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Categoria madre del blog: giorno per giorno con le orchidee, diario di un appassionato.

Polystachya pubescens

Polystachya pubescens è originaria del Sud Africa. Questa specie vegeta bene nelle fosse di arenaria, sia nelle depressioni poco profonde dove si raccolgono i resti di foglie e terra decomposte, ma anche sugli alberi dove possono essere completamente esposte al sole.

 Polystachya pubescens chiamata anche Polystachya dai capelli fini, Dendrorchis pubescens, Epiphora pubescens, Lissochilus sylvaticus, Polystachya lindleyana, è una specie descritta da Heinrich Gustav Reichenbach nel 1863.

IDENTIFICARE LA POLISTACHIA PUBESCENS

 Specie endemica nelle coste vicino a Port Elizabeth, nella provincia orientale di Cape, fino a Durban nel Natal, nel nord. Inoltre, si trova anche nelle foreste dell’entroterra, ad altitudini di 900 m, dallo Swaziland a Louis Trichard nel Transvaal settentrionale.

 Si tratta di una specie epifita o talvolta litofita di piccole dimensioni, a crescita da fredda a fredda, che raggiunge un’altezza di 10-16 cm, con pseudobulbi raggruppati, strettamente conico-piriformi, alti 2-6 cm e larghi 1,0-1,5 cm, portanti da 2 a 3 Foglie apicali, ligulate, inegualmente bilobate apicalmente, lunghe 5-10 cm e larghe 1,0-2,3 cm, articolate alle guaine fogliari basali.

 Polystachya dai capelli fini fiorisce su un’infiorescenza eretta, apicale, lunga 24 cm, racemosa, pubescente, con 7-12 fiori, che è più lunga delle foglie, che sorge su uno pseudobulbo maturo, con fiori che si aprono. I fiori si aprono gradualmente nell’arco di diversi mesi, ma di solito sull’infiorescenza ci sono fiori aperti contemporaneamente. I fiori hanno un diametro di circa 2 cm e sono così invertiti che il petalo dorsale è rivolto verso il basso. Sono di colore giallo dorato brillante e il labello e la metà inferiore dei petali esterni presentano strisce rosse o rosso-marroni contrastanti.

 Coltivazione

 La temperatura media del giorno estivo è di 25-26°C, della notte 18-19°C, che dà una differenza giornaliera di 7°C. La temperatura media del giorno invernale è di 21°C, della notte 9-11°C , dando una differenza giornaliera di 10-11 ° C.

Umidità:

 La Polystachya a pelo fine necessita di un’umidità del 70-75% per gran parte dell’anno, che scende quasi al 65% per 2-3 mesi invernali.

Substrato:

Polystachya pubescens viene solitamente coltivata in piccoli vasi o cestini pieni di terriccio sciolto, che si asciuga rapidamente e che trattiene una certa umidità dopo l’irrigazione. Molti coltivatori utilizzano con successo miscele a base di corteccia. Queste piante possono anche essere coltivate saldamente attaccate alle zattere di felci arboree. Se le piante sono su zattere o cestini, è necessario garantire un’elevata umidità e in estate annaffiare almeno una volta al giorno. In caso di clima eccezionalmente caldo e secco, potrebbe essere necessario annaffiare più volte al giorno. Il rinvaso, il montaggio o la divisione dovrebbero essere effettuati quando le nuove radici iniziano a crescere.

Fertilizzante:

 Si consiglia di applicare settimanalmente una dose di 1/4-1/2 di fertilizzante per orchidee. equilibrato o ad alto contenuto di azoto dalla primavera a metà estate e poi un fertilizzante ad alto contenuto di fosforo fino all’autunno.

Periodo di riposo:

 In inverno, la quantità di acqua per la Polystachya pubescens dovrebbe essere ridotta e consentire loro di asciugarsi leggermente tra un’annaffiatura e l’altra. Tuttavia, non possono rimanere senza acqua per un periodo più lungo. L’occasionale nebulizzazione mattutina tra un’annaffiatura e l’altra dovrebbe proteggere le piante dall’eccessiva disidratazione.

Sperando nella pace, ricordi giovanili.

Eravamo sul finire degli anni 60 e per noi giovani, l’appellativo 2001 simboleggiava il nostro futuro, radioso e lontano nel tempo. Era il tempo dei Beatles, Rolling Stone, e Bob Dylan cantava Blowin in the Wind, la generazione nata dopo la seconda guerra mondiale cercava di uscire dal torpore della politica dominante, vitalità che si materializzava attraverso varie forme di partecipazione sociale e culturale. Era il periodo del fermento e della utopia, in Italia e nel mondo. Era il tempo delle guerre americane nel sud est asiatico: Corea, Vietnam, ed altri focolai minori. Il mondo era fatto a blocchi, quello americano dalla nostra parte e quello sovietico a ricordarci l’eredità della seconda guerra mondiale.

