Questo splendido ibrido oro rosa-albicocca, creato da Tan Hoon Siang, collezionista amatoriale di Singapore, prende il nome Vanda Tan Chay Yan in onore di suo padre: Tan Chay Yan. Tan Chay Yan (Dic. 1871, Malacca – 6 Mar. 1916, Malacca), primo coltivatore di gomma in Malesia, comunemente noto come Chay Tan Yan e conosciuto anche come Chen Quixian, era nipote dell’uomo d’affari e filantropo Tan Tock Seng, originario della provincia cinese del Fujian: in suo ricordo porta il suo nome anche l’ospedale di Singapore “Tan Tock Seng Hospital “
La storia: Robert Tan Hoon Siang feconda un fiore di Vanda dearei con il polline di Vanda Josephine van Brero (ibrido tetraploide) nel 1948. La capsula fecondata viene seminata e coltivata al Singapore Botanic Garden nel 1949. La semina porta il codice ‘SBG 770’, e la prima pianta fiorita viene nel 1952. La prima apparizione in pubblico di una pianta fiorita proveniente dal lotto ‘SBG 770′ avviene il 25 Maggio 1954. E’ in questa data che la Signora Garcia Lewis espone questo ibrido al Chelsea Flower Show in Inghilterra. Il successo è immediato in tutti gli ambienti del mondo orchidofilo di allora e quel cultivar, nominato Vanda Tan Chay Yan ‘Pride of Malaya’ FCC/RHS 1954 si aggiudica l’ambita certificazione First Class dalla Royal Horticultural Society, soprattutto per il fatto che l’ibrido è stato creato da un coltivatore amatoriale di orchidee. Qualche anno dopo, Vanda Tan Chay Yan, esposta da Mdm. Ong Siew Hong, vince anche un trofeo per la migliore Vanda esposta al 2° World Orchid Conference, (Hawaii 1957).
Dubbi e riserve Il Professor Eric Holttum, famoso orchidologo del Singapore Botanic Garden, esprime i suoi dubbi sulla progenia di Vanda Tan Chay Yan. A supporto delle sue tesi, evidenzia che Vanda dearei produce infiorescenze esili e corte, con al massimo 4-5 fiori mentre Vanda Tan Chay Yan ha infiorescenze erette, robuste e lunghe, con 8-10 fiori. Vanda Josephine van Brero, il genitore polline tetraploide, contribuisce per i due terzi alla genetica di Vanda Tan Chay Yan, e poiché questo genitore produce lo stesso numero di fiori di Vanda dearei, risulta inspiegabile la rigogliosa e numericamente abbondante fioritura dell’ibrido discendente: Vanda Tan Chay Yan. Ad ogni buon conto, uesto nuovo ibrido, ampiamente coltivato nei vivai di Singapore nel corso del decennio successivo “1960-’70”, è stato anche candidato a diventare il fiore nazionale di Singapore. Alla fine questo onore è andato ad un ibrido più antico: Vanda Miss Joaquim (registrato nel 1893).
Vanda Josephine van Brero Questa orchidea è un ibrido semi-terete amphidiploid (4n), portato a fioritura dalla sig.ra J. van Brero di Tjipaganti, Bandung, Java (Indie Orientali Olandesi oggi Indonesia) nel 1936. Questo ibrido ha come genitori, Vanda insignis (Isole Molucche) fecondata con il polline di Papilionanthe teres (Myanmar). La germinazione è avvenuta per puro caso – non essendo allora conosciuta la semina asimbiotica – questo ibrido meraviglioso è germinato e cresciuto dai semi gettati sulle radici dei genitori seme. Questo ibrido di Vanda dalle foglie semi-terete ha dimostrato di essere un vero e proprio campione per i futuri incroci, influenzati per la forma, la consistenza ed il colore rosso- albicocca nella loro progenie.
Polemiche e dubbi Come capita spesso, quando si tratta di vecchie storie di orchidee, anche questa porta con se, discussioni e misteri, che parlano di baccelli mescolati, di parentela confusa e di registrazione difettosa. Un vecchio coltivatore di orchidee del posto, usa raccontare che Tan Hoon Siang produsse i suoi nuovi incroci utilizzando, sia V. sanderiana che V. dearei (come genitori seme) con V. Josephine van Brero (come genitore polline). Ad oggi il mistero rimane ancora insoluto. Pare che – anche se la parentela ufficiale registra l’utilizzo della V. dearei per la semina – sia stato invece usato il genitore seme (V. sanderiana). Fin dall’inizio, orchidologi illustri quali il professor Eric Holttum (già Direttore del Giardino Botanico di Singapore), hanno messo in dubbio la genealogia del nuovo ibrido di Tan, identificabile con i numeri di codice ‘SBG770’. Holttum non poteva credere che V. dearei x V. Josephine van Brero potesse produrre un ibrido con fiori rotondi, piatti, fiori con bellissimo colore giallo-albicocca su uno spuntone multi-fiorito. Sia V. dearei che V. Josephine van Brero tendono a produrre fiori con petali ricurvi. Successivamente, un altro coltivatore professionista – T.M.A Orchidee – con le sue ibridazioni ottenne risultati molto simili a Tan Hoon Siang, ma in questo caso, usando V. sanderiana come genitore al posto di V. dearei. Questo nuovo incrocio ha prodotto fiori più grandi e di durata più lunga. Il nuovo ibrido è stato nominato ‘Vanda TMA’… successivamente raffigurato anche in una vecchia banconota di Singapore da 5 $. In ogni caso era troppo tardi per cambiare qualcosa alla Vanda registrata da Tan Hoon Siang con il nome di suo padre, Tan Yan Chay. La possibilità di modificare la nomenclatura non era solo una questione di difficoltà tecnica, ma forse anche una questione di orgoglio e di onore familiare. Nei primi giorni della polemica, Dato ‘Dr. Yeoh Bok Choon scrisse un articolo (Malayan Orchid Review, Vol. 5, No. 5, 1959) con l’obiettivo di chiarire il problema del nome. Qualche anno più tardi, Tan Hoon Siang si sentì in dovere di diffendere le origini genealogiche del suo ibrido (Malayan Orchid Review, Vol. 7, No. 4, April 1964), sostenendo di aver usato una varietà di V. dearei con petali piatti. Questa difesa è stata – più tardi – in parte avvallata da un coltivatore di Johor Bahr, quando ha rifatto l’incrocio usando una V.dearei con i petali piatti, ottenendo un cultivar con petali piatti dal nome: V. Tan Yan Chay ‘Katherine Pink’. Successivamente, il Professor H. Kamemoto dell’Università delle Hawaii ha dimostrato che l’influenza di V. Josephine van Brero è altamente dominante in quasi tutti gli incroci semplicemente perché è tetraploide (4n), e pertanto conferisce alla sua prole un set extra di cromosomi. Tuttavia, ci sono orchidologi e tassonomi che trovano ancora motivo di discussione sui genitori veri di questo ibrido. Molti ‘revisionisti’ sostengono che la genealogia reale di Vanda Tan Chay Yan dovrebbe essere V. Josephine van Brero x V. sanderiana, in altre parole, V. Chay Tan Yan è V. TMA con un altro nome. Alcuni di questi revisionisti sostengono che la vera discendenza di V. Josephine van Brero x V. dearei tende a produrre fiori più piccoli con più petali ricurvi, sfumature giallo e profumo pronunciato. Non sapremo mai la verità: i protagonisti di allora non ci sono più, ma poco ci importa… un po’ di mistero dona ancor più fascino a questa Vanda stupenda. ——————- Note finali: notizie e foto parzialmente tratte da blogspot.it
La commedia Da inguaribile sognatore, ho anche creato un momento di teatro, ovvero: le avventure della vita viste attraverso la commedia dell’arte, per poter sognare, pensare e ridere. A materializzare questa dimensione, ci hanno pensato alcuni miei amici attori con i quali, nello scorrere del tempo ho condiviso tante belle pagine di vita. Un grazie particolare per la loro partecipazione. Da questa idea è nata una piccola commedia messa in scena nella serata di Domenica 12 Giugno, con il giardino della mia dimora, a fare da teatro.
