi circostanti. La Villa Franchetti o Villa Albrizzi Franchetti fu costruita tra il 1680 e il 1700 lungo il Terraglio, dai nobili Albrizzi, noti mercanti di stoffe. Tra loro, Isabella Teotochi Albrizzi.
La villa, passò successivamente alla contessa Ida Zeno Accurti e quindi acquistata dal barone Raimondo Franchetti. Nel 1973 Raimondo Nanuk Franchetti, ultimo proprietario, la vendette alla provincia di Treviso, oggi è gestita dalla fondazione Cassamarca. Purtroppo non è visitabile e la serra, o quel che ne rimane è in uno stato di completo abbandono.
In occasione di una esposizione di orchidee in villa, che curai qualche anno fa, ebbi modo di vivere l’atmosfera di quello che fu uno dei salotti più famosi d’Europa, luogo d’incontro di viaggiatori, avventurieri, eruditi, artisti, scienziati, seduttori di professione, militari di carriera, principi d’Europa.
foto 7 Ritratto di Isabella Teotochi-Albrizzi eseguito da Elisabeth Vigée-Le Brun (1792)
Piacevoli sensazioni, mi accompagnavano, mentre camminavo lungo i viali del parco, già calcati dal Foscolo, dal Pindemonte, dal Cesarotti, dal Canova, dal Denon e da tanti altri amici della “divina” Isabella Teotochi (1760-1836). Sembrava di rivivere il tempo che esaltò i fasti di quella straordinaria bellezza greco-veneziana, un mito raccontato in tutti i salotti letterari d’Europa, che sedusse Venezia e della quale ci rimane uno straordinario ritratto della grande pittrice Elisabeth Vigée Le Brun, la ritrattista dei principi delle corti europee.
Isabella, fu una delle donne più ricche di brio, vitalità e spregiudicatezza della sua epoca e sono famosi gli avventurosi amori di questa procace nobildonna: la Temira cantata dal Pindemonte, la Laura della prima stesura dell’ Ortis di Foscolo. Il suo salotto e la splendida villa sul Terraglio conobbero presenze come quelle di Chateaubriand, di Vivant Denon (il padre del Louvre), di Byron, Canova e di Walter Scott.
Complesse vicende seguirono il destino della giovane nobildonna che visse nella Venezia viziosa e decadente di fine Settecento, fino al matrimonio con il Giovanni Battista VI Giuseppe Albrizzi (soprannominato Iseppo; 1750 – 1812), celebrato dopo l’annullamento del primo, con il nobiluomo Antonio Marin.
Questo non sarà, tuttavia, un rapporto esclusivo nella tumultuosa vita sentimentale di Isabella. Nel 1795 Isabella, dopo aver conosciuto le attenzioni di Denon, si apre all’amore per un ragazzo che ha la metà dei suoi anni: il diciassettenne Ugo Foscolo.

1.7. I cinque giorni di folle passione, del giovane Ugo Foscolo.
Il giovane, di indole bizzarra e di carattere non certamente facile, si lasciava facilmente rapire dal sorriso di Isabella che lo rendeva dolce e scherzoso. Isabella, donna intelligente e matura, aveva scorto oltre il povero sembiante, il genio del giovane; più avanti negli anni, Isabella, scriverà di lui:
volto e aspetto che ti eccitano a ricercarne e conoscerne l’animo e l’ingegno. L’animo è caldo, forte e disprezzator della fortuna e della morte. L’ingegno è fervido, rapido, nutrito di sublimi e forti idee; semi eccellenti in eccellente terreno coltivati e cresciuti (..) all’imperioso amore concede talvolta un filo ond’essere ritenuto; ma filo lungo, debole, mal sicuro contro l’impetuoso torrente di più maschie passioni».
Ugo Foscolo, più tardi racconterà con dolcezza i momenti intimi vissuti con Isabella che lo accolse quasi senza veli nel suo letto:
…” una Dea dalla lunga e rada camicia non allacciata, dalle spalle ignude, dal braccio bianchissimo e tondeggiante e dal petto voluttuosamente difeso da una candida pelle, dai ricci sparsi or sul collo, or sul seno, quasicché quelle liste dorate, dovessero servire all’occhio inesperto di guida(..) a questa sacerdotessa di Venere ho consacrato le primizie della mia gioventù…!”.
In effetti come racconta Alvise Zanon, intimo amico del Foscolo, Isabella era una giovane bellissima, nata come lui nelle isole greche, amica di poeti e letterati, divorziata, che pure aveva ceduto alla sua adorazione e per pochi giorni: cinque per l’esattezza! Era stata sua. Dopo averlo iniziato ai misteri dell’amore, l’aveva garbatamente allontanato, col viatico di molti savi consigli sul modo di trattare le donne e recitare nella vita la commedia dell’amore.
“Posso dunque gloriarmi di aver udito i primi cenni dell’amara storia che avrei poi ritrovato nelle doloranti pagine dell’Ortis» diceva Zanon.
Più avanti negli anni, il poeta amava ricordare Isabella con questa frase:
“Amante per cinque giorni, amica per tutta la vita”
Le orchidee arrivarono in epoca successiva alle avventure amorose del Foscolo, di sicuro furono presenti nelle serre della villa a partire dalla seconda metà del 1800 e vi rimasero fino agli anni 80 del 1900, quando la Stanhopea nigroviolacea, ultima testimone delle passioni, degli amori e della cultura in Villa mi fu consegnata in custodia dal suo giardiniere.
Ricordo ancora lo stupore che provai, quando il giardiniere della Villa Albrizzi-Franchetti, quasi a voler mantenere in vita le esclusività botaniche della villa, e cosciente di non potercela fare da solo, venne a trovarmi per consegnarmi in custodia gli ultimi esemplari di un’ orchidea misteriosa, l’ultima testimone di forti passioni e di amori andati.
foto 8 Stanhopea nigroviolacea (Morren) Beer
In quell’occasione il giardiniere mi consegnò due museruole contenenti quel che rimaneva delle piante – ben poca cosa – e con scarse possibilità di un loro recupero.
Una pianta rimase nella sua vecchia museruola e piano piano si riprese: nella foto sopra a sinistra potete ammirare lo stato attuale dell’esemplare originale. La seconda museruola, già irrimediabilmente usurata mi servì da campione per riprodurne di nuove, nelle quali poter sistemare i frammenti ancora in vita della pianta originaria. Riuscii a salvare due pseudobulbi ed ora sono due piante ben strutturate.

1.8. Aromi e vanità
Molte specie di Stanhopea sono così simili che solamente l’aroma dei fiori stabilisce la differenza. Ogni specie produce un profumo unico che attrae una specie particolare di ape appartenente alla sottofamiglia delle Euglossinae. Paradossalmente non è la ricerca di nettare per nutrimento che attira le api, ma bensì la vanità maschile! Soltanto le api maschio visitano i fiori, e lo fanno per lucidarsi con la sostanza oleosa e di odore gradevole prodotta dai fiori. I piedini anteriori delle api possiedono delle spazzole sviluppate essenzialmente per questo fine e quelli posteriori sono dotati persino di piccole spugne a forma di sacco, utili per trasportare profumo di riserva da utilizzare durante i loro balli di corteggiamento delle api femmine.
I maschi delle api euglossine cercano l’aroma specifico che interessa solamente alle femmine della loro specie. Le api maschio, dai corpi lucidi e iridescenti, appena sono inondati dalle sostanze fragranti dei fiori entrano in uno stato confusionale quasi in preda a delle vertigini e inciampano nella trappola modellata esattamente per simulare i profili degli insetti. In questo vortice impazzito l’ape maschio batte la testa contro il pollinia appiccicoso del fiore, che si attaccherà e sarà trasportato nel poi, uscendo con i polline-sac attaccati, volano al fiore successivo a caccia di altro profumo ed involontariamentin altri fiori della stessa specie per l’involontaria impollinazione.
L’unicità del profumo dei fiori di ogni specie di Stanhopea è la garanzia che non ci saranno ibridazioni.
I fiori delle Gongorinae si adattano bene al comportamento delle api, producono poco profumo di sera o durante la notte quando le api non ci sono, ma verso la metà della giornata quando le api sono più attive, i fiori intensificano il loro aroma. La sostanza fragrante prodotta dai fiori delle Gongorinae è costituita da una composizione chimica complessa situata sulla superficie del labello e composta da un sottile strato oleoso; le api trasformano questa sostanza in feromoni che useranno durante l’adulazione.

3.1. Quando un nome può creare incidenti diplomatici.
CAPITOLO 3
Nomi di orchidee in onore a personaggi famosi.
3.1. Quando un nome può creare incidenti diplomatici.
foto 14 Clint McDade (8 agosto 1892 Missouri USA – 30 Settembre 1986 Alabama USA), proprietario della Semmes Nursery, specializzata in Camelie ed Azalee e grande fornitore di Bellingrath Gardens (Alabama). Clint McDade aveva anche la passione per le orchidee, presto trasformò il suo hobby in attività professionale, dando vita alla “Rivermont Orchids in Signal Mountain, Tennessee”.
Clint si recava spesso in Inghilterra dove possedeva un vivaio di orchidee. A tal proposito giova ricordare che nel 1941 le sue orchidee furono utilizzate per gli addobbi del matrimonio della regina Elisabetta d’Inghilterra. Durante la seconda guerra mondiale, McDade portò negli USA, la maggior parte delle orchidee importanti e rare, presenti nelle sue serre inglesi. Prese tale decisione, sia per proteggerle dai bombardamenti tedeschi e per la mancanza di carbone in Europa, indispensabile per riscaldare le serre. McDade è stato anche giudice dell’American Orchid Society.
All’inizio degli anni 40 del 20° secolo, quando Clint McDade decise di fecondare i fiori di due ibridi della sua collezione di orchidee (Cattleya Bow Bells x Cattleya Barbara Billingsley), non poteva certo immaginare che un cultivar (varietà), frutto di quell’impollinazione gli avrebbe creato dei dispiaceri.
L’impollinazione è l’atto iniziale per la riproduzione delle orchidee attraverso la semina. Il principale elemento, che distingue le orchidee dalle altre monocotiledoni affini (Liliíflorae) e che costituisce il valore aggiunto, in termini evolutivi, del successo di questa famiglia è il ginostemio (colonna centrale che porta gli organi riproduttivi sia maschili che femminili).

3.2. Dalla fecondazione alla prima fioritura dei figli.
Mediamente occorrono da sei mesi ad un anno affinché maturi una capsula seminale. Ogni capsula contiene decine di migliaia ed in certi casi anche 3.000.000 di semi molto piccoli ed appena visibili ad occhio nudo. I motivi della loro ridottissima dimensione e del loro gran numero, stanno tutti nella necessità di farsi trasportare dal vento in molti luoghi diversi e soprattutto negli anfratti degli alberi.
I semi per essere fertili devono contenere il loro embrione: la sicurezza della loro fertilità è data solamente dal microscopio. Altra particolarità che caratterizza i semi delle orchidee è quella di essere quasi senza sostanze nutrienti e per germinare in natura, hanno bisogno della “collaborazione” di un fungo, in gergo tecnico, chiamata “simbiotica”.
Fino al 1922, anche nelle semine in laboratorio, il metodo “simbiotico” era l’unico conosciuto.
Nel 1922, il dr. Lewis Knudson dell’università di Correll, mise appunto un nuovo metodo, più semplice ed efficace: “germinazione asimbiotica”. I semi germinano in ambiente sterile su un terreno di coltura costituito da gelatina, zuccheri ed altre sostanze nutrienti: con questo metodo si evita di avvalersi del sussidio della simbiosi con un fungo.
Ancor oggi la formula “C” del dott. Knudson è usata nei laboratori di tutto il mondo. Ovviamente la presenza di zuccheri propaga esponenzialmente, sia batteri che funghi, pertanto, tutto l’occorrente (semi compresi) va sterilizzato e le varie operazioni della semina, vanno effettuate in ambiente accuratamente sterile, ad esempio in “cappa sterile a flusso laminare”.
Le capsule fecondate maturarono perfettamente e Clint McDade, poco prima che si aprissero per liberare i semi, diede il via alle operazioni di semina.
Fatta la semina è iniziato il periodo della coltivazione in vitro con terreno di coltura a temperatura oscillante tra 24 e 26 gradi e fotoperiodismo di 12 ore luminose (tubi al neon serie flora o Cool White…mai sole diretto) e 12 ore di buio effettivo.
Dopo qualche mese, già si potevano ammirare le piantine ben strutturate e in bella forma, il momento giusto per trasferirle in contenitori più grandi con terreni più ricchi: la classica operazione di “ricopertura”. Nel nuovo ambiente le piantine crescerono velocemente e dopo un anno di permanenza (potevano rimanere anche di più) vennero sistemate in “community pot”.
Trascorso qualche anno di coltivazione, le piante ormai adulte, mostrarono le prime fioriture: fiori regolari, bianchi, grandi e carnosi, proprio come allora andava di moda nei salotti buoni della borghesia americana.