Blowin in the wind – Bob Dylan

…” quante strade deve percorrere un uomo
prima che si possa chiamare uomo?
e quante spiagge deve vedere una colomba bianca
prima di potersi riposare nella sabbia
e quante volte devono volare le palle di cannone
prima che vengano cancellate?
la risposta, amico mio, sta soffiando nel vento…
la risposta sta soffiando nel vento”…

vietnam_01

Vietnam anno zero – Olio su tela 80×70 – Autore Guido De Vidi.

L’impegno sociale
Il circolo Giovani 2001 fu una fucina di idee, di cenacoli artistici, e di impegno sociale. I temi ed i problemi sociali di quel periodo storico, trovavano anche spazio nelle rappresntazioni dell’arte figurativa.
La foto sopra, ferma il dramma di quel periodo (la guerra in Vietnam), magistralmente impressionata in un quadro ad olio.
Il set della politica mondiale a quel tempo era catalizzato dalla disastrosa avventura della guerra americana in Vietnam e di lì a poco in Italia, si sarebbero materializzati anche gli anni del terrorismo nero e rosso.
Il mio piccolo paese, amministrato da sempre dalla DC, assisteva indenne al nostro “purtroppo” vano impegno giovanile per il cambiamento della politica. Trovammo comunque asilo nello spazio metafisico dell’arte e della cultura ed è così che iniziò quella virtuosa e prolifica pagina della nostra gioventù, che fra l’altro ci mise anche al riparo dalla ondata utopica che portò molte vite all’autodistruzione.

Pabstiella bradei (Schltr.) Luer

Pubblicata per la prima volta in Monogr. Sist. Bot. Bot del Missouri. Gard. 112:119 (2007)

L’areale nativo di questa specie è il Brasile (da San Paolo al Paraná). È un’epifita e cresce principalmente nel bioma tropicale umido.

Sinonimi omotipici

  • Pleurothallis bradei Schltr. in Anexos Mem. Ist. Butantan, Sez. Bot. 1(4): 41 (1922)
  • Trichosalpinx bradei (Schltr.) Luer in Phytologia 54: 394 (1983)
  • Il genere Pabstiella Brieger & Senghas comprende circa un centinaio, di specie per lo più sudamericane, la maggior parte limitata alle foreste atlantiche di Brasile sud-orientale.

Pero, le radici

Prologo.

Il paese di Pero è, o meglio la sua storia è stata e forse lo è ancora legata a quel piccolo rio che lo attraversa da nord a sud, e che erroneamentte porta due nomi: Rio Parnasso e Rio Pero. Chissà se è il corso d’acqua aver dato il nome alla località dove nasce, oppure l’opposto, lo scopriremo insieme. La curiosità e il desiderio di conoscere le origini dei luoghi nei quali abito e vivo, mi ha condotto a cercare prove e documenti. La prima traccia del nome del corso d’acqua in questione si rileva studiando la mappa del catasto della Repubblica veneziana che evidenzia la parte nord dove nasce il corso d’acqua, mappa riconducibile ai primi anni del diciottesimo secolo, nella quale si può notare il percorso tortuoso (per altro ancora tale) del corso d’acqua in questione, con il nome “Per”. La parlata dialettale di Pero, ancor oggi, per indicare quel corso d’acqua fa uso dell’epiteto (el Per)

Mappa veneziana: si può scorgere il tracciato del corso d’acqua fino alle risogive denominato Per.
Le risorgive del Per: confronta con la mappa della foto sopra.
Mappa veneziana (1700) di Pero.
Mappa austriaca di Pero (secolo dicianovesimo).

Le origini: Le foto che seguiranno mostrano, purtroppo, l’ultimo pezzo di storia che ci porta alle origini dei primi insediamenti abitativi di Pero. Si tratta della Chiesetta di S. Giovanni situata lungo le sponde del fiume Musestre, in quella parte del territorio, allora noto come “Pero di sopra”. L’accesso alla millenaria chiesetta di San Giovanni è attualmente impedito da una miriade di ostacoli, nonostante l’esistenza di una servitù di passaggio che ha consentito, da sempre, alle popolazioni locali di potersi recare in visita a quello che non esito definire, il simbolo per antonomasia delle origini di Pero. Così si legge in una nota giornalistica del mese di luglio 2012:…”Per porre fine a tale disagio, a Pero si sta costituendo un Comitato che si propone di ripristinare la servitù di passaggio così come previsto in un accordo tra parrocchia e immobiliare proprietaria del sedime della fabbrica”… Dov’è questo comitato e soprattutto cosa ha prodotto?