NELLA SERRA DELLE ORCHIDEE
Il tema è quello del fantastico e del sovrannaturale, l’azione drammatica si sviluppa in un aria di mistero tra leggenda e realtà in quel mondo ormai consumato del tardo veneziano.
Lo scenario Nane e Menego, barcaroli al servizio di Sior Simon e Sior Lunardo, si perdono fra i menandri delle valli della laguna di Caorle dove si erano recati a cacciar rane per le cene luculliane dei loro padroni. Con la loro barca risalgono uno ad uno gli affluenti che portano acqua in laguna e verso mattina si fermano a far colazione a Porto nella locanda “La Grandessa” sul Lemene, noto ritrovo di strani personaggi, spezieri, doganieri, finanzieri ed avventurieri in cerca di far commercio.
Alla Grandessa si possono degustare bevande ed intrugli realizzati con spezie e strane piante provenienti dal nuovo mondo. L’ostessa Ottavia, è solita servire agli avventori, anche bevande calde, spiegando che sono fatte con strane piante afrodisiache, chiamate orchidee.
La bella Isabella Nane e Menego, forse in preda agli effetti degli intrugli di Ottavia, puntano subito gli occhi su Isabella, damigella al servizio della nobildonna Albrizi, giunta nella locanda per recuperare un misterioso carico proveniente dalle Americhe, da portare nel casino della sua Villa in terra trevigiana. Isabella parla con i barcaroli, descrive la villa dove abita e racconta di aver visto strane piante che vivono in grandi stanze riscaldate e con le pareti ed il tetto in vetro. Racconta anche di notti lussuriose, di intrighi, di passioni amorose con poeti, e di commedie erotiche messe in scena da teatranti della terra ferma veneziana.
Intanto Isabella, ritirato il prezioso carico, allerta i suoi barcaderi affinchè si possa ipartire di buon mattino. Nane e Menego, già perdutamente innamorati della dolce Isabella, si offrono di accompagnarla nel suo viaggio di ritorno, lei accetta di buon grado e insieme approdano all’imbarcadero di Melma, attracco di merci e genti, situato lungo il Sile poco prima dell’Alzaia che porta a Treviso.
Incontro con uno strano personaggio E’ qui che Nane e Menego incontrano uno strano personaggio, occasionalmente in quel luogo per raccattare ritagli di legname in una vicina segheria, che si qualifica come “el marangon” e quei legni gli usa per fare cestini. Nel frattempo Isabella si congeda dai suoi accompagnatori, non prima di averli informati che in serata parteciperà ad una festa in campagna, dove ci saranno anche i loro padroni Simon e Lunardo.
I due cavalli bianchi Ad attenderla in un casone situato lungo il Sile – già da due giorni – stazionano due cavalli bianchi ed una carrozza ricca di intarsi rococò. Isabella sale, fa un cenno di saluto con il suo fazzolettino ricamato, mentre i cavalli si muovono verso quei pochi chilometri che la dividono dalla Villa della Contessa Albrizi. Nane e Menego, visibilmente frastornati rimangono a conversare col “marangon”, che con fare sapiente racconta loro di conoscere bene la Grandessa. Fatta un po di confidenza,”el marangon” complotta con i due barcaroli proponendo di cercare quel posto dove si tiene la festa e di andarci di nascosto. Nane e Menego osservano che loro non sono stati invitati e che i loro padroni sono “rusteghi”, ma “el marangon”, con tono caparbio grida: “venite con me…so tutto”!!
Verso la festa Dopo qualche titubanza, la passione per Isabella ha il sopravvento e la strana compagnia complotta di recarsi in quei luoghi. Partono per Monastir di Piros (altrimenti noto anche come Pero), località amena dove vivono rigogliose piante esotiche, tutte ammassate in una strana costruzione che ripropone l’ambiente delle giungle misteriose del nuovo mondo. La combriccola, gira la barca, ridiscende il fiume Sile, imbocca il Meolo (un suo affluente), e giunta all’altezza di Vallio, piccolo Villaggio che da il nome all’omonimo fiume, si dirige a nord fino ad incontrare la terra delle risorgive, dove finalmente arriva alla foce del Rio Parnasso. Con fare guardingo e furtivo, i tre personaggi risalgono la corrente ed è già buio quando poco oltre la sponda sinistra del Rio Parnasso, sentono il vocìo di gente in festa che attende il solstizio d’estate: “siamo arrivati” sentenzia el marangon sfregandosi le mani, e nascosti fra le fronde e le candide acque, aspettano, mentre pocchi passi più in là … Nell’intrigante atmosfera, di passioni, inganni, amori e delitti, generata da alcuni vecchi mercanti, e da barcaroli, tutti innamorati della giovane bella Isabella la quale però non corrisponde. Questi uomini per avere il suo amore sono disposti a tutto, con denari, regali, orchidee, corteggiamenti e delitti. Isabella saputo dell’arrivo degli spasimanti si rifugia e si rinchiude nella serra. Le orchidee percepiscono la presenza ed il fascino della giovane Isabella, la “Vanda teres” di fronte a si tanta bellezza, quasi per magia, fiorisce colorandosi di rosa pallido ed arancione, un’incanto amoroso in omaggio alla giovane Isabella. L’ “Encyclia atroporpurea” invidiosa di sì tanto prodigio si scuote, pronta a donare i suoi benefizi. Intanto gli strani personaggi calpestando nervosamente la bianca stradina di vicolo Parnasso, cercano di confondersi tra gli ospiti sedutiattorno al desco sotto il porticato, distraendoli con racconti e anedotti, ma in realtà per cercare Isabella. Uno alla volta, in punta di piedi, nell’ombra della sera coperti dalle voci allegre che giungono dal giardino si defilano verso la serra dove tra carnose e sensuali orchidee ha trovato rifugio Isabella. Il tempo scorre, gli ospiti degustano, brindano e confabulano, ma ad un certo momento. in tarda serata un’urlo femminile di terrore interrompe l’allegra festa e …
Le indagini L’Avvocato del Foro di Peribus, Vidis Deorchis, presente alla festa, udito l’urlo si precipita verso la serra, e aprendo con precauzione le porte trova davanti a se una scena racappricciante.L’avvocato ritorna trafelato in giardino ed invita gli ospiti a rimanere ai propri posti con divieto assoluto di alcun movimento. Vidis Deorchis riferisce di aver ispezionato la serra e di aver trovato uno sconosciuto supino, privo di vita, seminascosto da alcune felci lussureggianti e da grosse orchidee.
Inizia il dibattito per “Ius excludendi omnes alios” e per far chiarezza su quanto accaduto. In attesa dell’arrivo delle guardie l’Avvocato interroga, indaga e prende atto da numerose e concordi testimonianze, che verso la serra delle orchidee sono stati visti solo: Sior Simon, Sior Lunardo, Nane e Menego in compagnia del “marangon” ed esclama “fumus boni iuris atque ad impossibilia nemo tenetur” pertanto invita i presenti ad indicare il presunto colpevole “sine erroribus iudicando cum diligentia” fra i sospettati sopra riportati. Purtroppo, l’ora tarda e le abbondanti libagioni del pubblico presente hanno reso le loro testimonianze poco convincenti 😉 pertanto le indagini sono ancora in corso, la serra è sotto sequestro in attesa della prima udienza per il dissequestro e per la convalida del fermo – tutti i sospettati sono ancora in stato di fermo.