3.3. Il battesimo con un nome importante.
foto 15 c_general_patton_1C. General Patton
Fra le tante piante di quella semina, una attirò in particolar modo l’attenzione di Clint. A “stregarlo” furono i suoi grandi fiori di colore bianco “caldo” e la forma del labello, frangiato con la gola giallo oro, quasi a ricordare il famoso quadro dei girasoli di Van Gog:
“Molto belli questi fiori” – esclamò Clint – ammirando la loro forma, e aggiunse:
“Questo cultivar merita sicuramente di essere registrato alla Royal Horticultural Society” – così si usa fare nel mondo della botanica -.
Eravamo nel mezzo della seconda guerra mondiale e Clint McDade, pensò di dedicare la sua nuova orchidea a Iosif Vissarionovic Džugašvili, conosciuto come Iosif Stalin, dittatore, Segretario Generale del Partito Comunista dell’URSS e leader di tale Paese, a quel tempo la maggior potenza alleata degli Stati Uniti d’America, contro la Germania di Hitler.
Mc Dade registrò quella sua splendida orchidea, nominandola: Cattleya Joseph Stalin. Eravamo nel 1943, Mc Dade era sì un bravo coltivatore di Orchidee, ma non un profondo conoscitore degli equilibri politici europei di quel tempo. Qualche anno dopo, a guerra finita e in pieno regime di “guerra fredda”, McDade si accorse di aver commesso un errore fatale e si fece in quattro per cambiare il nome della sua creatura. Impresa quasi impossibile. Mai era capitato prima di allora, che la Roial Horticultural Society, cambiasse un nome già registrato.
Però i nuovi equilibri politici mondiali post bellici, elevarono questa controversia a caso veramente eccezionale. Le autorità botaniche inglesi, in ossequio alla politica dominante, accettarono le suppliche di Clint, ma fu la prima e rimase l’unica volta. A quel cultivar fu cambiato il nome, sempre in onore di un noto personaggio: Generale Patton, famoso per le sue campagne militari nella seconda guerra mondiale, culminate con il comando dello sbarco in Normandia. Pertanto nei registri della RHS, l’incrocio fra Cattleya Bow Bells e Cattleya Barbara Billingsley, dal 1952 porta il nome Cattleya General Patton.
Nel 1975 Clint McDade donò la parte importante della sua collezione di orchidee al Collegio dei Ozarks nel Missouri, dove egli fu uno dei primi studenti della scuola, che conta oggi più di 7.000 piante.

Per la verità, anche nei nomi dei due genitori di Cattleya General Patton, si possono scorgere elementi di tristezza, di amore e di intrighi. Ad esempio, Cattleya Bow Bells (ibrido registrato alla RHS nel mese di Aprile del 1945 dalla società Black & Flory) porta questo nome in omaggio alle campane di St. Mary-le-Bow – una chiesa nel quartiere finanziario di Londra. La chiesa fu gravemente danneggiata dai bombardieri di Hitler durante la seconda guerra mondiale: era una leggenda nella città – non eri un vero “cockney londinese” se non eri nato nel raggio in cui si sentiva il suono delle sue campane. Il nome dell l’altro genitore, Cattleya Barbara Billingsley, ricorda Barbara Billingsley, star dello show televisivo americano, Leave It to Beaver, scomparsa il 16 Ottobre 2010.

3.4. Orchidee dedicate alle First Lady americane
Art e Rebecca Chadwick di Powhatan (Virginia) USA, gestiscono il vivaio “Chadwick and Son Orchids”. Per Art e Rebecca è ormai tradizione dedicare dei loro ibridi di Cattleya alle varie first lady che compaiono nella scena politica americana.
Negli anni, re, regine, principesse, presidenti e first lady sono stati onorati di avere un’orchidea “batezzata” con i loro nomi. Gli ibridatori americani sono sempre stati molto sensibili ed attenti su questo versante, ad esempio possiamo ricordare: C. Bess Truman, C. Pat Nixon, Lc. Mamie Eisenhower e Lc. Nancy Reagan ed altri casi che vedremo più da vicino.
foto 16 Il 21 ottobre 1995, una bellissima Cattleya semi-alba, cultivar selezionato dall’incrocio “C. Kittiwake ‘Brilliance’ AM/AOS x Blc. Meditation ‘Queen’s Dowry’” prodotto originariamente dalla ditta hawaiana “Carmela Orchids”, venne dedicata a Hillary Rodham Clinton con il nome: Blc. Hillary Rodham Clinton ’first lady’.
Il cultivar ‘First Lady’ fu registrato da Art e Rebecca Chadwick di Powhatan – Virginia – titolari della, “Chadwick and Son Orchids”. Registrare questo cultivar non fu facile. Il primo ostacolo che incontrarono i Chadwick fu quello di ottenere l’autorizzazione dalla ditta ibridatrice “Carmela Orchids”, avutala si presentò per loro un secondo ostacolo burocratico: alla Royal Horticultural Society (RHS), per accettare la registrazione con il nome di Mrs. Clinton, serviva il consenso dell’interessata. Contattare la Casa Bianca non fu semplice, ma con l’aiuto del Governatore della Virginia, finalmente giunse il permesso alla RHS in Inghilterra. Risolti i problemi burocratici rimaneva l’organizzazione dell’evento: la consegna del fiore alla First Lady. Bisognava coniugare il periodo di fioritura della Cattleya con gli impegni dei Clinton. La presentazione ufficiale avenne durante una cena di gala in onore dei coniugi Clinton. In quell’occasione i bouquet confezionati con i fiori della nuova orchidea, nominata Blc. Hillary Rodham Clinton ‘first lady’, furono venduti in beneficenza a 500 dollari per singolo bouquet e fu un successo.
foto 17
Anche Barbara Bush ha avuto il piacere di veder nominata una orchidea in suo onore: Brassolaeliocattleya Barbara Bush ‘First Lady’. Lei è stata la First Lady USA (1989-1993), moglie del presidente H. George Bush e madre di George W. Bush, futuro Presidente.
Brassolaeliocattleya Barbara Bush ‘First Lady’ è un ibrido a fioritura autunnale con fiori semi -alba: petali bianchi e un morbido labello color lavanda con gola gialla.
Con l’elezione alla presidenza degli USA del figlio George W. Bush è giunto il turno della moglie Laura.
foto 18 ‘Laura Orchid,’ coltivata e registrata alla RHS, da Chadwick & Son Orchids di Powhatan. La nuova orchidea è stata presentata a Laura Bush in occasione di un incontro al ” Botanical Garden di Washington. L’evento si è svolto Martedì 9 maggio in occasione del “Pranzo della First Lady”, incontro annuale delle mogli dei senatori degli Stati Uniti.
Il nuovo ibrido di Cattleya dedicato a Laura Bush è stato nominato Blc Laura Bush, genitori (Cat. walkeriana x Blcc Good News). I fiori prodotti da questa nuova orchidea sono di medie dimensioni, bianchi con striature viola, ed emanano un dolce profumo. In condizioni di buona coltivazione può fiorire due volte l’anno. il nome botanico ufficiale è Brassolaeliocattleya Laura Bush.
ffoto 19 Con l’orchidea dedicata a Laura Bush, Art e Rebecca Chadwick, sono già riusciti a fare “tris” ed ora attendono con trepidazione la prossima occasione propizia. Siamo nel 2008, in piena campagna elettorale per le elezioni presidenziali che vedono Barack Obama chiaramente favorito, e i nostri ibridatori sperano di piazzare un bel poker con Michelle Obama, moglie del candidato presidente. Michelle non era ancora Frst Lady, ma le previsioni davano per favorito il marito e quindi si poteva anche giocare d’anticipo. La risposta è arrivata ai primi di agosto, quando la moglie del candidato leader, Michelle Obama, è giunta in Virginia per un meeting elettorale e fu colta l’occasione per presentare la nuova orchidea da dedicare alla futura frst Lady. Il nome assegnato dalla botanica è Laeliocattleya Michelle Obama, incrocio fra (C trianaei x Lc Mini Purple).
E’simpatico ricordare che per la cerimonia di presentazione, foto ricordo e consegna del certificato RHS, erano previsti solo 2 minuti.

CAPITOLO 3
Ossessioni e passioni.

3.1. Kovach e il Santo Graal delle orchidee.
Fiumi di inchiostro sono stati consumeti per raccontare le storie ed i personaggi che hanno contribuito alla mitizzazione delle orchidee.
La più recente, e per certi aspetti, anche la più controversa è legata alla scoperta di una nuova orchidea peruviana.
Ormai sono trascorsi oltre 10 anni dal primo ritrovamento di una nuova specie di Phragmipedium che porta il nome del suo scopritore, o meglio, il nome di chi lo importò (illegalmente) negli USA: James Michael Kovach.
foto 20 L’inesorabile legge del tempo ha già fatto il suo corso e Michael Kovach, che tanto fece sussultare l’orchidofilia mondiale agli inizi del 21° secolo è scomparso, Domenica 26 Agosto 2012 a Goldvein Virginia: aveva 57 anni.
Nacque il 18 marzo 1955, a Fairbanks, Alaska. Trascorse la sua infanzia in Francia e Germania, dove sviluppò l’amore per i viaggi e la botanica.
James Michael Kovach, botanico autodidatta, si avvicinò al mondo delle orchidee, diventandone un buon esperto.
Con la moglie Barbara, creò “Southwind orchidee”, che lo portò ad esplorare gli habitat di orchidee autoctone di tutto il mondo. Una specie peruviana, Phragmipedium kovachii, porta il suo nome.
Phrag. kovachii è stato scoperto da Faustino Medina Bautista nel mese di ottobre del 2001, nei pressi della sua fattoria vicino a Moyobamba Chachapoyas nel nord del Perù. Questa nuova specie apparve per la prima volta in pubblico “illegalmente” il 17-19 Maggio 2002 al Redland International Orchid Festival di Miami (Florida), nello stand di un espositore peruviano: prezzo di vendita, 10.000 $ a pianta.