Storia: un po’ osservando le mappe storiche del territorio, ma anche mettendo insieme la memoria dei racconti delle generazioni andate e non di meno osservando quel che rimane (poco, molto poco) dell’impianto edificato, si può sicuramente configurare quella che poteva essere la vita nel nostro territorio attorno al 1000. E’ sicuro che i primi insediamenti abitativi delle nostre zone, presero consistenza con l’arrivo di qualche avamposto dei monaci benedettini già presenti sin dalla metà del X secolo nell’Abazia di Monastier . “Ora et labora” era il loro motto e con questo spirito iniziarono a dissodare vaste zone boschive, lacustri ed insalubri, per poter trarne frutto. I monaci benedettini, sotto la direzione dell’abate (dal greco “abbas”=padre) oltre alle pratiche spirituali si dedicavano al lavoro dei campi per il proprio sostentamento. Si deve proprio alla secolare opera di bonifica dei monaci se le terre circostanti, prima incolte e insalubri, (il luogo era “lacustre e boscoso”) attirarono col tempo lo stanziamento dei villici…”Nel Veneto, già prima dell’anno Mille, erano sorti diversi monasteri benedettini. Fino al Mille una vasta parte del Basso Piave era palude e fitta boscaglia, e i monaci benedettini, oltre che alla preghiera (“Ora…”), si dedicavano al disboscamento dei terreni, alla coltivazione delle terre abbandonate, pulivano i fiumi e ne consolidavano gli argini, aprivano solchi d’acqua nelle zone paludose dove regnava la malaria, riassettavano le strade (“… et labora”); non ultimo, provvedevano a diffondere il cristianesimo contribuendo alla conversione dei barbari. Man mano che si disboscavano le terre e si tiravano a coltura, e le popolazioni, per lo più nomadi, diventavano residenti, venivano loro consegnati poderi da coltivare, con l’unico impegno di riconoscerne l’originaria proprietà portando la quarantesima parte dei raccolti al monastero.

Chiesetta di San Giovanni.

Per ogni gruppo di case i monaci provvedevano alla costruzione di una piccola chiesa o di un oratorio dove la gente poteva soddisfare al precetto festivo, con annesso anche un modesto beneficio, cioè una piccola rendita per il mantenimento del sacerdote e per le spese del culto; oppure giungevano i benedettini stessi a celebrare la messa e poi rientravano in comunità.”… Una di queste chiesette fu costruita in prossimità del fiume Musestre e dedicata a S. Giovanni Battista, dove sicuramente si battezzavano le genti dei luoghi. Siamo nel X o XI secolo. Da questi riferimenbti storici si evince chiaramente anche l’origine del nome del paese di Pero. Non dalla credenza popolana del grande albero di Pere attorno il quale si riunivano i “saggi del luogo”, non dal greco Piros = Fuoco derivante dai falò utili al disboscamento, ma più semplicemente Pyro, dal nome antico del Fiume Meolo. Ecco che tutto comincia a prendere forma: Abazia benedettina a Monastier, posta lungo il fiume (Pyro) ora Meolo, insediamento che funge da baricentro di nuovi insediamenti monacali con la formazione dei primi nuclei abitati dei terreni nei dintorni del monastero.Per ogni gruppo di case (agli inizi semplici tuguri con i tetti ricoperti con canne lacustri), i monaci provvedevano alla costruzione di una piccola chiesa o di un oratorio. La zona geografica di Pero, sia per la sua facilità ad essere raggiunta per via fluviale (attraverso il fiume Musestre, il fiume Meolo e per finire il fiume Vallio, è stata sicuramente la prima ad essere raggiunta dai monaci benedettini (le decanie) a ovvero a gruppi di dieci. Ancora oggi, seppur totalmente sconvolta da ristrutturazioni scellerate, è immaginabile la via che dal fiume Musestre, dove sorge la Chiesetta di S. Giovanni, conduce a tre insediamenti di allora (case ex Baccini, in Via Silvio Pellico, casa ex Scotta in via cal del Brolo e Case ex Della Libera, per portarci verso Monastier, dove, sempre via fluviale (Vallio) si può giungere all’Abbazia di Monastier. Le case di cui si parla sono state rifatte ex novo e della conformazione storica rimane ben poco, ma nella mente di qualche paesano e magari in qualche vecchia foto, rimane certamente qualche testimonianza. La chiesetta di S. Giovanni (come si potrà vedere nel sevizio fotografico che propongo) è edificata su di una altura, quasi a significare un acropoli dove gli abitanti si radunavano per le funzioni religiose (battesimi, messe ed altre) e per i commerci. Con tutta questa storia, dovremmo tenere in massima considerazione questi luoghi, a testimonianza delle nostre radici, per il piacere del sapere ed anche per il godimento di momenti di spiritualità religiosa o più semplicemente ameni, ed invece NO!