Nel frattempo chi è in possesso di qualche elemento utile alle indagini lo indichi nei commenti 😉
Sensuali e misteriose come i luoghi della loro provenienza Da qualche secolo la coltivazione ed il collezionismo delle orchidee tropicali affascina e “rapisce” persone di ogni ceto sociale e di diverse nazionalità. Però le nostre maliarde, in natura, vivono nella fascia tropicale del pianeta e quindi richiedono particolari esigenze di vita, condizioni, che nei nostri climi temperati non ci sono. Storie fantasiose, passioni sfrenate, un amore febbrile, una vera e propria mania; per gran parte dell’Ottocento il vecchio continente, e sopratutto l’Inghilterra, vennero travolti da un’ammirazione incontenibile per le orchidee esotiche. Irresistibli oggetti del desiderio arrivati da ogni parte dei nuovi mondi, nei giardini e negli orti botanici europei nella seconda metà del Settecento, circondati da un alone di mistero trasformatosi in entusiasmo sfrenato di gran lunga superiore a quello suscitato un paio di secoli prima dalla “tulipano-mania”.
In quel periodo le orchidee tropicali sembravano fatte apposta per rispondere alla mania esotica dell’Inghilterra Vittoriana. Fiori sensuali, strani, spettacolari, grandi come mai se n’ erano visti in precedenza, oppure minuscoli come preziose miniature, accesero l’immaginario della società più opulenta dell’epoca. Le inedite fragranze dei fiori delle orchidee esotiche, estasiavano le nobildonne che nelle occasioni mondane, non esitavano ad esibire le rarità appena giunte dalle colonie. Ad eccitare la fantasia si aggiungevano le radici delle specie epifite, che invece di nascondersi nella profondità della terra pendevano sospese nell’aria come per incanto, e poi quelle bacche piene di una misteriosa polvere impalpabile: la scoperta, in seguito, che si trattava solo di una miriade di minuscoli semi non cambiò di molto l’impressione originaria, visto che per molto tempo non si riuscì assolutamente a farli germinare. In più, le orchidee arrivavano da luoghi dei quali si conoscevano a stento i nomi e le coordinate geografiche, un mondo che per l’Europa era ancora in gran parte da scoprire: vivevano nel cuore di giungle tropicali popolate da animali feroci, percorse da rumori sinistri, e molti erano anche fermamente convinti dell’esistenza, in quegli angoli remotissimi, di piante capaci di divorare esseri umani. Circolavano con insistenza voci inquietanti che riferivano addirittura la presenza di orchidee carnivore: una credenza rafforzata dalla vendita, a un’asta londinese, di un Dendrobium abbarbicato a un teschio umano, una bizzarria scovata da un cacciatore di piante in una zona impervia della Nuova Guinea. All’epoca, le orchidee esotiche se le potevano permettere soltanto gli aristocratici, nelle loro costosissime serre. All’inizio dell’Ottocento le orchidee esotiche si potevano trovare negli orti botanici oppure nelle lussuose residenze di qualche aristocratico che poteva permettersi giardinieri e serre costosissime, come ad esempio William George Spencer Cavendish, sesto duca del Devonshire, che per soddisfare una passione nata davanti a un esemplare di Oncidium papilio esposto in una mostra londinese, spedì nell’Assam, John Gibson, famoso cacciatore di orchidee dell’epoca.
Chatsworth: Great Conservatory Serra costruita (1836-1841) e demolita nel 1920. Questi, risalendo il corso del Brahmaputra e dei suoi affluenti, riuscì a trovare un centinaio di specie che poi spedì nella nebbiosa residenza del duca a Chatsworth, per essere custodite nella fantastica serra costruita dal capogiardiniere, Joseph Paxton. Un paradiso tropicale che suscitò l’ammirazione di tutti, perfino della regina Vittoria e del principe Alberto, che in una gelida serata invernale del 1843 lo visitarono in carrozza scoperta e alla luce di ben 12.000 lampade predisposte proprio per l’occasione.
Il clima tropicale piace alle orchidee esotiche. Il clima tropicale abbraccia la zona torrida della Terra, quella parte del pianeta, compreso dentro i due tropici del Cancro e del Capricorno. In questo clima si sviluppano le foreste tropicali, e le savane, habitat ideali per le orchidee. Esso si caratterizza per avere elevate temperature durante tutto l’anno, e nel sottotipo equatoriale, per le precipitazioni assai abbondanti. E’ proprio il regime pluviometrico che codifica i vari tipi di clima tropicale: 1. della foresta pluviale tropicale, sempre umida. 2. monsonico con una stagione secca e una umida. 3. della foresta pluviale nonostante un periodo secco. 4. della savana, più secco e con forti escursioni termiche. Le aree del pianeta con clima tropicale si trovano nell’America centrale, nella parte nord dell’America del sud, in una porzione dell’Africa e nell’intera Oceania. E’ in questa fascia climatica, che le orchidee “esotiche”, trovano la loro endemicità naturale. L’incontro con loro comincia sempre per caso e si rimane presto affascinati da tutto quello che ci raccontano. Ci ammalia la voglia di scoprire quello che non si sa della loro vita, della loro storia e della affascinante letteratura che le descrive, ma soprattutto si insinua nella nostra mente il desiderio di coltivarle. I commercianti di fiori e di piante, a partire dalle fiorerie, che tengono in negozio anche qualche pianta di orchidea “commerciale”, arrivando fino ai venditori specialisti di orchidee rare, tranquillizzano il neofita titubante, che si accinge ad effettuare il suo primo acquisto. “E’ facile coltivare orchidee esotiche”, esclama con suadente gestualità, il venditore. Il principiante sa perfettamente che la storia è diversa, ma non sempre sa resistere ed ecco che si crea quella strana dimensione evanescente nella quale il denaro perde valore, mentre quelle piante strane, devono essere possedute a tutti i costi. Nei salotti e nelle verande delle nostre abitazioni capita sempre più spesso di trovare le orchidee più impossibili. Nei secoli passati le orchidee erano considerate piante misteriose e costose, per questi motivi era raro trovarle come elemento floreale di coreografia abitativa. Con il trascorrere degli anni sono migliorate e tecnologie per la riproduzione da seme e da meristema, fattori questi, che hanno resa possibile la proliferazione di massa delle orchidee. Da qualche anno, le varie fiere e mercati, presenti in varie città, sono sempre fornitissimi di specie, un tempo introvabili. Ma il neofita, che tanto ha sognato il possesso di quelle piante dai nomi così affascinanti, finito l’onirico viaggio esotico, comincia a porsi mille domande.
Storie di serre famose e di passioni amorose. La passione per le piante tropicali fu dominante in vari paesi europei per tutto il 19 ° secolo. L’nteresse coincise con lo sviluppo delle varie tecnologie per la costruzione di grandi “serre”. La più bella e la più famosa è sicuramente quella costruita presso il Royal Botanic Gardens di Kew, appena fuori Londra, dove furono realizzati enormi contenitori in vetro per ospitare diversi tipi di piante tropicali provenienti dalle varie colonie dell’Impero Britannico. Grande protagonista di quell’epoca fu il costruttore di serre, Joseph Paxton. Sir Joseph Paxton (3 agosto 1803 – 8 giugno 1865), architetto britannico nato a Milton Bryant, nel Bedfordshire, intuendo le grandi possibilità tecniche, nonchè gli spettacolari e innovativi effetti formali del ferro, fu tra i primi a servirsi di strutture metalliche per costruire serre.
Crystal Palace ricostruito in versione ingrandita dopo il trasloco. Nel 1850 gli fu affidato l’incarico di portare a termine l’opera a cui è rimasta legata essenzialmente la sua fama: il Palazzo di Cristallo per l’esposizione internazionale di Londra in Hyde Park (circa 120 metri di larghezza e 562 di lunghezza), coperto da archi di varie altezze e interamente costruito con pezzi prefabbricati. L’enorme costruzione in stile vittoriano, eretta nella capitale britannica, ma inizialmente installata a Hyde Park, è stata smontata nel 1854 e ricostruita in un’altra zona della città, Sydenham Hill. Il 30 novembre del 1936 viene purtroppo distrutto da un incendio.