3.2. La scoperta di questa orchidea, una storia intrisa di ego e corruzione
Sì perché sono loro, le maliarde, la possibilità di averle per se, di dar loro il proprio nome e di entrare nella storia del loro mondo stregato, a catturare totalmente collezionisti e scienziati. Il collezionista vuole possederle, domarle e per ottenere ciò è disposto a compiere qualsiasi azione. Il suo portafoglio si dilata ed il valore delle orchidee tanto desiderate diventa accessorio ininfluente. Lo studioso invece le cerca, le descrive, le battezza con il proprio nome e per raggiungere questi obiettivi compie azioni al limite e qualche volta anche oltre la legalità.
E’ in questo mondo fatto di tanti milioni di Euro, che “navigano” cercatori di orchidee, raccoglitori e commercianti.
Molti scrittori hanno speso fiumi di parole per dare una ragione al fatto che, persone altrimenti razionali, siano portate a tali estremi dalle orchidee.
Quando un uomo si innamora delle orchidee, egli farà di tutto per possedere quelle che vuole. Nel 1939 Norman McDonald nel suo libro “I cacciatori di orchidee”, scrisse: “E’come inseguire una donna dagli occhi verdi o prendere la cocaina, è una sorta di follia”.Le orchidee non sono solamente un ossessione botanica, ma anche un’industria di oltre 2 miliardi di euro l’anno, cioè, il business dei fiori più redditizio in tutto il mondo. Questo è solo l’aspetto legale del business. Nessuno sa quanti soldi ci sono nel commercio illegale.
Da sempre, le figure che ruotano attorno a quella sottile linea che divide la legalità dall’illegalità, danno vita a storie fantastiche e misteriose, qualche volta anche delle vere e proprie saghe.
foto 21 Questi misteri sono ben descritti nel libro di Eric Hansen “orchid fever”, un racconto ben strutturato, di amore, di lussuria e di follia, il cui filo conduttore è appunto la corsa spasmodica alla caccia di orchidee rare. In ogni epoca la scoperta di nuove orchidee ha scatenato passioni e rancori. Sono state devastate foreste e sterminate piante nel loro ambiente naturale. Immutabilmente gli uomini hanno fatto follie per possedere un’orchidea e gli scienziati si sono scontrati per darle un nome. Ancor oggi accadono storie fatte di rancore e di lotta per il potere fra personaggi del mondo orchidofilo.

3.3. La saga del Phragmipedium kovachii.
La storia che segue racconta di una “battaglia contemporanea” maturata all’insegna dell’ego e della corruzione, una storia degna di essere menzionata in un eventuale tomo 2 del libro ”orchid fever” di Eric Hansen. La storia purtroppo comincia quando questa nuova orchidea è già seriamente in pericolo di estinzione in sito.
E’ in quel tempo che Faustino Medina (contadino peruviano), forse preoccupato dai clamori, che la mostra di Miami ha suscitato con la sua orchidea dai magnifici fiori color violetto, si precipita a comunicare la sua scoperta a dei botanici peruviani. Questi, rimasero visibilmente entusiasti, e convinti di trovarsi davanti alla più grande scoperta botanica degli ultimi 100 anni, si attivano per avviare le procedure di registrazione della nuova specie.

Foto gentilmente concessa a orchids.it da Manolo Arias
foto 22
Appare chiaro sin da subito, che per dare risonanza alla scoperta (pubblicazione su giornali scientifici di livello internazionale), bisogna che la nuova pianta sia descritta da studiosi riconosciuti dall’orchidologia mondiale, che sono in tutto 23 e nessuno è del Perù.
Quindi, la nuova orchidea dovrà essere descritta da specialisti stranieri, e si pensa di inviarla al tassonomista americano Eric Christenson, ma l’idea si dimostra impraticabile; ci sono problemi con il CITES ed inoltre, la pianta da classificare, non avendo ancora un nome non può essere esportata legalmente fuori del Perù.
I botanici peruviani risolvono il problema inviando foto e descrizioni della pianta a Eric Christenson negli Stati Uniti. Descrizioni e materiale fotografico avrebbero consentito a Christenson di curare la presentazione ufficiale della nuova pianta nella rivista “Orchids” (mensile dell’American Orchid Society). Il nome da assegnare sarebbe stato Phragmipedium peruviano e la pubblicazione sarebbe uscita il 27 giugno 2002.

3.4. Altri “cacciatori” fiutano la “preda”.
Lee Moore, “vecchio” cacciatore di orchidee, un quarto di secolo speso a camminare in giro per le giungle del Sud America a raccogliere di tutto, comprese nuove specie di orchidee, alcune lui nominate.
Moore e sua moglie Chady, di origini peruviane, vivono nei dintorni di Miami (USA), ma si recano spesso in Perù, vicino alla città di Moyobamba, dove possiedono un grande vivaio nominato “Lee & Chady Moore, Vivero Nuevo Destino”. Moyobamba, arroccato sulle Ande è conosciuta come “La Città delle Orchidee”, per via del gran numero di specie che crescono spontaneamente nelle campagne circostanti.
Moore conobbe Kovach nel 1996. Cominciarono a parlare di orchidee e fra i due sbocciò presto l’amicizia. Del suo amico Kovach, Moore ricorda una sua frase ricorrente:
“Lee, tu sei famoso perché hai un sacco di piante che portano il tuo nome, anch’io vorrei una nuova specie di orchidea a me intitolata”.
Già nel 2001, Kovach, in uno dei suoi viaggi in Perù a caccia di nuove orchidee, ebbe modo di vederne alcune inusuali, ma non erano in fiore, e non le acquistò. Un anno dopo, nella primavera del 2002, Moore e Kovach si accordarono per ritornare insieme in Perù. Sull’aereo, oltre a Moore e Kovach, c’erano la moglie di Kovach, Barbara Ellison, ed un fotografo professionista. Pare che in quell’occasione l’obiettivo comune fosse quello di avviare un grande vivaio in società.

3.5. Gli effetti della mostra di Maiami
Sono passati solo pochi giorni dal Redland International Orchid Festival di Miami, e quella strana orchidea esposta nello stand peruviano ha già scatenato la curiosità di tanti “cacciatori di orchidee”, tra i quali anche quella di Kovach, che già accarezzava l’idea di trovarla in sito, lui sapeva dove cercarla!
Ed è così che il 26 maggio 2002, Kovach torna nuovamente in Perù. Questa volta è da solo. Giunto sul posto cerca Jose Mendoza, metà taxista e metà avventuriero, per andare a caccia di orchidee.
Kovach propone di recarsi in una strada di montagna a lui nota, dove abitudinariamente gli abitanti della zona vendono orchidee ai bordi dei sentieri. Strada facendo, Jose Mendoza, racconta a Kowach di aver visto, in certi luoghi, delle piante di orchidea mai viste prima. Kovach, che non è l’ultimo arrivato nel mondo delle orchidee, si fa accompagnare subito in quel posto, per altro a lui già noto. Sono le 3:30 del pomeriggio, quando giungono a destinazione: un parcheggio per camion chiamato El Progresso, dove si radunano i contadini della zona per vendere poche cose ai passanti. Kovach butta l’occhio in giro e sul ciglio della strada scorge lo stesso “stand” visitato l’anno prima. Non vede gran che di interessante, con scarso entusiasmo sceglie un un paio di orchidee sistemate sopra il tavolo gestito da due giovani locali (fratello e sorella). La donna, forse ricordandosi di aver già conosciuto Kovach, lo invita a pazientare e si allontana di qualche metro. Torna poco dopo con tre piante – questa volta fiorite – dai grandi petali color rosa scuro. Kovach rimane incantato:
“I fiori sembranoo appartenere a qualche specie di Phragmipedium” – esclama Kovach!
“non ho mai visto nulla di simile prima d’ora, troppo grandi e troppo colorati sono i petali” – sussurra Kovach fra sé e sé.
“3,60 dollari a pianta”, – più di sette volte quello delle normali piante esposte nella bancherella -.
“prendere o lasciare” – esclama con tono perentorio la donna, convinta di fare un gran affare. Kovach le acquistò tutte e tre a prezzo intero. Al suo rientro alla base, Kovach andò subito a trovare il suo mentore ed amico Lee Moore. Quando gli mostrò le piante, Moore rimase stordito… il collezionista veterano si ricordò che Kovach bramava di avere un’orchidea con il suo nome ed esclamò:
“Questa è la tua occasione… hai trovato la tua grande pepita d’oro, il Santo Graal delle orchidee”.

3.6. Le autorizzazioni
Passata l’euforia del grande momento, Kovach si pose subito il problema dei permessi, ma Moore lo tranquilizzò:
“in tutti i miei anni di spedizioni al Marie Selby Botanical Gardens per le identificazioni, nessuno ha mai chiesto i permessi” – precisò Lee”. Così, quando Kovach chiese cosa fare con la sue piante, Moore lo consigliò di recarsi da Selby. Quali pensieri attraversassero la mente di Kovach in quei momenti, è facile immaginarlo: egli vedeva già il suo nome in bella mostra nei libri scientifici.
“Voglio che la pianta porti il mio nome, a qualsiasi costo” – era il pensiero fisso di Kovach, prima di tornare al suo Paese. Decise di lasciare due piante a Moore, la terza la nascose per bene in un tubo e la infilò nella sua valigia, destinazione U.S.A.

Marie Selby Botanical Gardens Sarasota U.S.A.
foto 23 Christy Payne House è la sede per mostre temporanee di arte botanica e fotografia. Giunto negli U.S.A., Kovach, si recò ai giardini botanici di Marie Selby. I giardini si trovano nel contesto della ex casa di Marie e William Selby (della Texaco Oil Company) a 811 South Palm Avenue, nel cuore di Sarasota, Florida, Stati Uniti d’America. Le serre raccolgono oltre 10.500 esemplari di 92 famiglie di piante, con più di 600 generi, tra cui 4900 orchidee, 3600 bromeliacee, 660 aroids, 240 felci, 140 gesneriads, e 1300 altre piante. Marie Selby Botanical Gardens, pubblica anche una sua rivista scientifica (Selbyana), e si avvale del maggior numero di tassonomi certificati dall’AOS (American Orchid Society). Descrive e documenta una decina di nuove specie di orchidee l’anno.

3.7. Il sogno di Kovach
Kovach consegnò la pianta a Wesley Higgins, primo responsabile del Marie Selby Botanical Gardens e la mostrò agli esperti presenti, che rimasero a bocca aperta. Kovach non chiese denaro, ma si accordò affinché il nuovo Phragmipedium fosse battezzato con il suo nome. L’evento creò un certo fermento al Marie Selby Botanical Gardens. La descrizione della nuova orchidea fu curata da due esperti, John T. Atwood e Stig Dalstrom e da Ricardo Fernandez (responsabile delle orchidee al museo di storia naturale di Lima in Perù). Ed è così che la nuova pianta fu nominata ufficialmente: Phragmipedium kovachii. Il 12 giugno2002, uscì un edizione speciale di “Selbyana” con la presentazione della nuova orchidea. La pubblicazione anticipò di pochi giorni l’articolo di presentazione di Erik Christenson con le descrizioni della stessa specie, uscì il 17 giugno 2002 su “Orchids” (rivista dell’American Orchid Society), con il nome Phragmipedium peruviano. Le autorità botaniche non accettarono il nome “peruvianum”; alcuni esperti (con motivazione assai discutibile), ricordarono che un nome simile era già stato utilizzato per altra specie (Phragmipedium peruviana), anche se non validamente pubblicato; trattasi di Phragmipedium richteri.
Questi i fatti, Kovach realizza il suo sogno e pur non conoscendo nulla di questa nuova orchidea (habitat, coltivazione e agenti impollinatori) è ufficialmente il suo scopritore e la nuova orchidea porterà per sempre il suo nome (leggi della botanica). Costo della notorietà raggiunta, 7 dollari USA messi nelle mani callose di una povera ed ignara contadina peruviana. Ma la storia non finisce qui, anzi siamo solamente agli inizi. Il clamore suscitato da questa scoperta nell’ambiente orchidofilo internazionale, amplificato in senso negativo dalla disputa fra i due giganti (Selby e Christenson, ex dipendente Selby) comincia a mietere le prime “vittime”. Inizia la spasmodica raccolta di tutte le piante della nuova specie, presenti nel primo sito scoperto, che la porta velocemente all’estinzione in situ.
Il Marie Selby Botanical Gardens sente il peso morale della azione, decisamente illegale, commessa dai suoi dirigenti responsabili e corre ai ripari. La direzione del giardino botanico, pur declinando qualsiasi responsabilità nella vicenda, decide di rispedire immediatamente in Perù, l’esemplare in suo possesso. Purtroppo anche in quest aazione, apparentemente riparatrice, si insinua l’ego del possesso: John Atwood, uno degli esperti incaricati di riconsegnare la pianta ai peruviani, la divide e porta con se un ceppo nel Vermont.