Ho provato a raggiungere la Chiesetta, ma per arrivarci ho dovuto attraversare (quasi abusivamente) capezzagne private, guadare corsi d’acqua, e impantanarmi su improbabili stradoni. All’arrivo mi son trovato circondato dal degrado di insediamenti industriali (eufemismo) edificati a pochi metri dalla Chiesetta; una totale sensazione di tristezza ha pervaso la mia coscienza.

Il degrado industriale e pochi metri dalla chiesetta

All’improvviso nella mia mente si è riavvolto il film dei tempi della mia gioventù, quando in occasione della festa di S. Giovanni Battista (24 Giugno), tutto il paese di Pero migrava in questi luoghi senza problemi. Per documentare quello che ho visto non servono altre parole, spero che il reportage fotografico che propongo, serva a trovare qualche soluzione, lo spero vivamente.

Il capitello di Pero.

Nel mese di luglio del 2015 scrivevo sul blog: “Quel vecchio capitello di Pero sta crollando. Le poche testimonianze storiche e culturali ancora presenti (seppur ingabbiate da ingiustificabili edifici privati) sta crollando sotto l’incuria ed il peso del tempo. Questo è il capitello (o quel che ne rimane), che un tempo segnava l’incrocio ora chiamato Piazza Cesare Battisti a Pero.

Il capitello in rovina

E’ una strana storia quella che vede questa edificazione votiva, probabilmente eretta dopo il mille dai frati benedettini, dimenticata da Dio e dalla gente di Pero. Non sta a me vedere il problema sotto l’aspetto fideistico, io sono laico, o meglio “credente agnostico”, quello che mi angoscia e mi rende triste è verificare come siamo cambiati in peggio. In quei luoghi, ora abbandonati e vuoti, non più di 60 anni fa, pulsava il paese vivo, fatto di momenti di vita semplice e condivisa. Il capitello era posto al limite della riva destra della strada che giungeva da Breda, il Rio Parnasso passava a sud lambendo il caseggiato che fungeva da osteria e drogheria. Il corso d’acqua, allora costeggiava la riva sinistra di un’nica via di comunicazione, che attraversava l’abitato composto da qualche casa con tetto di canne palustri e tre più strutturate, resiudi della presenza benedettina, più qualche casa padronale pur sempre di fattura minimale, e conduceva alla Chiesa di S. Giovanni, ubicata ad ovest del paese: Pero di sopra lo chiamavano allora, per distiguerlo da Pero di sotto, più basso e paludoso. Ed è proprio per bonificare la parte centrale del paese attraversata dal Rio Parnasso, carica di paludi e risogive, che sul finire del dicianovesimo secolo, il suo corso fu portato più a sud (più in alto) dando così forma all’attuale via Silvio Pellico, allora denominata Via levada (elevata, per l’appunto). Il mio ricordo più intenso va al 1950, quando in occasione dell’anno santo la Madonna Pellegrina, giunse nel suo pellegrinare anche a Pero, i giovani del paese, (ai miei occhi di bambino di 6 anni), forti e coraggiosi, salirono fino in cima a due platani secolari altissimi, posti ai lati del capitello, per collocare due stelle illuminate da lampadine elettriche, aventi lo scopo simbolico di indicare la via alla processione della Madonna. Poca cosa, si dirà, ma se lasciamo andare anche quel poco che rimane, si estingue tutto di noi. Spero che le istituzioni locali mi leggano, non fosse altro per evitare che questo mio grido di dolore venga spazzato via dal vento dell’oblio.

Il capitello ingabbiato

Il miracolo. Le istituzioni locali non diedero segni di vita e quel capitello sembrava destinato a sparire, ma avenne un miracolo. Nel 2019 la proprietà dell’intero immobile, già osteria, ristorante e ipermercato, cambiò di mano. Il nuovo propietario conosceva a fondo la storia di quei luoghi. La conoscva per essere nato a pochi metri e per aver vissuto la sua infanzia tra quelle mura e quelle strade. Si percepiva che quella testimonianza del nostro comune passato, non sarebbe andata distrutta e fu salvata. Il capitello violentato e nascosto per anni fra le macerie di magazzini vari, fu riportato all’antico splendore dei tempi andati.

Il capitello restaurato

Furono rimessi a dimora perfino i due platani che tanti ricordi facevano rimbalzare nelle nostre menti. Sì nelle nostre menti perchè ci sono storie di comune infanzia fra me e Baccini Gisulfo (Nino o Nineto per gli amici d’infanzia), il nuovo propietario che volle il restauro ed il recupero di questa significativa testimonianza del nostro passato. Ora Nineto non è più fra noi, il destino se l’è portato via sul finire del 2019. Ebbe appena il tempo di sedersi su una delle due panchine, per pensare, chissà, forse per godersi momenti di vita andata, o semplicemente per riposare. Grazie Nino.