Ma fu nel 1827, che un medico inglese di nome Nathaniel Ward, rivoluzionò completamente il rapporto dell’uomo con la botanica. Nell’immaginario collettivo la serra è vista come una scatola di materiale trasparente, che lascia filtrare la luce. La scatola può essere di dimensioni enormi, vedi quelle professionali, oppure le amatoriali medio piccole, per arrivare fino ai microscopici terrari o orchidari che dir si voglia. L’orchidario, per chi ama le orchidee è l’embrione del sogno chiamato serra, sogno di chi è in attesa della serra vera o del jardin d’hiver, dove immergersi in un piccolo angolo tropicale, un luogo intimo dove concentrare il proprio sguardo verso la natura. Ma come e quando nacque l’idea di proteggere in ambiente chiuso le essenze vegetali, e chi scoprì il miracolo della coltivazione sotto vetro? foto 5 Nathaniel Bagshaw Ward, by Richard James Lane, printed by M & N Hanhart, after John Prescott Knight, 1859. A fare questa scoperta fu Nathaniel Bagshaw Ward (1791-1868), quest’uomo, che ha il merito di aver cambiato il mondo botanico così drasticamente, rimane l’ennesimo personaggio-ombra che emerge dalle nebbie della Londra vittoriana. Non pensiate che questa sia la solita frase retorica, dietro alle sue scoperte, si nascondono una serie di evoluzioni storiche senza le quali il mondo moderno sarebbe decisamente diverso da quello che noi conosciamo.
Nathaniel Bagshaw Ward (1791-1868) Sarebbe noioso stilare l’elenco delle società che lo vedevano attore partecipe, basti sapere che spaziavano dal campo medico, farmaceutico a quello botanico. Ma partiamo con ordine: nato a Londra Ward sviluppò presto il suo interesse per il mondo naturale nonostante lo circondasse il grigio panorama della città industrializzata. Alla tenera età di 13 anni si ritrova per mare su una nave in viaggio per la Giamaica: era convinto di far carriera in marina. Dopo quel viaggio, come sperava il padre, valente chirurgo, egli abbandonava l’idea di essere un marinaio per seguirlo nella pratica medica. Ma la flora tropicale aveva risvegliato in lui l’interesse per la natura e in particolare per palme e felci. Ward lavorava nell’est End di Londra e continuava a coltivare la sua passione per la botanica e l’entomologia tra un paziente e l’altro, nel tempo libero collezionava piante coltivandole all’aperto: il suo erbario contava più di 25000 specie. Sognava ricoprire un vecchio muro di confine del suo giardino di felci e muschi. Il suo giardino a Wellclose square non fu esattamente quello che Ward si era immaginato, solo poche delle felci piantate sopravvissero. Questo tasso di fallimento fu determinato dalla cappa di inquinamento soffocante della Londra industrializzata, la stessa atmosfera inquinata dal fumo proveniente dalla combustione del carbone e dai solfuri che fece coniare a un giornalista nel 1905 il termine “smog”, abbreviazione di “smokey fog” (nebbia fumosa). Ward girò il mondo per dar soddisfazione al suo interesse per l’entomologia. In occasione di uno dei suoi viaggi, egli raccolse la pupa di un lepidottero (sfinge) e la collocò in un contenitore trasparente e sigillato. La storia non ricorda il destino del lepidottero, ma dopo un po’ di tempo, Ward notò che alla base del contenitore chiuso, dal terreno iniziavano a germogliare delle felci: la sua curiosità su quanto tempo queste potessero vivere in un ambiente protetto, o meglio sigillato, portò a una delle scoperte botaniche ed economiche più importanti dell’età vittoriana: la cassetta wardiana (Wardian Case). Preso dal fervore per la sua scoperta, Ward inizò tutta una serie di esperimenti. Costruì dei terrari in vetro, di varie dimensioni, che riempirono il suo giardino e ogni stanza della sua abitazione: alcuni li mise perfino sopra il tetto di casa! Il terrario più grande (2.4 mq) conteneva al suo interno più di 50 specie di piante abbarbicate sulla riproduzione di una finestra della Tintern Abbey. I contatti con la famosa Loddiges Nursery che sponsorizzava le spedizioni esplorative, volte alla scoperta di nuove piante, gli permisero di testare il potenziale della sua invenzione per il trasporto di esemplari per mare. All’epoca la sopravvivenza a questi lunghi viaggi era impensabile. Le piante tenute sottocoperta morivano per mancanza di luce, mentre quelle tenute sul ponte per salsedine, forti venti, bruciature da sole e mancanza d’acqua.
Wardian Case da interno. On the Growth of Plants in Closely Glazed Cases di Nathaniel Bagshaw Ward (1852) Coltivare e spedire piante sotto vetro non era cosa nuova, ma nuovo era il concetto dell’ambiente sigillato non contaminato dalle condizioni atmosferiche circostanti. Ward fece costruire da un carpentiere una cassa per le sperimentazioni, il telaio doveva essere in legno duro e le connessioni più rigide e resistenti possibili: questo per evitare danni per effetto della condensa. Ed ecco nato il primo terrario! Nel 1833 spedì, in due casse, delle felci native dell’Inghilterra, in Australia, questo fu il suo primo grande esperimento. Dopo 6 mesi di navigazione il carico sbarcò nel porto di Sydney con le piante vive e vegete! Le casse come su richiesta vennero pulite e riempite di specie native australiane che prima di allora non si erano mai riuscite a trasportare oltremare; nel febbraio del 1835 il carico salpò, ma la nave, sconvolta dalle tempeste di Capo Horn arrivò a Londra solo dopo 8 mesi di navigazione. Le casse erano sul ponte e non erano state aperte nonostante le temperature fossero variate da -7 a 49 C° e coperte dalla neve durante parte del viaggio.
I successi degli esperimenti Intanto in città Ward attendeva ansioso di visionare il carico. Nel suo libro del 1852 scrisse: “I shall not readily forget the delight expressed by Mr. G. Loddiges, who accompanied me on board, at the beautiful appearance of the fronds of Gleichenia microphylla [umbrella or coral fern], a plant now for the first time seen alive in this country.” L’esperimento ebbe successo e Ward pubblicò un pamphlet dal titolo “The growth of Plants without open exposure to the Air” in cui descriveva i sui metodi. A questo seguì la pubblicazione nel 1842 del libro “On the Growth of Plants in Closely Glazed Cases”. Dopo di lui tutta l’Inghilterra iniziò a usare i terrari, sia per le coltivazioni cittadine che per le spedizioni via mare e Loddiges potè constatare che il tasso di sopravvivenza delle piante era cresciuto dallo 0.1 al 90%. Joseph Dalton Hooker fu uno dei primi a servirsi delle cassette wardiane per la sua spedizione in Antartico nel 1839, ma il primo di cui si ha notizia fu John Gibson, pupillo di Paxton, che partì per l’India nel 1835 per conto del duca del Devonshire, in un viaggio che lo tenne lontano dall’Inghilterra per oltre 2 anni e che riportò al duca più di 80 specie di orchidee diverse, tra cui quello che venne chiamato Dendrobium devonianum, che fiorì per la prima volta nelle serre di Chatsworth nel 1840. Nel 1854 il dott. Ward diede lettura della sua scoperta alla Royal Society nel Chelsea Physic Garden: in quel tempo era già noto che la sue wardian cases avevano cambiato la faccia del commercio in tutto il mondo. Queste rimasero in uso per parecchio tempo, si dovette aspettare più di un secolo l’arrivo delle buste in plastica e le ingombranti e pesanti cassette vennero soppiantate.