3. 8. Troppo tardi ormai per le azioni riparatrici: la “guerra” è dichiarata.
Le autorità peruviane inoltrano formale accusa di esportazione illegale di orchidee protette dalla convenzione di Washington, contemporaneamente si attiva anche la polizia Americana con la mobilitazione delle sezioni abilitate alla difesa della flora e fauna in pericolo d’estinzione. Inizia l’indagine che vede Kovach, il Marie Selby Botanical Gardens, ed altri importatori americani, indagati. La pianta trovata presso John Atwood è confiscata e il Marie Selby Botanical Gardens, dopo averla negata per mesi, ammette la sua responsabilità:
“non pensavamo che stavamo facendo qualcosa di sbagliato, ma l’abbiamo fatto, e ce ne dispiace” – ammise il Presidente Selby, Barbara Hansen.
Nel frattempo in Perù continua la raccolta illegale di migliaia di P. Kovachii . I primi due siti conosciuti che ospitavano il Phragmipedium dai grandi fiori viola, risultano totalmente sterminati, in certi casi addirittura distrutti per far aumentare il valore delle piante già raccolte. Il busines illegale tocca anche il mercato europeo: 1000 dollari a pianta.
Altre rimangono stoccate in vari viavi peruviani (per esempio presso Karol Villana del ”Vivero Agroriente”), in attesa di tempi migliori. Molte piante, vista la scarsa conoscenza colturale, muoiono.

foto 24 Membri della Famiglia Villena dell’ Agroriente Viveros: da sinistra a destra, Karol (biologa e responsabile del vivaio), Milton, Mammma Tomi, Papa Renato, Milagros, Rodriguito, e Alex.
Qualche persona ha cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica, sul grande patrimonio della flora e della fauna peruviana:
Ecco il riassunto di una e-mail del 2003, inviata da Carol Villena a www.parkswatch.org:
“Le orchidee della foresta sono state poco studiate… quasi due anni fa uno scienziato ha scoperto cinque nuove specie di orchidee solo campionamento sul ciglio della strada, e l’anno scorso la notizia della scoperta di Phragmipedium peruvianum ha fatto il giro del mondo ed è stata considerata la più grande scoperta del mondo delle orchidee la cui bellezza ha un grande potenziale genetico in ibridazioni. Purtroppo è stato scoperto dai contadini che non conoscevano il valore di questa pianta e sono stati utilizzati solo come strumenti di raccolta in sito per pochi soldi, mentre ciascuna pianta veniva venduta da $ 500 a 10.000 nel mercato nero! Credo che siamo ancora in tempo per salvare la foresta, e penso che misure immediate dovrebbero essere un enorme avvertimento o un segno, per informare che è vietato sradicare e acquistare le orchidee della foresta, e da subito bisognerebbe eliminare le bancherelle di vendita. E’ incredibile che un anno e mezzo dalla scoperta di questa specie e dopo lo scandalo del contrabbando che sta avvenendo con questa specie non si è fatto nulla… nel pomeriggio del giorno che eri qui, sono andata a visitare un negozio di artigianato che il comune ha aperto agli artigiani della città: lì ho trovato un paio di piante di questa specie, una di loro in fiore, raccolte da meno di un mese e appartenevano all’ attuale vice sindaco.
Ho informato l’ingegnere che lavora presso la sede INRENA ( Instituto Nacional de Recursos Naturales) qui a Moyobamba, ma dopo due giorni dalla denuncia non era ancora intervenuto. Sono andata a trovarlo per avere notizie:
“La pianta non c’è più”, mi ha detto.
“Lei non mi ha detto il vero, e non voglio problemi con la stampa per quanto riguarda questa pianta” ha aggiunto.
Non ti dà rabbia questo atteggiamento? E ti fanno passare anche per bugiarda!”

In mezzo a tante difficoltà (il business illegale coinvolge anche le autorità peruviane preposte ai controlli), una spedizione di Harold Koopowitz individua una terza colonia di P. kovachii . Quel viaggio è l’occasione di un suo lungo articolo di denuncia, inviato alla rivista “Orchid Digest” (numero di Ottobre, Novembre e Dicembre 2003).
La corsa al saccheggio era già nella fase acuta, si racconta di “pickup” carichi di grandi sacchi di juta, con
diverse centinaia di enormi piante di P.kovachii, dalle grandi foglie fuori dalle cime dei sacchi senza alcun tentativo di nasconderle. Sembra che si siano impiegati perfino elicotteri per trasportare piante raccolte in zone impervie e le accuse si intrecciano.
foto 25 Vendita illegale di orchidee: bancherelle improvvisate, lungo i sentieri della foresta peruviana.
Lee Moore accusa Faustino e stigmatizza la scarsa attenzione, se non connivenza con il mercato illegale delle autorità preposte ai controlli. Intanto, il famoso taxista Jose Mendoza, fiutato il business, batte a tappeto i terreni di Faustino Medina, e raccoglie tutte le piante che incontra, per poi venderle al mercato nero aiconcessionari in Ecuador e Lima.
Per porre fine allo scempio, nel frattempo sono intervenute anche le autorità peruviane, accordando il permesso speciale ad un solo produttore locale (Alfredo Manrique Sipan), di prelevare 5 piante da questa colonia, al fine di riprodurre artificialmente la nuova specie.
Ufficialmente, solo i figli di queste 5 piante di P. kovachii potranno essere commercializzati legalmente, ciò significa che sarebbero dovuti passare molti anni prima di poter vedere Phragmipedium kovachii fioriti, fuori dai siti della sua endemicità. Mentre sto scrivendo questo racconto, da allora sono trascorsi poco più di 10 anni e già agli inizi dell’anno si son viste piante fiorite in Europa: a poco è servita la decisione delle autorità peruviane.
La località del sito individuato da Koopowitz è stata tenuta ufficialmente segreta, ciò nonostante la razzia attivata dalle potenti organizzazioni dei trafficanti abusivi, con la benedizione delle autorità peruviane, ha già saccheggiato anche questo ed altri tre nuovi siti. Di questo scempio, Josè Mendoza (il tassista di Kovach), Lee Moore e altri, sono stati i veri mattatori: i raccoglitori peruviani, in cambio di questo saccheggio che li vede primi artefici, hanno ricavato ben poco. Sembra che Kovach e Selby siano stati condannati a pagare somme abbastanza irrisorie più qualche condanna accessoria.

CAPITOLO 4
Orchidofili e botanici italiani: tre maestri di stile.
4.1. Viaggio fantastico fra le orchidee scoperte dal missionario salesiano di origini italiane (Castions – Friuli) Angelo Andreetta
foto 26 Padre Andreetta, missionario Salesiano, è stato anche un grande portatore di umiltà e di aiuto agli “ultimi”, la sua opera spirituale ha camminato di pari passo con il suo amore per la natura, le piante e per l’appunto, le orchidee. Noi appassionati di orchidee, conosciamo il valore delle sue scoperte e del suo lavoro a favore di quel grande patrimonio presente in Ecuador, ma al di fuori del nostro magico mondo, pochi altri sono informati. La vocazione spirituale porta Padre Angelo Andreetta a vivere in Ecuador dove è presente il maggior numero di specie botaniche di orchidee esistenti al mondo. Siamo sul finire degli anni 30 del ventesimo secolo, quando questo paradiso della natura affascina il giovane Andreetta, giunto in quelle terre per istituire una missione salesiana.
Avendo l’opportunità di attraversare anche le zone più vergini di quel Paese, Padre Andreetta si trova sovente al cospetto di estese colonie di orchidee. E’ così che nasce l’amore per queste piante, che lo porta a cercarle, raccoglierle e coltivarle nel giardino della sua missione. Padre Angelo Andreetta, con grande lungimiranza capisce che quel vasto patrimonio naturale presente in Ecuador può essere un’enorme opportunità di miglioramento delle condizioni di vita delle genti dei luoghi; lui non è il classico raccoglitore al servizio di qualche commerciante europeo e per questo cerca di coinvolgere nella sua opera, gli abitanti locali. Grazie al suo lavoro, nel 1968 l’Ecuador partecipa per la prima volta ad una mostra internazionale di orchidee in Colombia.

4.2. L’incontro con la famiglia Portilla
Una delle famiglie ecuadoriane che inizialmente aiutarono Padre Andreetta nella coltivazione delle orchidee, fu quella dei Portilla, a quel tempo composta da padre, madre ed il figlio, Mario. Mario fu rapidamente catturato dall’amore per le orchidee di Padre Angelo. Padre Andreetta, nelle sue esplorazioni portava spesso con sé i due giovani Gualaceñi, Mario e José “Pepe” Portilla. Con il trascorrere del tempo, l’entusiasmo dei fratelli Portilla per quelle piante, li incoraggiò ad organizzare professionalmente la loro esperienza ed è così che prese forma una proficua passione per la coltivazione delle orchidee.
foto 27 La sede attuale di Ecuagenera è a Gualaceo, ed è guidata da José Portilla, più popolarmente conosciuto come Pepe, con l’assistenza di alcuni suoi fratelli e nipoti.
José Pepe Portilla ricorda con commozione, l’interesse di Padre Andreetta per la conservazione delle orchidee equadoriane e per la ricerca scientifica, ma per fare questo – spiega Pepe Portilla – abbiamo dovuto creare un’impresa, non è come negli Stati Uniti, in Ecuador nessuno ti dà i soldi per la ricerca. Per favorire la ricerca bisogna vendere piante – sottolinea Pepe, ed aggiunge – in Ecuador vivono oltre 4.200 specie, molte delle quali sono in pericolo di estinzione, Ecuagenera ha già contribuito alla descrizione di un migliaio di nuove specie, ma si potrà arrivare a 7.000, una volta che saranno scoperte e descritte tutte le specie endemiche nel nostro Paese.

Nonostante gli spostamenti in varie missioni sparse per l’Ecuador, Padre Andreetta ha sempre mantenuto un forte contatto amichevole con la famiglia Portilla che, anche in sua assenza ha curato il giardino botanico di Bomboiza.
Gli eventi hanno fatto sì che i Portilla si trasferissero a El Pangui, circa 35 Km più a sud, dove Mario ed suoi fratelli, con la benedizione esplicita di Padre Andreetta, hanno dato vita ad un piccolo vivaio di orchidee, ancora oggi in attività. Con il tempo, il vivaio della famiglia Portilla iniziò a crescere commercialmente e Padre Andreetta, per evitare le critiche dei suoi superiori si mise in disparte, assumendo il semplice ruolo di consulente.

Nel 1991, con il sostegno attivo di Padre Angelo, la famiglia Portilla avvia un nuovo vivaio di orchidee di Gualaceo, a metà strada fra Cuenca e Paute… nasce Ecuagenera. Il resto è storia dei nostri giorni: Ecuagenera è la prima azienda ecuadoriana ad ottenere il permesso legale per esportare orchidee. Oggi è la maggiore azienda esportatrice di orchidee dell’Ecuador e nel prossimo futuro sarà protagonista nell’organizzazione del World Orchid Conference 22° WOC a Guayaquil Ecuador nel 2017.

4.3. Padre Angelo Andreetta, un grande uomo.
Chiunque ami le orchidee e sia particolarmente affascinato dalle specie endemiche in Ecuador, deve essere a conoscenza del nome “Andreetta”. Padre Andreetta è conosciuto nell’ambiente orchidofilo mondiale soprattutto per la scoperta di un gran numero di orchidee, molte delle quali portano il suo nome. E’ nato in Italia, a Castions, Comune di Zoppola in Provincia di Pordenone ed è diventato missionario Salesiano in Ecuador. I Salesiani sono presenti in Ecuador sin dal 1888. In questo paese hanno costruito strade, istituito scuole, hanno fondato ospedali ed hanno realizzato molte altre iniziative in favore delle genti dei luoghi.
foto 28 E’ in questo contesto che Padre Angelo Andreetta giunge molto giovane in Ecuador sul finire degli anni 30.
Egli ricorda che ci volle del tempo per abituarsi alla fauna selvatica della zona. Tuttavia, sin da subito nacque in lui un amore naturale per le piante e non poteva fare a meno di notare le meraviglie della flora tropicale che lo circondava. Nei primi tempi si spostava sempre a piedi, e nei suoi viaggi era facile per lui, ammirare e raccogliere le piante lungo i sentieri, spesso conquistati a colpi di machete, per portarle nella sua missione a Bomboiza. Fra tutte le piante, quelle che più spesso catturavano i suoi occhi erano le orchidee. Nel lato est della sua missione aveva salvato una radura di alberi autoctoni dove ad ogni ritorno sistemava le orchidee che raccoglieva nelle varie esplorazioni; piano piano prese vita un piccolo angolo fiorito che crebbe rapidamente fino a diventare un giardino botanico.
Andreetta è rimasto a Bomboiza per 25 anni, durante i quali la missione si sviluppò sia per dimensioni che per influenza, oltre che per la sua fama di giardino botanico delle orchidee. La sua memoria nel ricordare la posizione delle orchidee scoperte era fenomenale, Padre Angelo era in grado di andare mentalmente nei luoghi precisi, descrivendo con precisione anche i gruppi di alberi, dove aveva scoperto le sue Masdevallia o le sue Pleurothallis.
foto 29 Egli racconta con genuino orgoglio, di aver visto Phragmipedium besseae, molto prima della sua scoperta ufficiale, e di aver individuato anche gli habitat di una rara e sconosciuta Anguloa color rosa, ma i suoi impegni in missione ponevano in secondo piano la sua passione, in fondo – dice -, prima o poi le avrei raccolte, purtroppo non sono stato in grado di farlo. Padre Andreetta, quale membro della congregazione dei salesiani, deve seguire le indicazioni della sua casa madre. Dopo 25 anni di permanenza a Bomboiza riceve l’ordine di trasferirsi a Quito, dove rimane per quattro anni, poi di nuovo verso sud a Cuenca.
Cuenca è quasi a 3000 m di altitudine, molto più in alto rispetto a Bomboiza e quindi per mantenere il suo amore per le orchidee, deve costruirsi una piccola serra. Tuttavia, dopo altri quattro anni cambia ancora missione spostandosi a Paute, 30 km a nord est di Cuenca, dove continua la sua opera missionaria per oltre 25 anni, trascorrendovi anche gli ultimi della sua vita in semi-pensionamento e coltivando fino alla sua morte, avvenuta in settembre del 2011, la sua piccola collezione di orchidee composta principalmente da Cattleya coltivate in una serie di serre, per i loro fiori, che vendeva a livello locale allo scopo di raccogliere denaro da devolvere ad una chiesa, nella parte più povera di Cuenca.
Il proficuo e spassionato impegno di Padre Andreetta, raccolse grande interesse che si materializzò in una specie di “cenacolo” scientifico e culturale, con botanici e ricercatori di fama mondiale come protagonisti.
foto 30 Negli ultimi anni della sua vita, padre Andretta, ormai famoso nel mondo delle orchidee sudamericane, riceveva spesso le visite di botanici e studiosi di tutto il mondo. Indossava sempre un semplice abito grigio ed una camicia di lino bianca, il suo portamento era umile, e gentile. A chi gli chiedeva come mai una delle più belle specie di Masdevallia intitolate alla sua persona, portasse uno dei più angoscianti nomi di genere “Dracula“, lui, con fare scherzoso, puntava metaforicamente il dito contro il dottor Carl Luer, con il quale aveva collaborato alla descrizione di molte orchidee, soprattutto Pleurothallidinae, raccolte insieme nei loro viaggi.
Per la Masdevallia, io proposi a Luer di nominarla “angelica” – rispondeva Padre Andreetta – in virtù del suo candore cristallino, ma Luer scelse il nome andreettana, mentre Dracula andreettae, era una specie già nota da alcuni anni in Colombia, seppur non ancora descritta, solo dopo la prima scoperta fatta in Ecuador del nord, vicino al confine colombiano da Alex Hirtz è stato possibile descriverla nuovamente da Luer.

4.5. Le orchidee nominate in onore di Padre Angelo Andreetta
Padre Andreetta ha sempre avuto grande rispetto per il dottor Luer, ciò nonostante, in qualche caso si è trovato in disaccordo con lui su alcuni punti, soprattutto per quanto riguarda il genere Portillia, che è stato creato da W. Königer. L’unica specie del genere è Portillia popowiana Königer & JJ Portilla, ma Luer, considerandola semplicemente una Masdevallia, nella sua risistemazione delle Pleurothallidinae l’ha rinominata M. bicornis, ma in contrasto con l’opinione di Padre Andreetta che motivatamente ritiene la validità del nuovo genere monospecifico.
Le specie di orchidee nominate in onore di Padre Andreetta, comprendono i seguenti generi: Masdevallia, Dracula, Brachionidium, Brassia, Chondroryncha, Cyrtochilum, Kefersteinia, Lepanthes, Lycaste, Mormodes, Porroglossum, Scaphosepalum, Stelis e Trisetella, inoltre sono anche state nominate a lui, due specie non appartenenti a generi di orchidee: Guzmania e Tillandsia.Molte altre orchidee sono state scoperte da Padre Angelo Andretta in collaborazione con Luer, il loro lavoro ha prodotto la classificazione e la descrizione di cinque Dracula, cinquantacinque Masdevallia, due Porroglossums, uno Scaphosepalum e due Trisetella.
Anche un sub-genere monospecifico di Pleurothallis è chiamato Andreettaea, originariamente è stato considerato addirittura genere, ma si sa, ai botanici piace cambiare spesso i nomi, Padre Andreetta lo sa bene e sono convinto che li ha già perdonati. Chi ha avuto la fortuna di incontrare questo umile e grande uomo si deve considerare onorato, onore che avrei tanto voluto avere anch’io, ma le vicende della vita non me lo hanno concesso.
Padre Andreetta è morto il 13 Settembre 2011, era nato a Castions di Zoppola (PN) Friuli Italia nel 1920.
Caro Angelo, possiamo iniziarlo ora il nostro viaggio fantastico fra le tue orchidee.
Avremo modo di ammirare alcune delle specie botaniche nominate in tuo onore, cercherò di non presentarle in fredde schede scientifiche, non mi piacerebbe e non ne sarei nemmeno capace, preferisco raccontarle mettendo insieme le notizie che sono riuscito a trovare, in certi casi ricche ed in altri un po’ avare.

foto 31 Aetheorhyncha andreettae (Jenny) Dressler 2005.

Inizialmente questa nuova specie è stata descritta da R. Jenny, con il nome di genere Chondrorhyncha e con l’epiteto di specie andreettae, in onore del suo scopritore padre Angelo Andreetta: Chondrorhyncha andreettae Jenny, Orchidee (Hamburg) 40:92. 1989.

Successivamente, nel 2005, Dressler l’ha trasferita nel genere Aetheorhyncha.
Nome riconosciuto valido ed attualmente accettato: Aetheorhyncha andreettae (Jenny) Dressler 2005.

Brassia andreettae
foto 32 Brassia andreettae (Dodson) Senghas, Schlechter Orchideen I/C(33-36):2097 (1997).
Specie scoperta da Padre Andreetta e da Alex Hirtz, a metà del mese di Maggio del 1988.
Rimase in coltivazione nelle serre di Paute, 22 km a est di Cuenca sulla Río Paute Ecuador.
Qualche anno più tardi, nel 1993, la pianta fiorita è stata descritta da Dodson, come Ada andreettae.
Dodson collocò questa nuova specie nel vecchio genere Ada (sorella di Artemide, dea della caccia) descritto da Lindley nel 1853.
Vive in Ecuador ad altitudini di circa 1800 metri. Pianta epifita di piccole-medie dimensioni, ama ambienti ombrosi caldi e primavere fresche. Ha uno sviluppo cespitoso con pseudobulbi avvolti da foglie basali e da un’unica, apicale, eretta, coriacea e lanceolata. In primavera spuntano racemi con molti fiori di 3 cm.
Questa specie rimase poco nel genere Ada, nel 1997 Senghas la sistemò nel genere Brassia con il nome: Brassia andreettae (Dodson) Senghas 1997.
Nel 2006 Szlach. & Górniak, la trasferirono in Brassiopsis andreettae(Dodson)Biodivers. Res. Conservation 1-2:12 (2006).
Nome di genere attualmente accettato: Brassia andreettae (Dodson) Senghas, Schlechter Orchideen I/C(33-36):2097 (1997).
Basionimo: Ada andreettae Dodson, Orquideologia 19: 777 (1993).

foto 33 Dracula andreettae
Dracula andreettae (Luer) Luer, Selbyana 2 (2-3): 193. 1978.
Dracula, ovvero “piccolo drago” dall’aspetto intrigante dei suoi fiori e dalla sua passione per ambienti di vita umidi ed ombrosi.
Questo genere appartiene alla sottotribù Pleurothallidinae, è stato creato dal Dr. Carl Luer nel 1978, per raggruppare alcune specie del genere Masdevallia con fiori pelosi e dal labello inusuale.
Le prime specie furono scoperte nel 1870 nelle umide foreste della Colombia, dell’Ecuador e del Perù.
Ci sono più di 100 specie conosciute, ma molte altre sono ancora da scoprire.
Nell’ottobre del 1975, in collaborazione con Hirtz, Padre Andreetta scoprì una nuova specie di Dracula, sul declivio occidentale delle Ande a 1500-2000 m. di altitudine. La nuova specie fiorì in coltivazione a Cuenca, il 12 Luglio 1977.
Il Dr. Luer inizialmente descrisse questa nuova specie assegnandole l’epiteto specifico “andreettae” ed inserendola nel genere Masdevallia, ma nello stesso anno (1978) la spostò nel genere Dracula.
Dracula andreettae è una specie epifita da clima fresco, freddo. Vive nelle parti basse dei tronchi degli alberi formando ceppi di foglie guainate e coriacee, alla cui base si formano steli fiorali penduli che si aprono in tardo inverno.

Kefersteinia andreettae
foto 34 Kefersteinia andreettae G. Gerlach, Neudecker & Seeger 1989.
Sezione: Papilionatae
Sinonimi: Kefersteinia salustianae D.E.Benn. & Christenson 1994.
Questa specie vive nei boschi secondari in Ecuador e in Perù ad altitudini da 700 a 1500 metri. E’ una pianta epifita di piccole dimensioni a sviluppo cespitoso con le foglie a ventaglio, dalla loro base spuntano in qualsiasi periodo dell’anno, esili steli fiorali leggermente penduli, dotati di singoli fiori dal colore tenue e delicato.
La prima specie del genere Kefersteinia è stata descritta nel 1852:
Kefersteinia RCHB.F., Bot. Zeit. (Berlino) 10:633 (1852).
= Zygopetalum sez.Kefersteinia RCHB.F., Walp. Ann. Bot. Syst. 6:657 (1861).
Specie tipo: Kefersteinia graminea (LINDL.) RCHB.F.

Masdevallia andreettana
foto 35 Masdevallia andreettana Luer 1981.
Pubblicazione: Selbyana 5(3,4): 390. 1981.
Sottogenere: Masdevallia
Sezione: Masdevallia
Sottosezione: Oscillantes

Specie tipo del genere: Masdevallia uniflora Ruiz & Pavon 1798.
Masdevallia andreettana vive nel sud-est dell’Ecuador ad altitudini che vanno da 1.400 a 2100 m.
Specie epifita, nel suo habitat vive a temperature diurne di 13-20 C e 9-13 C notturne.
Pianta di piccole dimensioni (4 – 5cm). I fiori, grandi, candidi e delicati misurano 3 cm di larghezza ed hanno la punta del labello di colore rosso.