La prima serra riscaldata in Italia
Sul finire del Settecento veneziano, nella serra stile Vittoriano, sistemata ad est del grande parco della Villa Albrizzi-Franchetti (Treviso), riscaldata da una grande stufa a legna, crescevano rigogliose molte piante esotiche fatte arrivare appositamente da tutte le parti del mondo per rendere ancor più ameni, piacevoli ed esotici, gli ampi spazi circostanti. La Villa Franchetti o Villa Albrizzi Franchetti fu costruita tra il 1680 e il 1700 lungo il Terraglio, dai nobili Albrizzi, noti mercanti di stoffe. Tra loro, Isabella Teotochi Albrizzi. La villa, passò successivamente alla contessa Ida Zeno Accurti e quindi acquistata dal barone Raimondo Franchetti. Nel 1973 Raimondo Nanuk Franchetti, ultimo proprietario, la vendette alla provincia di Treviso, oggi è gestita dalla fondazione Cassamarca. Purtroppo non è visitabile e la serra, o quel che ne rimane è in uno stato di completo abbandono. In occasione di una esposizione di orchidee in villa, che curai qualche anno fa, ebbi modo di vivere l’atmosfera di quello che fu uno dei salotti più famosi d’Europa, luogo d’incontro di viaggiatori, avventurieri, eruditi, artisti, scienziati, seduttori di professione, militari di carriera, principi d’Europa. foto 7 Ritratto di Isabella Teotochi-Albrizzi eseguito da Elisabeth Vigée-Le Brun (1792) Piacevoli sensazioni, mi accompagnavano, mentre camminavo lungo i viali del parco, già calcati dal Foscolo, dal Pindemonte, dal Cesarotti, dal Canova, dal Denon e da tanti altri amici della “divina” Isabella Teotochi (1760-1836). Sembrava di rivivere il tempo che esaltò i fasti di quella straordinaria bellezza greco-veneziana, un mito raccontato in tutti i salotti letterari d’Europa, che sedusse Venezia e della quale ci rimane uno straordinario ritratto della grande pittrice Elisabeth Vigée Le Brun, la ritrattista dei principi delle corti europee. Isabella, fu una delle donne più ricche di brio, vitalità e spregiudicatezza della sua epoca e sono famosi gli avventurosi amori di questa procace nobildonna: la Temira cantata dal Pindemonte, la Laura della prima stesura dell’ Ortis di Foscolo. Il suo salotto e la splendida villa sul Terraglio conobbero presenze come quelle di Chateaubriand, di Vivant Denon (il padre del Louvre), di Byron, Canova e di Walter Scott. Complesse vicende seguirono il destino della giovane nobildonna che visse nella Venezia viziosa e decadente di fine Settecento, fino al matrimonio con il Giovanni Battista VI Giuseppe Albrizzi (soprannominato Iseppo; 1750 – 1812), celebrato dopo l’annullamento del primo, con il nobiluomo Antonio Marin. Questo non sarà, tuttavia, un rapporto esclusivo nella tumultuosa vita sentimentale di Isabella. Nel 1795 Isabella, dopo aver conosciuto le attenzioni di Denon, si apre all’amore per un ragazzo che ha la metà dei suoi anni: il diciassettenne Ugo Foscolo
I cinque giorni di folle passione, del giovane Ugo Foscolo. Il giovane, di indole bizzarra e di carattere non certamente facile, si lasciava facilmente rapire dal sorriso di Isabella che lo rendeva dolce e scherzoso. Isabella, donna intelligente e matura, aveva scorto oltre il povero sembiante, il genio del giovane; più avanti negli anni, Isabella, scriverà di lui: “volto e aspetto che ti eccitano a ricercarne e conoscerne l’animo e l’ingegno. L’animo è caldo, forte e disprezzator della fortuna e della morte. L’ingegno è fervido, rapido, nutrito di sublimi e forti idee; semi eccellenti in eccellente terreno coltivati e cresciuti (..) all’imperioso amore concede talvolta un filo ond’essere ritenuto; ma filo lungo, debole, mal sicuro contro l’impetuoso torrente di più maschie passioni». Ugo Foscolo, più tardi racconterà con dolcezza i momenti intimi vissuti con Isabella che lo accolse quasi senza veli nel suo letto: …” una Dea dalla lunga e rada camicia non allacciata, dalle spalle ignude, dal braccio bianchissimo e tondeggiante e dal petto voluttuosamente difeso da una candida pelle, dai ricci sparsi or sul collo, or sul seno, quasicché quelle liste dorate, dovessero servire all’occhio inesperto di guida(..) a questa sacerdotessa di Venere ho consacrato le primizie della mia gioventù…!”. In effetti come racconta Alvise Zanon, intimo amico del Foscolo, Isabella era una giovane bellissima, nata come lui nelle isole greche, amica di poeti e letterati, divorziata, che pure aveva ceduto alla sua adorazione e per pochi giorni: cinque per l’esattezza! Era stata sua. Dopo averlo iniziato ai misteri dell’amore, l’aveva garbatamente allontanato, col viatico di molti savi consigli sul modo di trattare le donne e recitare nella vita la commedia dell’amore. “Posso dunque gloriarmi di aver udito i primi cenni dell’amara storia che avrei poi ritrovato nelle doloranti pagine dell’Ortis» diceva Zanon. Più avanti negli anni, il poeta amava ricordare Isabella con questa frase: “Amante per cinque giorni, amica per tutta la vita” Le orchidee arrivarono in epoca successiva alle avventure amorose del Foscolo, di sicuro furono presenti nelle serre della villa a partire dalla seconda metà del 1800 e vi rimasero fino agli anni 80 del 1900, quando la Stanhopea nigroviolacea, ultima testimone delle passioni, degli amori e della cultura in Villa mi fu consegnata in custodia dal suo giardiniere. Ricordo ancora lo stupore che provai, quando il giardiniere della Villa Albrizzi-Franchetti, quasi a voler mantenere in vita le esclusività botaniche della villa, e cosciente di non potercela fare da solo, venne a trovarmi per consegnarmi in custodia gli ultimi esemplari di un’ orchidea misteriosa, l’ultima testimone di forti passioni e di amori andati. Stanhopea nigroviolacea (Morren) Beer In quell’occasione il giardiniere mi consegnò due museruole contenenti quel che rimaneva delle piante – ben poca cosa – e con scarse possibilità di un loro recupero. Una pianta rimase nella sua vecchia museruola e piano piano si riprese: nella foto sopra a sinistra potete ammirare lo stato attuale dell’esemplare originale. La seconda museruola, già irrimediabilmente usurata mi servì da campione per riprodurne di nuove, nelle quali poter sistemare i frammenti ancora in vita della pianta originaria. Riuscii a salvare due pseudobulbi ed ora sono due piante ben strutturate.
Aromi e vanità Molte specie di Stanhopea sono così simili che solamente l’aroma dei fiori stabilisce la differenza. Ogni specie produce un profumo unico che attrae una specie particolare di ape appartenente alla sottofamiglia delle Euglossinae. Paradossalmente non è la ricerca di nettare per nutrimento che attira le api, ma bensì la vanità maschile! Soltanto le api maschio visitano i fiori, e lo fanno per lucidarsi con la sostanza oleosa e di odore gradevole prodotta dai fiori. I piedini anteriori delle api possiedono delle spazzole sviluppate essenzialmente per questo fine e quelli posteriori sono dotati persino di piccole spugne a forma di sacco, utili per trasportare profumo di riserva da utilizzare durante i loro balli di corteggiamento delle api femmine. I maschi delle api euglossine cercano l’aroma specifico che interessa solamente alle femmine della loro specie. Le api maschio, dai corpi lucidi e iridescenti, appena sono inondati dalle sostanze fragranti dei fiori entrano in uno stato confusionale quasi in preda a delle vertigini e inciampano nella trappola modellata esattamente per simulare i profili degli insetti. In questo vortice impazzito l’ape maschio batte la testa contro il pollinia appiccicoso del fiore, che si attaccherà e sarà trasportato nel poi, uscendo con i polline-sac attaccati, volano al fiore successivo a caccia di altro profumo ed involontariamentin altri fiori della stessa specie per l’involontaria impollinazione. L’unicità del profumo dei fiori di ogni specie di Stanhopea è la garanzia che non ci saranno ibridazioni. I fiori delle Gongorinae si adattano bene al comportamento delle api, producono poco profumo di sera o durante la notte quando le api non ci sono, ma verso la metà della giornata quando le api sono più attive, i fiori intensificano il loro aroma. La sostanza fragrante prodotta dai fiori delle Gongorinae è costituita da una composizione chimica complessa situata sulla superficie del labello e composta da un sottile strato oleoso; le api trasformano questa sostanza in feromoni che useranno durante l’adulazione.