Mormodes andreettae
foto 36 Mormodes andreettae Dodson 1982
Specie endemica in Colombia e in Ecuador nelle foreste montane molto umide ad altitudini da 400 a 1500 metri. Pianta epifita di piccole dimensioni da clima caldo. Sviluppa un breve rizoma lungo il quale si formano diversi pseudobulbi carnosi e rigonfi, avvolti da numerose guaine basali e da foglie ellittiche, acute, sottili, plicate, distiche e decidue. Quando gli pseudobulbi maturi si spogliano, dai loro nodi spuntano le infiorescenze dalle quali emergono grandi fiori in tarda primavera.

Odontoglossum x andreetteanum>
foto 37 Odontoglossum x andreetteanum
Ibrido naturale (O. harryanum x O. praestans).
Pianta descritta dai botanici Stig Dalström & Gilberto Merino, nel 2009.

“Soltanto un artista potrebbe trovare le parole e gli aggettivi per descrivere le stupende piante che appartengono a questa tribù di epifite. Si dovrebbero fare paragoni con le piume, gli elfi dei boschi, o con le farfalle e le viole, con i monili in filigrana e figurine uscite da un balletto classico. Si dovrebbero ricordare i dorati raggi del sole, oppure gli incanti delle notti di gelo. Una volta messe insieme le lettere per dire tutto ciò, le lettere formerebbero le parole Odontoglossum, Oncidium e Miltonia, che sono i membri più importanti di questa tribù.”
Così descrisse le piante appartenenti a questa grande tribù, Rebecca Tyson Northen, dolcissima interprete e profonda conoscitrice del fantastico mondo delle orchidee.

Phragmipedium andreettae
foto 38 Phragmipedium andreettae Cribb & Pupulin in Lankesteriana, 6(1): 1-4 (2006)
Descrizione originale della nuova specie, in latino: Species affinis Phragmipedio fischeri Braem et H. Mohr sed foliis angustioribus, 1.2-2 cm latis (2.5-3 cm latis in P. fischeri), floribus pallide roseis vel albis, petalis ellipticis vel obovatis marginibus reflexis, sepalo dorsali margine reflexo, labello angustiore, 1.2-1.4 cm diametro (1.5-1.7 cm diametro in P. fischeri) pallido roseo, staminodio longiore quam latiore obtrullato ad apicem minute bifido distinguendo.
Tipo: NW Ecuador, sine prov., hort. Ecuagenera, November 2005, Portilla
Phragmipedium andreettae è stato scoperto nel nord-ovest dell’Ecuador. La nuova specie è strettamente legata al P. fischeri, dal quale differisce per le foglie più strette, i fiori bianchi al rosa pallido, i petali ellittici, il sepalo dorsale stretto, il labello rosa pallido e lo staminode più lungo che largo con bifidi all’apice.

Scaphosepalum andreettae
foto 39 Scaphosepalum andreettae Luer 1985 Sezione Leiocaulium Luer 1988
Dscrizione originale in latino: “Planta parva, pedunculo laevi, floribus parvis, sepalo mediano ovato inferne concavo superne marginibus revolutis, sepalorum lateralium pulvinis parvis oblongis pubescentibus, petalis transverse obtusis margine superiore angulato, labello arcuato bilamellato, lamellis serratis”.

Specie di piccole dimensioni a portamento cespitoso, trovata come epifita in una catena montuosa nel sud-est dell’Ecuador a 1.400 metri di altitudine.
Luogo di scoperta: Prov. di Morona-Santiago: foresta nebbiosa di Cutucu,
alt. 1400 m, ottobre 1983.
Scopritori A. Antreetta & M. Portilla, fiorita in coltivazione 16 MARZO 1984.
Scaphosepalum andreettae è ben distinguibile dalla altre specie dello stesso genere per la sua piccola dimensione. Anche i fiori sono piccoli, mostrano il sepalo centrale membranoso, con margini revoluti, i piccoli cuscini pubescenti dei sepali e petali laterali, con apici ottusi trasversalmente.
Fiorisce in primavera formando infiorescenze racemose con sottili brattee tubolari ed i fiori appena sopra le foglie.

Scuticaria salesiana
foto 40 Scuticaria salesiana Dressler
Specie descritta da Robert Louis Dressler e dedicata alla congregazione dei salesiani, ordine a cui appartiene padre Angelo Andreetta, scopritore della pianta.
Specie endemica nel sud-est dell’Ecuador e del Perù in foreste montane molto bagnate ad altitudini da 600 a 1300 metri. Pianta epifita di grande dimensione da clima caldo.
Si sviluppa formando pseudobulbi molto brevi con un’unica foglia apicale, cilindrica e solcata. Alla base delle foglie degli pseudobulbi maturi, in estate si formano singole infiorescenze.

Sudamerlycaste andreettae
foto 41 Sudamerlycaste andreettae (Dodson) F.L. Archila 2002.
Sezione: Fulvescentes Oakley 2008.
Questa specie è inizialmente descritta con il nome di genere Lycaste dal Dr. Dodson (1982).
Nel 2002, Archila la trasferisce nel nuovo genere Sudamerlycaste, nome di genere attualmente accettato. Nel 2008, Oakley la include nel genere Ida, ma è considerato un sinonimo.
Sinonimi: Ida andreettae Oakley 2008.; Ida andreettae var. pallida Oakley 2008.; Lycaste andreettae Dodson 1982.
Specie endemica in Venezuela, Colombia, Ecuador e Perù, vive come terrestre sulle ripide scarpate stradali e sugli scogli a quote intorno al 1870 metri come pianta di grandi dimensioni. Ama climi freschi, si sviluppa formando pseudobulbi piriformi, increspati, con tre foglie plicate, ellittiche e fiorisce nel mese di aprile con l’inizio della nuova vegetazione, su infiorescenze erette e lunghe circa 20 cm.

Trisetella andreettae
foto 42 Trisetella andreettae Luer 1986.
Sezione: Trisetella.
Sottosezione: Calvicaulis Luer 1989.

Piccola specie epifita a sviluppo cespitoso, vive nel sud dell’Ecuador, nelle foreste pluviali lungo i ruscelli, ad un’altitudine di 1600 metri con fusti eretti avvolti da 2 a 3 guaine tubolari che portano una sola foglia apicale, coriacea, strettamente ellittica, subacuta con pigmentazioni color violaceo nella parte inferiore.
I fiori si formano su un esile stelo, eretto, lungo 30-40 mm. e si aprono in successione.

Note: foto gentilmente concesse da Ecuagenera, spunti tratti da varie fonti Internet e da un articolo apparso su ORCHID REVIEW Vol. 112 a cura di Steve Manning.
Un particolare ringraziamento all’amico Alberto Grossi per la sua collaborazione alla corretta stesura dei testi.

4.6.Franco Pupulin, una vita per le orchidee
foto 43 Franco Pupulin è nato ed ha trascorso gli anni della sua gioventù ad Arcisate, nei pressi di Varese. Il suo primo incontro con le orchidee è stato del tutto casuale, così come è capitato a tanti altri appasionati. Io ad esempio, sono “caduto nella trappola delle orchidee” donando una pianta di Cymbidium a mia moglie. Franco, ancora adolescente, per conquistare la sua fidanzata, pensò di regalarle un fiore. Acquistò una pianta di Phalaenopsis nel negozio annesso alle serre di Villa Cicogna. Franco rimase ammaliato da quella pianta, nella sua mente, già si statva insinuando quel “virus” che ti porta alla completa dipendenza dal loro fascino. Quella pianta non la regalò alla sua “morosetta”, diventò la prima della sua collezione di Phalaenopsis. Iniziò così quel lungo viaggio nel mondo e nello studio delle orchidee.
Finiti gli studi cominciò a frequentare i paesi del centro america e nel 1997 si trasferì in Costa Rica, paradiso delle orchidee dove ora è direttore del Centro di Ricerca sulle orchidee Andine “Angel Andreetta” in Ecuador, ricercatore associato del Mary Selby Botanical Garden in Florida e collaboratore dell’Università della Florida della Università di Harvard e dei Royal Botanic Garden Kew.
Molti sono i suoi studi sul riordino tassonomico delle orchidee del centro america, che lo hanno portato anche a scoprire nuove specie endemiche in quei luoghi. Non basterebbero le poche righe di un paragrafo per raccontare tutto il suo valore nel campo dell’orchidologia mondiale, mi limiterò a presentare una nuova orchidea batezzata con il suo nome.

foto 44 Trichocentrum pupulinianum Bogarín & Karremans 2013.
Il Costa Rica con tutta la sua biodiversità è sicuramente un territorio molto interessante da esplorare per biologi, ricercatori e botanici. Già nel 19° secolo il ricercatore Auguste R. Endres trascorse sette anni alla scoperta, ricerca e raccolta della flora endemica del Costa Rica, in particolare orchidee. Nei suoi viaggi attraverso i Caraibi, descrisse una specie di orchidee del genere Trichocentrum. Più tardi, altri ricercatori trovarono una specie simile nel Sud del Pacifico e le assegnarono lo stesso nome di quella scoperta da Endres. Errore. Non era lo stesso fiore, affermò Diego Bogarin, ricercatore dell’Orto Botanico Lankester, Università di Costa Rica.
Le specie “mascherata” è stata recentemente descritta e rinominata da Bogarin e dal suo compagno di squadra Adam Karremans come Trichocentrum pupulinianum. La nuova scoperta non è stata casuale, ma è il risultato di cinque anni di sforzi, durante i quali gli scienziati, tra i quali anche Franco Pupulin, prima effettuarono una analisi storica sulle ricerche di Endres e poi una valutazione morfologica delle specie situate nel sud del Pacifico. Endres, ad esempio, non ha mai esplorato la regione del Pacifico del Costa Rica.
Gli esperti hanno stabilito che “l’orchidea situata nella regione atlantica era diversa da quella del Pacifico”.
Pertanto è stato deciso di rinominarla: Trichocentrum pupulinianum in onore del botanico italiano Franco Pupulin, importante ricercatore al Lankester Botanical Garden e studioso del genere Trichocentrum.