Quando un nome può creare incidenti diplomatici. CAPITOLO 3 Nomi di orchidee in onore a personaggi famosi. Quando un nome può creare incidenti diplomatici. foto 14 Clint McDade (8 agosto 1892 Missouri USA – 30 Settembre 1986 Alabama USA), proprietario della Semmes Nursery, specializzata in Camelie ed Azalee e grande fornitore di Bellingrath Gardens (Alabama). Clint McDade aveva anche la passione per le orchidee, presto trasformò il suo hobby in attività professionale, dando vita alla “Rivermont Orchids in Signal Mountain, Tennessee”. Clint si recava spesso in Inghilterra dove possedeva un vivaio di orchidee. A tal proposito giova ricordare che nel 1941 le sue orchidee furono utilizzate per gli addobbi del matrimonio della regina Elisabetta d’Inghilterra. Durante la seconda guerra mondiale, McDade portò negli USA, la maggior parte delle orchidee importanti e rare, presenti nelle sue serre inglesi. Prese tale decisione, sia per proteggerle dai bombardamenti tedeschi e per la mancanza di carbone in Europa, indispensabile per riscaldare le serre. McDade è stato anche giudice dell’American Orchid Society. All’inizio degli anni 40 del 20° secolo, quando Clint McDade decise di fecondare i fiori di due ibridi della sua collezione di orchidee (Cattleya Bow Bells x Cattleya Barbara Billingsley), non poteva certo immaginare che un cultivar (varietà), frutto di quell’impollinazione gli avrebbe creato dei dispiaceri. L’impollinazione è l’atto iniziale per la riproduzione delle orchidee attraverso la semina. Il principale elemento, che distingue le orchidee dalle altre monocotiledoni affini (Liliíflorae) e che costituisce il valore aggiunto, in termini evolutivi, del successo di questa famiglia è il ginostemio (colonna centrale che porta gli organi riproduttivi sia maschili che femminili).
Dalla fecondazione alla prima fioritura dei figli. Mediamente occorrono da sei mesi ad un anno affinché maturi una capsula seminale. Ogni capsula contiene decine di migliaia ed in certi casi anche 3.000.000 di semi molto piccoli ed appena visibili ad occhio nudo. I motivi della loro ridottissima dimensione e del loro gran numero, stanno tutti nella necessità di farsi trasportare dal vento in molti luoghi diversi e soprattutto negli anfratti degli alberi. I semi per essere fertili devono contenere il loro embrione: la sicurezza della loro fertilità è data solamente dal microscopio. Altra particolarità che caratterizza i semi delle orchidee è quella di essere quasi senza sostanze nutrienti e per germinare in natura, hanno bisogno della “collaborazione” di un fungo, in gergo tecnico, chiamata “simbiotica”. Fino al 1922, anche nelle semine in laboratorio, il metodo “simbiotico” era l’unico conosciuto. Nel 1922, il dr. Lewis Knudson dell’università di Correll, mise appunto un nuovo metodo, più semplice ed efficace: “germinazione asimbiotica”. I semi germinano in ambiente sterile su un terreno di coltura costituito da gelatina, zuccheri ed altre sostanze nutrienti: con questo metodo si evita di avvalersi del sussidio della simbiosi con un fungo. Ancor oggi la formula “C” del dott. Knudson è usata nei laboratori di tutto il mondo. Ovviamente la presenza di zuccheri propaga esponenzialmente, sia batteri che funghi, pertanto, tutto l’occorrente (semi compresi) va sterilizzato e le varie operazioni della semina, vanno effettuate in ambiente accuratamente sterile, ad esempio in “cappa sterile a flusso laminare”. Le capsule fecondate maturarono perfettamente e Clint McDade, poco prima che si aprissero per liberare i semi, diede il via alle operazioni di semina. Fatta la semina è iniziato il periodo della coltivazione in vitro con terreno di coltura a temperatura oscillante tra 24 e 26 gradi e fotoperiodismo di 12 ore luminose (tubi al neon serie flora o Cool White…mai sole diretto) e 12 ore di buio effettivo. Dopo qualche mese, già si potevano ammirare le piantine ben strutturate e in bella forma, il momento giusto per trasferirle in contenitori più grandi con terreni più ricchi: la classica operazione di “ricopertura”. Nel nuovo ambiente le piantine crescerono velocemente e dopo un anno di permanenza (potevano rimanere anche di più) vennero sistemate in “community pot”. Trascorso qualche anno di coltivazione, le piante ormai adulte, mostrarono le prime fioriture: fiori regolari, bianchi, grandi e carnosi, proprio come allora andava di moda nei salotti buoni della borghesia americana.
Il battesimo con un nome importante. C. General Patton Fra le tante piante di quella semina, una attirò in particolar modo l’attenzione di Clint. A “stregarlo” furono i suoi grandi fiori di colore bianco “caldo” e la forma del labello, frangiato con la gola giallo oro, quasi a ricordare il famoso quadro dei girasoli di Van Gog: “Molto belli questi fiori” – esclamò Clint – ammirando la loro forma, e aggiunse: “Questo cultivar merita sicuramente di essere registrato alla Royal Horticultural Society” – così si usa fare nel mondo della botanica -. Eravamo nel mezzo della seconda guerra mondiale e Clint McDade, pensò di dedicare la sua nuova orchidea a Iosif Vissarionovic Džugašvili, conosciuto come Iosif Stalin, dittatore, Segretario Generale del Partito Comunista dell’URSS e leader di tale Paese, a quel tempo la maggior potenza alleata degli Stati Uniti d’America, contro la Germania di Hitler. Mc Dade registrò quella sua splendida orchidea, nominandola: Cattleya Joseph Stalin. Eravamo nel 1943, Mc Dade era sì un bravo coltivatore di Orchidee, ma non un profondo conoscitore degli equilibri politici europei di quel tempo. Qualche anno dopo, a guerra finita e in pieno regime di “guerra fredda”, McDade si accorse di aver commesso un errore fatale e si fece in quattro per cambiare il nome della sua creatura. Impresa quasi impossibile. Mai era capitato prima di allora, che la Roial Horticultural Society, cambiasse un nome già registrato. Però i nuovi equilibri politici mondiali post bellici, elevarono questa controversia a caso veramente eccezionale. Le autorità botaniche inglesi, in ossequio alla politica dominante, accettarono le suppliche di Clint, ma fu la prima e rimase l’unica volta. A quel cultivar fu cambiato il nome, sempre in onore di un noto personaggio: Generale Patton, famoso per le sue campagne militari nella seconda guerra mondiale, culminate con il comando dello sbarco in Normandia. Pertanto nei registri della RHS, l’incrocio fra Cattleya Bow Bells e Cattleya Barbara Billingsley, dal 1952 porta il nome Cattleya General Patton. Nel 1975 Clint McDade donò la parte importante della sua collezione di orchidee al Collegio dei Ozarks nel Missouri, dove egli fu uno dei primi studenti della scuola, che conta oggi più di 7.000 piante.
Per la verità, anche nei nomi dei due genitori di Cattleya General Patton, si possono scorgere elementi di tristezza, di amore e di intrighi. Ad esempio, Cattleya Bow Bells (ibrido registrato alla RHS nel mese di Aprile del 1945 dalla società Black & Flory) porta questo nome in omaggio alle campane di St. Mary-le-Bow – una chiesa nel quartiere finanziario di Londra. La chiesa fu gravemente danneggiata dai bombardieri di Hitler durante la seconda guerra mondiale: era una leggenda nella città – non eri un vero “cockney londinese” se non eri nato nel raggio in cui si sentiva il suono delle sue campane. Il nome dell l’altro genitore, Cattleya Barbara Billingsley, ricorda Barbara Billingsley, star dello show televisivo americano, Leave It to Beaver, scomparsa il 16 Ottobre 2010.
Orchidee dedicate alle First Lady americane Art e Rebecca Chadwick di Powhatan (Virginia) USA, gestiscono il vivaio “Chadwick and Son Orchids”. Per Art e Rebecca è ormai tradizione dedicare dei loro ibridi di Cattleya alle varie first lady che compaiono nella scena politica americana. Negli anni, re, regine, principesse, presidenti e first lady sono stati onorati di avere un’orchidea “batezzata” con i loro nomi. Gli ibridatori americani sono Orchidee dedicate alle First Lady americane Art e Rebecca Chadwick di Powhatan (Virginia) USA, gestiscono il vivaio “Chadwick and Son Orchids”. Per Art e Rebecca è ormai tradizione dedicare dei loro ibridi di Cattleya alle varie first lady che compaiono nella scena politica americana. Negli anni, re, regine, principesse, presidenti e first lady sono stati onorati di avere un’orchidea “batezzata” con i loro nomi. Gli ibridatori americani sono sempre stati molto sensibili ed attenti su questo versante, ad esempio possiamo ricordare: C. Bess Truman, C. Pat Nixon, Lc. Mamie Eisenhower e Lc. Nancy Reagan ed altri casi che vedremo più da vicino. foto 16 Il 21 ottobre 1995, una bellissima Cattleya semi-alba, cultivar selezionato dall’incrocio “C. Kittiwake ‘Brilliance’ AM/AOS x Blc. Meditation ‘Queen’s Dowry’” prodotto originariamente dalla ditta hawaiana “Carmela Orchids”, venne dedicata a Hillary Rodham Clinton con il nome: Blc. Hillary Rodham Clinton ’first lady’. Il cultivar ‘First Lady’ fu registrato da Art e Rebecca Chadwick di Powhatan – Virginia – titolari della, “Chadwick and Son Orchids”. Registrare questo cultivar non fu facile. Il primo ostacolo che incontrarono i Chadwick fu quello di ottenere l’autorizzazione dalla ditta ibridatrice “Carmela Orchids”, avutala si presentò per loro un secondo ostacolo burocratico: alla Royal Horticultural Society (RHS), per accettare la registrazione con il nome di Mrs. Clinton, serviva il consenso dell’interessata. Contattare la Casa Bianca non fu semplice, ma con l’aiuto del Governatore della Virginia, finalmente giunse il permesso alla RHS in Inghilterra. Risolti i problemi burocratici rimaneva l’organizzazione dell’evento: la consegna del fiore alla First Lady. Bisognava coniugare il periodo di fioritura della Cattleya con gli impegni dei Clinton. La presentazione ufficiale avenne durante una cena di gala in onore dei coniugi Clinton. In quell’occasione i bouquet confezionati con i fiori della nuova orchidea, nominata Blc. Hillary Rodham Clinton ‘first lady’, furono venduti in beneficenza a 500 dollari per singolo bouquet e fu un successo. foto 17 Anche Barbara Bush ha avuto il piacere di veder nominata una orchidea in suo onore: Brassolaeliocattleya Barbara Bush ‘First Lady’. Lei è stata la First Lady USA (1989-1993), moglie del presidente H. George Bush e madre di George W. Bush, futuro Presidente. Brassolaeliocattleya Barbara Bush ‘First Lady’ è un ibrido a fioritura autunnale con fiori semi -alba: petali bianchi e un morbido labello color lavanda con gola gialla. Con l’elezione alla presidenza degli USA del figlio George W. Bush è giunto il turno della moglie Laura. foto 18 ‘Laura Orchid,’ coltivata e registrata alla RHS, da Chadwick & Son Orchids di Powhatan. La nuova orchidea è stata presentata a Laura Bush in occasione di un incontro al ” Botanical Garden di Washington. L’evento si è svolto Martedì 9 maggio in occasione del “Pranzo della First Lady”, incontro annuale delle mogli dei senatori degli Stati Uniti. Il nuovo ibrido di Cattleya dedicato a Laura Bush è stato nominato Blc Laura Bush, genitori (Cat. walkeriana x Blcc Good News). I fiori prodotti da questa nuova orchidea sono di medie dimensioni, bianchi con striature viola, ed emanano un dolce profumo. In condizioni di buona coltivazione può fiorire due volte l’anno. il nome botanico ufficiale è Brassolaeliocattleya Laura Bush. ffoto 19 Con l’orchidea dedicata a Laura Bush, Art e Rebecca Chadwick, sono già riusciti a fare “tris” ed ora attendono con trepidazione la prossima occasione propizia. Siamo nel 2008, in piena campagna elettorale per le elezioni presidenziali che vedono Barack Obama chiaramente favorito, e i nostri ibridatori sperano di piazzare un bel poker con Michelle Obama, moglie del candidato presidente. Michelle non era ancora Frst Lady, ma le previsioni davano per favorito il marito e quindi si poteva anche giocare d’anticipo. La risposta è arrivata ai primi di agosto, quando la moglie del candidato leader, Michelle Obama, è giunta in Virginia per un meeting elettorale e fu colta l’occasione per presentare la nuova orchidea da dedicare alla futura frst Lady. Il nome assegnato dalla botanica è Laeliocattleya Michelle Obama, incrocio fra (C trianaei x Lc Mini Purple). E’simpatico ricordare che per la cerimonia di presentazione, foto ricordo e consegna del certificato RHS, erano previsti solo 2 minuti.
Ossessioni e passioni. Kovach e il Santo Graal delle orchidee. Fiumi di inchiostro sono stati consumeti per raccontare le storie ed i personaggi che hanno contribuito alla mitizzazione delle orchidee. La più recente, e per certi aspetti, anche la più controversa è legata alla scoperta di una nuova orchidea peruviana. Ormai sono trascorsi oltre 10 anni dal primo ritrovamento di una nuova specie di Phragmipedium che porta il nome del suo scopritore, o meglio, il nome di chi lo importò (illegalmente) negli USA: James Michael Kovach. foto 20 L’inesorabile legge del tempo ha già fatto il suo corso e Michael Kovach, che tanto fece sussultare l’orchidofilia mondiale agli inizi del 21° secolo è scomparso, Domenica 26 Agosto 2012 a Goldvein Virginia: aveva 57 anni. Nacque il 18 marzo 1955, a Fairbanks, Alaska. Trascorse la sua infanzia in Francia e Germania, dove sviluppò l’amore per i viaggi e la botanica. James Michael Kovach, botanico autodidatta, si avvicinò al mondo delle orchidee, diventandone un buon esperto. Con la moglie Barbara, creò “Southwind orchidee”, che lo portò ad esplorare gli habitat di orchidee autoctone di tutto il mondo. Una specie peruviana, Phragmipedium kovachii, porta il suo nome. Phrag. kovachii è stato scoperto da Faustino Medina Bautista nel mese di ottobre del 2001, nei pressi della sua fattoria vicino a Moyobamba Chachapoyas nel nord del Perù. Questa nuova specie apparve per la prima volta in pubblico “illegalmente” il 17-19 Maggio 2002 al Redland International Orchid Festival di Miami (Florida), nello stand di un espositore peruviano: prezzo di vendita, 10.000 $ a pianta.
3.2. La scoperta di questa orchidea, una storia intrisa di ego e corruzione Sì perché sono loro, le maliarde, la possibilità di averle per se, di dar loro il proprio nome e di entrare nella storia del loro mondo stregato, a catturare totalmente collezionisti e scienziati. Il collezionista vuole possederle, domarle e per ottenere ciò è disposto a compiere qualsiasi azione. Il suo portafoglio si dilata ed il valore delle orchidee tanto desiderate diventa accessorio ininfluente. Lo studioso invece le cerca, le descrive, le battezza con il proprio nome e per raggiungere questi obiettivi compie azioni al limite e qualche volta anche oltre la legalità. E’ in questo mondo fatto di tanti milioni di Euro, che “navigano” cercatori di orchidee, raccoglitori e commercianti. Molti scrittori hanno speso fiumi di parole per dare una ragione al fatto che, persone altrimenti razionali, siano portate a tali estremi dalle orchidee. Quando un uomo si innamora delle orchidee, egli farà di tutto per possedere quelle che vuole. Nel 1939 Norman McDonald nel suo libro “I cacciatori di orchidee”, scrisse: “E’come inseguire una donna dagli occhi verdi o prendere la cocaina, è una sorta di follia”.Le orchidee non sono solamente un ossessione botanica, ma anche un’industria di oltre 2 miliardi di euro l’anno, cioè, il business dei fiori più redditizio in tutto il mondo. Questo è solo l’aspetto legale del business. Nessuno sa quanti soldi ci sono nel commercio illegale. Da sempre, le figure che ruotano attorno a quella sottile linea che divide la legalità dall’illegalità, danno vita a storie fantastiche e misteriose, qualche volta anche delle vere e proprie saghe. foto 21 Questi misteri sono ben descritti nel libro di Eric Hansen “orchid fever”, un racconto ben strutturato, di amore, di lussuria e di follia, il cui filo conduttore è appunto la corsa spasmodica alla caccia di orchidee rare. In ogni epoca la scoperta di nuove orchidee ha scatenato passioni e rancori. Sono state devastate foreste e sterminate piante nel loro ambiente naturale. Immutabilmente gli uomini hanno fatto follie per possedere un’orchidea e gli scienziati si sono scontrati per darle un nome. Ancor oggi accadono storie fatte di rancore e di lotta per il potere fra personaggi del mondo orchidofilo.