4.7. Enzo Cantagalli, una grande figura del collezionismo orchidofilo italiano
Il Presidente Enzo Cantagalli, alla mostra di S. Daniele del Friuli 1994
foto 45
Enzo Cantagalli, vive a Pieris in Provincia di Gorizia.
La passione per le orchidee, si insinua nei suoi interessi hobbistici e culturali, alla fine di un percorso che lo vede come tanti altri, sensibile al meraviglioso mondo della natura e dei fiori in generale.
La sua formazione esprime l’influsso della tipica famiglia borghese, collocata nel contesto storico della prima metà del secolo scorso, in una parte dell’Italia molto provata dalle vicende socio politiche che hanno segnato profondamente pensieri ed azioni delle sue popolazioni.
Enzo Cantagalli, si laurea presto in chimica e questa sua preparazione professionale sarà forse la molla che lo porterà, più avanti, ad immergersi nel magico mondo delle orchidee.
La mia conoscenza con Enzo avvenne all’inizio degli anni ottanta quando, sprovveduto neofita alla ricerca di consigli, trovai il suo numero di telefono (allora non c’era internet), provvidenzialmente riportato in appendice del famoso libro di Rebecca Tyson Northen: LE ORCHIDEE.
Ricordo che a quei tempi, nel mio tentativo di organizzare i pochi appassionati che c’erano in zona, trovai totale disponibilità nel dr. Cantagalli, manifestata sin da subito con impareggiabile signorilità intellettuale. Ricordo il primo incontro e soprattutto le forti sensazioni che provai entrando nella la sua serra al cospetto della sua collezione di orchidee.
Enzo mi raccontò del suo impegno nel mondo amatoriale, mi parlò del lavoro associativo di un altro appassionato di orchidee, Mario Dalla Rosa, ex pilota Alitalia e Presidente dell’allora S.I.O. (Società Italiana Orchidee), ed insieme facemmo una carrellata di possibili coltivatori dilettanti da contattare. Praticamente, nacque l’embrione della prima Associazione orchidofila nel Triveneto.
Riuscimmo a mettere insieme il numero sufficiente di persone per poter costituire l’associazione. Una sera ci trovammo a Oderzo (Treviso) nello Studio Notarile del Dr. Helio Pierotti, emerito entomologo – sono un entomologo che per vivere fa il notaio – così amava presentarsi agli amici, e in quell’occasione, oltre alla stipula, ci fece anche una cortesia infinita: non ci chiese il conto.
Il Dr. Cantagalli, divenne il primo Presidente dell’associazione: era il 1987.
Con il passare degli anni, come in un film, si sono accavallarono varie vicende, ma le esperienze e gli insegnamenti maturati insieme, crearono una proficua scuola di pensiero, valida ancor oggi, dentro e fuori delle associazioni: la mutualità. In altre parole, lo scambio o la semplice donazione di proprie piante agli amici, e non da ultimo il proselitismo: divulgare, consigliare, mostrare e socializzare liberamente, con l’obbiettivo di alimentare un magico rapporto fra orchidofili e orchidee.
In buona sostanza, l’associazionismo, quale strumento propedeutico che elimenta la passione per le orchidee.
A volte può capitare di vedersi rompere quel rapporto magico, creato con loro, ed allora la magia si tinge di tristezza. Quando si inizia l’avventura con le orchidee, spesso ci si perde subito per strada, più raramente si crea una bella collezione, che cresce attorno a te e quasi ti avvolge, ma il suo mantenimento richiede sempre la tua presenza, il tuo amore e la tua passione. Le insidie sono enormi e le occasioni di sconforto ti assalgono quasi giornalmente. Molti sono gli aneddoti di fallimenti, di grandi collezioni finite e di sacrifici buttati al vento. La collezione di orchidee invecchia insieme al suo collezionista è la legge della vita.

4.7. Visita alla collezione di Enzo, l’ultima.
Quanti bei ricordi abbiamo vissuto insieme a Enzo Cantagalli in tanti anni di frequentazioni. Ricordi fatti di visite, di reciproci incontri conviviali, e soprattutto di gioviali momenti amichevoli. Enzo coltiva orchidee da una vita, la sua età ha superato la ottantina da un bel po di tempo. La sua collezione di orchidee è stata splendida per anni, e per molti di noi è stata la fonte dei nostri desideri, l’occasione per assaporare la magia e per attingere a piene mani, saggezza e consigli. Col passare degli anni, però, la sua sfida con le orchidee si è fatta sempre più difficile e da qualche tempo, forse, Enzo sta mollando.

foto 46 La foto a sinistra ci sorprende insieme, nel suo giardino solare.
Ho scelto un sabato pomeriggio soleggiato e caldo per far visita a Enzo Cantagalli. L’occasione è stata quella di portargli qualche sacco di bark per i rinvasi.
Enzo mi telefonò ancora in maggio per chiedermi del bark. Al telefono parlai anche con Maria, sua moglie, e fu lei a dirmi, in dialetto giuliano:
“Guido, adesso xe la Livia (sua figlia) che cura le orchidee, Enzo non vol più andar in serra”.
La frase mi sorprese, ma rimandai ogni considerazione alla visita, che di li a breve avrei sicuramente fatto a casa loro.
Per la verità passò del tempo prima che riuscissi a percorrere quei 100 chilometri e passa, che dividono le nostre residenze. Sabato finalmente mi misi in viaggio. Decisi di evitare l’autostrada, quasi a volermi godere la vecchia strada statale che porta a Trieste, bella, quando c’è poco traffico. Giunsi a Pieris verso le 17 e fui accolto da Enzo con un abbraccio caloroso. Ad attendermi c’era anche la moglie Maria e la figlia Livia. Seduti nella loggia che da sul giardino abbiamo conversato amabilmente, un po di “amarcord” e poi…le orchidee.
“Enzo, andemo in serra?” – Chiedo io – questa era la frase di rito che dava il la alla nostra “immersione nella sua serra” in occasione delle numerose visite, ma questa volta la sua risposta fu distaccata e per certi versi anche attesa:
“Guido, xe più de un mese che no vado in serra, no so cossa che me sucedi, ma con le orchidee no go più interesse, preferisco far qualche giereto in bicicletta dentro le grave dell’Isonzo”- rispose Enzo.
Maria, sua moglie, confermo:
“Sì, ora xe la Livia che la segue tutto, ma ela la lavora”- Livia intanto annuiva e i suoi occhi lasciavano trasparire un certo orgoglio misto a timore di non riuscire nell’impresa.
Si continuò a conversare e improvvisamente Enzo esclamò:
Ti vol che andemo in serra? – varda che xe na disperassion!” – Non me lo faccio ripetere due volte, e quasi a voler sdrammatizzare, rispondo:
“Dai che andemo, chissà che non trova qualche specie che me manca!”.

4.8. In serra
La serra un po stanca, mostrava qualche problema, ma complessivamente la trovai ancora in forma. I bancali delle Cattleye con evidenti segni di trattamenti contro la cocciniglia, quella maledetta cocciniglia che da anni faceva impazzire Enzo, bellissimi esemplari di tillandsia, una bellissima pianta di Oncidium flexuosum in fiore, ma ecco, la, lungo la parete, uno splendido esemplare di Bifrenaria inodora in fiore:
“Stupendo”! – esclamo:
“Ce ne sono due piante” – risponde Livia, quasi sorpresa.

L’abbiamo fotografata, ovviamente, eccola in giardino.

foto 47 Bellissimo esemplare, Enzo mi chiese più volte se io lo avevo. Ho questa specie nella mia collezione ed è proprio il frutto di una divisione donatami da lui qualche “visita” fa. Però ho riflettuto prima di rispondere affermativamente…lui avrebbe avuto il piacere di regalarmene una, ma ho pensato che quelle orchidee fiorite, dovevano rimanere nella sua serra, magari per tenerlo ancora vicino alle orchidee, ma forse Enzo stava già consegnando il testimone, con stile e discrezione, a sua figlia Livia. Era una calda giornata dell’Agosto 2008.
I presagi c’erano tutti, nella mente di Enzo si stava insinuando quella malattia subdola che mina gli anni dell’età matura.
Due anni dopo, eravamo nel mese di luglio del 2010, quando mi recai a far visita al carissimo amico Enzo. La sua mente è già entrata nella galleria buia che, seppur non a breve, porta alla fine. Non mi ha riconosciuto, ma un flebile impulso aleggiava comunque nell’aria.
Molti momenti intensi mi sono passati per la testa in quelle due ore trascorse in compagnia, insieme a sua moglie e sua figlia. I ricordi ci hanno portati alle sue passioni, le orchidee, la botanica, la musica, sì anche la musica e la grande raccolta di dischi al vinile, ascoltati molte volte in quel grande mobile in radica che chiamavamo “radio-giradischi”. Frank Sinatra… grande Frank!!
Sono ritornato a casa felice come le altre volte, quando ci si trovava nella sua serra piena di orchidee, si beveva un bicchiere e si parlava del nostro mondo. Ora è vuota quella serra. Però questa volta non sono tornato con qualche divisione delle sue orchidee, solo la sua raccolta di riviste: Orchids, Caesiana, Orchid digest, con l’impegno di conservarla, insieme ad un grosso nodo alla gola, lo stesso che mi divora mentre scrivo.
Dedico a lui My Way di Frank Sinatra, chissà che in quel mondo buio in cui si è ficcata la sua mente non riesca a far breccia la voce del grande Frank, chiusa in quel vinile acquistato tanti anni fa.

My Way
“Ed ora, vicina è la fine
ed io fronteggio l’ultimo sipario
amico mio, lo dirò chiaramente
chiarirò la mia situazione, per la quale non nutro alcun dubbio

Ho vissuto una vita piena
Ho percorso ciascuna e tutte le strade
e in più, molto di più
Lo feci a modo mio…”

Gongora galeata storie e racconti.

“Il fascino delle orchidee”.
Frase spesso abusata e sempre evocata per manifestare, lo stupore e l’attrazione, che provano coltivatori e studiosi di questa grande famiglia vegetale.
Per viverle – le sensazioni – bisogna che gli ingredienti ci siano tutti. Devi essere un coltivatore – diceva un mio amico – uno con le mani “sporche” di bark, devi anche essere sufficientemente curioso da cogliere l’importanza dell’approfondimento scientifico, e non da ultimo, devi conoscere la storia, le passioni, le invidie e tutte le follie che hanno intriso e che continuano a impregnare il loro mondo.
Ed ecco che, da una semplice foto di un esemplare di Gongora galeata, in fiore nella tua collezione, può prendere corpo il desiderio di “guardare” dentro alla sua storia, dimensione metafisica che le orchidee ti offrono con generosità e se hai voglia di catturare la fantasia, al posto di scrivere un paragrafo per uno scontato e freddo manuale sulla coltivazione delle orchidee, nascerà un bel racconto.

La storia
Da quando esplose la “febbre delle orchidee”, l’intrigante mondo dell’orchidofilia ha costantemente alimentato la fantasia di scrittori e di botanici, tante, a volte incredibili, ma sempre affascinanti sono le storie che hanno accompagnato la scoperta di nuove specie e la lotta per il loro possesso. Anche il genere Gongora ha la sua “brava” storia da raccontare.
Siamo nella seconda metà del 18° secolo, il panorama del potere coloniale in Europa vede in prima fila, Inghilterra, Francia e Spagna e le esplorazioni scientifiche nei loro possedimenti “oltremare” alimentano la competizione e diventano simbolo di prestigio fra le dinastie regnanti, imparentate, e spesso anche in guerra, fra loro.
Ed è così che il francese A.R.J. Turgot, primo ministro di Luigi XVI, nel 1775, decise di lanciare una spedizione scientifica nei territori spagnoli in Sud America (Perù e gran parte di ciò che sono ora Bolivia, Cile, Argentina ed Ecuador) per sostituire le collezioni di Joseph de Jussieu, ormai quasi tutte perdute. In quell’occasione De Jussieu consigliò Turgot di incaricare Joseph Dombey, medico e botanico, allievo di suo fratello Bernard, come capo provvisorio della spedizione.

Joseph Dombey (Mâcon, France, 20 February 1742 – Montserrat, West Indies, May 1794)
Fu consultata la Spagna. A quel tempo in quel paese regnava Carlo III, zio di Luigi XVI re di Francia. Forse per il fatto di essere legato da vincoli di sangue con la casa reale francese, il Re accettò, ma pose condizioni capestro: comando generale della spedizione alla Spagna e due rappresentanze scientifiche spagnole insieme a Dombey. Inoltre, tutto il materiale raccolto (tre campioni per specie) dovrà essere recapitato presso i giardini botanici di Madrid. Dombey avrebbe ricevuto un campione per ogni specie raccolta, solo in subordine, e cono l’impegno che i suoi disegni e le sue descrizioni botaniche sarebbero rimaste depositate presso i giardini botanici di Madrid.
Saranno Ruiz e Pavon, ad affiancare Dombey, due farmacisti senza alcuna esperienza botanica e Ruiz, seppur molto più giovane del medico francese, diventerà comandante della spedizione. La spedizione lasciò l’Europa nel mese di ottobre 1777 e sbarcò a Lima nel mese di aprile 1778. Giunti in Perù, apparvero subito evidenti alcuni problemi per Dombey: pagamento a proprie spese del suo equipaggiamento, e rifiuto di Ruiz e Pavon a fare disegni per lui. Non cominciò bene la spedizione. Nonostante i problemi, dopo qualche mese (marzo 1779), Dombey inviò in Europa la prima raccolta di esemplari e ne seguì una più consistente, ma la nave fu catturata dagli inglesi (all’epoca in guerra con la Francia e la Spagna) e tutto il materiale fu venduto all’asta a Lisbona. Paradossalmente, l’intera collezione messa all’asta, fu acquistata da commercianti spagnoli. Doveva durare 4 anni, la spedizione, ma il perdurare della guerra e altri impedimenti posticiparono il rientro in Europa a Dombbey, che giunse a Cadice il 12 febbraio del 1785 con parte della sua raccolta di piante.
La rimanenza, che doveva essere consegnata agli spagnoli, era rimasta a Lima per essere spedita in Spagna insieme a quanto raccolto da Ruiz e Pavon. Purtroppo la nave che trasportava questi materiali naufragò al largo del Portogallo con tutte le piante a bordo. Della spedizione in Perù, rimase solamente il materiale che Dombey recapito ai giardini botanici di Madrid, e per altro nella disponibilità degli spagnoli. Pur di portare in Francia il frutto della sua spedizione, Dombey si impegnò a non pubblicare nulla del suo lavoro, prima del ritorno di Ruiz e Pavon dal Perù; un pretesto degli spagnoli che consentì loro di copiare tutte le sue note e le sue descrizioni. Dombey fece ritorno nella sua Parigi, il 13 ottobre 1785 con un misero “bottino”, solamente un terzo di quanto raccolto in Perù.

All’evidenza, fra Dombley e gli spagnoli non ci deve essere stato buon spirito di collaborazione, forse più semplicemente, sul versante francese c’era meno disponibilità economica. Ed è per questo che nel 1785, per Dombley l’avventura era già finita, mentre Ruiz e Pavon erano ancora in Perù a raccogliere essenze arboree nei paragi di Huanuco, ma la sfortuna colpì ancora: un incendio al campo base mandò in fumo il frutto di mesi di raccolta, nonché i diari e quasi tutte le descrizioni delle piante. Ruiz e Pavon tornarono in Spagna a mani vuote, nella primavera del 1788.
Le prime pubblicazioni sulla spedizione, uscirono dopo 5 anni dal loro rientro in Spagna, e si basarono esclusivamente sui materiali, sulle descrizioni e sulle note di Dombley, rimasti nella disponibiltà degli spagnoli, ma poco credito fu dato a lui, solamente una fugace menzione nella prefazione.

Il Genere Gongora
Ed è così che viene costituito il nuovo genere Gongora, fra dimenticanze e qualche confusione, nel Prodromus del 1794 con un disegno dei fiori di G. quinquenervis (t. 25), ma senza alcuna descrizione di queste parti.

Questo genere è stato nominato in onore di Don Antonio Caballero y Gongora, viceré di Nuova Granada (ora Colombia ed Ecuador) e successivamente Vescovo di Cordoba, governatore del Perù durante le spedizioni di Ruiz & Pavón.
Il genere Gongora comprende oltre 60 specie ed appartiene alla sottotribù Stanhopeinae Bentham (secondo la classificazione di Dressler) o Gongorinae (secondo il sistema di Schlechter), insieme a circa 20 altri generi strettamente correlati, come Coryanthes Hooker, Stanhopea Frost ex Hooker, Sievekingia Reichb. f. e Cirrhaea Lindley.
Rod Rice (2002) ritiene che il genere, sia composto addiritura da circa 65-70 specie note, e alcune ancora da identificare. La distribuzione del genere Gongora è limitata alla fascia Neotropicale (Centro e Sud America). Due specie (Gongora atropurpurea e Gongora maculata) si trovano su Trinidad (che è floristicamente simile al Sud America). In nessuna delle altre isole caraibiche è presente il genere Gongora. La distribuzione in Sud America è su entrambi i lati delle Ande, dalla Colombia verso l’Ecuador, e sulle pendici orientali dell’estremo sud del Perù e della Bolivia. Poche specie sono presenti in Venezuela, Guyanas e Brasile.
La specie tipo è Gongora quinquenervis, descritta da Hipólito Ruiz Lopez & J.A. Pavón (1794) in “Prodromus Florae Peruvianae et Chilensis”.

Gongora Galeata
Sono trascorsi ormai più 30 anni, quando nel 1830, nelle serre di Conrad Loddiges (Inghilterra), fiorisce un’orchidea proveniente dal Messico, nel 1831 John Lindley la descrive come Maxillaria Galeata, ma nel 1833 Lindley stesso, crea il nuovo genere Acropera e vi risistema la sua Maxillaria Galeata, rinominandola in onore di Loddiges come Acropera loddigesii. Il travaglio tassonomico di questa specie non è ancora terminato, nel 1858, Reichenbach figlio include nel genere Gongora, anche le specie del genere Acropera e la nostra “povera” orchidea messicana fiorita nella collezione Loddiges assume il nuovo nome Gongora Galeata (Lindl.) Reichb.f. “Acropera” sarà mantenuto come un sottogenere di Gongora, che comprende sei specie, tutte originarie dell’America centrale. Di questo sottogenere, G. Galeata è la specie tipo.

Le api euglossine
Si è scritto in altri post, che tutte le orchidee appartenenti al gruppo delle Gongorinae sono note per il loro fiori insoliti e persino bizzarri, dotati di ghiandole “osmophore” che producono composti volatili aromatici, che sono raccolti dai maschi euglossini (imenotteri, Apidae).

Gongora galeata (Lindl.) Rchb.f. (1854)-SEZIONE Acropera
Basionimo:
Maxillaria galeata Lindl. (1831)
Sinonimi:
Acropera loddigesii Lindl. (1833)
Acropera luteola Drapiez (1840)
Acropera atropurpurea Heynh. (1846)
Acropera fuscata Heynh. (1846)
Acropera luteola Heynh. (1846)
Acropera pallida Heynh. (1846)
Acropera purpurea Heynh. (1846)
Acropera sulphurea Heynh. (1846)
Acropera flavida Klotzsch (1851)
Acropera citrina Rchb.f. (1854)
Gongora galeata var. loddigesii (Lindl.) Autran & T. Durand (1896)
Gongora fuscata (Heynh.) Gentil (1907)

Botanici e tassonomi si sono sprecati per trovare un nome a questa orchidea, non solo per le loro solite diatribe, forse anche per la grande varietà della tonalità dei loro fiori, che va dalla forma alba al giallo scuro quasi porpora.
La foto a sinistra mostra la varietà a fiori gialli, spesso confusa con altre specie, ad esempio Gongora cassidea.

Gongora galeata è una specie epifita originaria del Messico, raramente litofita o terrestre. Vive a quote alte (600 – 1800) sui pendii delle foreste piovose e nebbiose. Gradisce temperature intermedie e luce soffusa in ambiente ventilato. Stante la sua propensione al geotropismo negativo è utile coltivare questa specie in cestini di legno, oppure ancorarla ad un ceppo legnoso con un letto di sfagno fra le sue radici.
Garantire un periodo semi-secco durante la stagione invernale.
Questa orchidea, generosa e poco esigente, fiorisce in tarda estate ed i suoi fiori emanano fragranza simile ai fiori d’arancio.

Serra “ORCHIDEA” a regime… inizio trasloco piante!

Finalmente a regime!
Oggi 12 Agosto 2013, comincia a pulsare di “energia propria” il prototipo della nuova serra amatoriale “ORCHIDEA”, pensata “chiavi in mano”, per coltivare orchidee ed altre piante esotiche. Quel sogno, nato la scorsa primavera nel “buen retiro” di Orchids Club Italia, in occasione della mostra di Ortogiardino a Pordenone è diventato realtà.
Durante i giorni della mostra, ammaliati dalle orchidee, dai tarallucci e dalle abbondanti bollicine dei fruit di prosecco, si discuteva su come dovrebbe essere la casa ideale per coltivare orchidee esotiche.
Luca Bedin, titolare di SerreGiardini presente in fiera con il suo stand, fine osservatore ma sempre parco di parole, forse cogliendo il filo dei discorsi, esordì:
” Guido, vuoi che proviamo a costruire una serra per coltivare orchidee?”
Il resto è storia attuale. E’ nata la collaborazione con SerreGiardini ed ora cominciamo a veder maturare i primi frutti.
Si dirà, ma dov’è la notizia, di serre amatoriali ce ne sono di tutte le misure, qualità e prezzi.
Sì è vero, ma nell’attuale mercatro si trovano tutte scatole vuote da “attrezzare” a posteriori, con oneri ed imprevisti, a volte insuperabili. La notizia è semplice e disarmante: serra automatizzata, studiata, testata e già attrezzata per ospitare orchidee esotiche “chiavi in mano”, ovvero quello che prima non c’era.

Ecco, amiche ed amici orchidofili, vi mostro qualche “pillola” in anteprima del lavoro, frutto delle mie esperienze di vita in simbiosi con le orchidee. Per farle vivere bene ho sperimentato varie soluzioni, che potrete trovare applicate alla dinamica di questo prototipo di serra amatoriale.
In questa serra si troveranno bene le orchidee, ma anche le altre piante, endemiche insieme a loro.
Sono molto soddisfatto del lavoro fatto, devo dire la verità. Con un pizzico di vanità mi piacerebbe immaginarla come la mia “opera matura”, da mettere a disposizione di quanti intendono e intenderanno avventurarsi nella coltivazione delle orchidee esotiche.
Tutto questo, ha preso forma grazie alla lungimiranza di Luca Bedin, titolare di SerreGiardini, senza la sua disponibilità il sogno sarebbe rimasto tale.
Il mio impegno si concluderà con la stesura di un libro “racconto”, nel quale cercherò di fermare nella scrittura, tutte le fasi che hanno accompagnato questo sogno.
Poi, rientrerò nelle mie utopie, lasciando il testimone a chi saprà tradurre in “business”, questa “creatura”.

Come si può vedere nella foto a sinistra, la serra non presenta aperture laterali, né sul tetto. Questo per poter gestire il clima interno con padronanza e precisione. Si sa che il raffrescamento ottenuto dalle aperture, provoca shock ed inoportuni picchi di secco, elementi estremamente dannosi alle orchidee.
Bene, allora accomodatevi, entrate con me nella nuova serra “ORCHIDEA”, che comincia ad ospitare le prime “cavie” in fase di trasloco dalla loro vecchia dimora.
Come si vede nelle foto, l’ambiente è ancora spoglio, ma già si comincia a respirare la giusta atmosfera.
Sullo sfondo si notano i pannelli “cooling”, indispensabili per mantenere la temperatura interna entro i parametri ideali.
La vista d’insieme mostra la particolare struttura dei bancali, a gradini di rete metallica per consentire un buon drenaggio e un ottima distribuzione della luce; essi sono inoltre dotati di una griglia verticale per ospitare tutte le specie coltivate su zattere. In lontananza si vede il quadro di comando, vero cuore della serra, che alimenta e pilota tutta la gestione degli automatismi.
Di massima importanza è il mantenimento costante dell’umidità, che nella serra “ORCHIDEA” è garantito da un efficiente sistema “fog” pilotato da un umidostato di precisione.

Il collaudo
La nuova serra è stata sottoposta ad un collaudo a “volumi vuoti”, cioè senza piante, e quindi in condizioni di strema criticità. Durante le prove sono stati implementati alcuni accorgimenti tecnici, fino al raggiungimento degli standard prefissati. Ora la serra “ORCHIDEA”, gira come un orologio svizzero, temperatura e umidità si mantengono con poco dispendio di energia.
Nel giro di un mese, la serra “ORCHIDEA”sarà piena di piante, aspetteremo una quindicina di giorni per il loro acclimatamento e poi sarà tempo per la sua presentazione ufficiale.