La saga del Phragmipedium kovachii. La storia che segue racconta di una “battaglia contemporanea” maturata all’insegna dell’ego e della corruzione, una storia degna di essere menzionata in un eventuale tomo 2 del libro ”orchid fever” di Eric Hansen. La storia purtroppo comincia quando questa nuova orchidea è già seriamente in pericolo di estinzione in sito. E’ in quel tempo che Faustino Medina (contadino peruviano), forse preoccupato dai clamori, che la mostra di Miami ha suscitato con la sua orchidea dai magnifici fiori color violetto, si precipita a comunicare la sua scoperta a dei botanici peruviani. Questi, rimasero visibilmente entusiasti, e convinti di trovarsi davanti alla più grande scoperta botanica degli ultimi 100 anni, si attivano per avviare le procedure di registrazione della nuova specie.
Appare chiaro sin da subito, che per dare risonanza alla scoperta (pubblicazione su giornali scientifici di livello internazionale), bisogna che la nuova pianta sia descritta da studiosi riconosciuti dall’orchidologia mondiale, che sono in tutto 23 e nessuno è del Perù. Quindi, la nuova orchidea dovrà essere descritta da specialisti stranieri, e si pensa di inviarla al tassonomista americano Eric Christenson, ma l’idea si dimostra impraticabile; ci sono problemi con il CITES ed inoltre, la pianta da classificare, non avendo ancora un nome non può essere esportata legalmente fuori del Perù. I botanici peruviani risolvono il problema inviando foto e descrizioni della pianta a Eric Christenson negli Stati Uniti. Descrizioni e materiale fotografico avrebbero consentito a Christenson di curare la presentazione ufficiale della nuova pianta nella rivista “Orchids” (mensile dell’American Orchid Society). Il nome da assegnare sarebbe stato Phragmipedium peruviano e la pubblicazione sarebbe uscita il 27 giugno 2002.
Altri “cacciatori” fiutano la “preda”. Lee Moore, “vecchio” cacciatore di orchidee, un quarto di secolo speso a camminare in giro per le giungle del Sud America a raccogliere di tutto, comprese nuove specie di orchidee, alcune lui nominate. Moore e sua moglie Chady, di origini peruviane, vivono nei dintorni di Miami (USA), ma si recano spesso in Perù, vicino alla città di Moyobamba, dove possiedono un grande vivaio nominato “Lee & Chady Moore, Vivero Nuevo Destino”. Moyobamba, arroccato sulle Ande è conosciuta come “La Città delle Orchidee”, per via del gran numero di specie che crescono spontaneamente nelle campagne circostanti. Moore conobbe Kovach nel 1996. Cominciarono a parlare di orchidee e fra i due sbocciò presto l’amicizia. Del suo amico Kovach, Moore ricorda una sua frase ricorrente: “Lee, tu sei famoso perché hai un sacco di piante che portano il tuo nome, anch’io vorrei una nuova specie di orchidea a me intitolata”. Già nel 2001, Kovach, in uno dei suoi viaggi in Perù a caccia di nuove orchidee, ebbe modo di vederne alcune inusuali, ma non erano in fiore, e non le acquistò. Un anno dopo, nella primavera del 2002, Moore e Kovach si accordarono per ritornare insieme in Perù. Sull’aereo, oltre a Moore e Kovach, c’erano la moglie di Kovach, Barbara Ellison, ed un fotografo professionista. Pare che in quell’occasione l’obiettivo comune fosse quello di avviare un grande vivaio in società.
Gli effetti della mostra di Maiami Sono passati solo pochi giorni dal Redland International Orchid Festival di Miami, e quella strana orchidea esposta nello stand peruviano ha già scatenato la curiosità di tanti “cacciatori di orchidee”, tra i quali anche quella di Kovach, che già accarezzava l’idea di trovarla in sito, lui sapeva dove cercarla! Ed è così che il 26 maggio 2002, Kovach torna nuovamente in Perù. Questa volta è da solo. Giunto sul posto cerca Jose Mendoza, metà taxista e metà avventuriero, per andare a caccia di orchidee. Kovach propone di recarsi in una strada di montagna a lui nota, dove abitudinariamente gli abitanti della zona vendono orchidee ai bordi dei sentieri. Strada facendo, Jose Mendoza, racconta a Kowach di aver visto, in certi luoghi, delle piante di orchidea mai viste prima. Kovach, che non è l’ultimo arrivato nel mondo delle orchidee, si fa accompagnare subito in quel posto, per altro a lui già noto. Sono le 3:30 del pomeriggio, quando giungono a destinazione: un parcheggio per camion chiamato El Progresso, dove si radunano i contadini della zona per vendere poche cose ai passanti. Kovach butta l’occhio in giro e sul ciglio della strada scorge lo stesso “stand” visitato l’anno prima. Non vede gran che di interessante, con scarso entusiasmo sceglie un un paio di orchidee sistemate sopra il tavolo gestito da due giovani locali (fratello e sorella). La donna, forse ricordandosi di aver già conosciuto Kovach, lo invita a pazientare e si allontana di qualche metro. Torna poco dopo con tre piante – questa volta fiorite – dai grandi petali color rosa scuro. Kovach rimane incantato: “I fiori sembranoo appartenere a qualche specie di Phragmipedium” – esclama Kovach! “non ho mai visto nulla di simile prima d’ora, troppo grandi e troppo colorati sono i petali” – sussurra Kovach fra sé e sé. “3,60 dollari a pianta”, – più di sette volte quello delle normali piante esposte nella bancherella -. “prendere o lasciare” – esclama con tono perentorio la donna, convinta di fare un gran affare. Kovach le acquistò tutte e tre a prezzo intero. Al suo rientro alla base, Kovach andò subito a trovare il suo mentore ed amico Lee Moore. Quando gli mostrò le piante, Moore rimase stordito… il collezionista veterano si ricordò che Kovach bramava di avere un’orchidea con il suo nome ed esclamò: “Questa è la tua occasione… hai trovato la tua grande pepita d’oro, il Santo Graal delle orchidee”.
Le autorizzazioni Passata l’euforia del grande momento, Kovach si pose subito il problema dei permessi, ma Moore lo tranquilizzò: “in tutti i miei anni di spedizioni al Marie Selby Botanical Gardens per le identificazioni, nessuno ha mai chiesto i permessi” – precisò Lee”. Così, quando Kovach chiese cosa fare con la sue piante, Moore lo consigliò di recarsi da Selby. Quali pensieri attraversassero la mente di Kovach in quei momenti, è facile immaginarlo: egli vedeva già il suo nome in bella mostra nei libri scientifici. “Voglio che la pianta porti il mio nome, a qualsiasi costo” – era il pensiero fisso di Kovach, prima di tornare al suo Paese. Decise di lasciare due piante a Moore, la terza la nascose per bene in un tubo e la infilò nella sua valigia, destinazione U.S.A.
Marie Selby Botanical Gardens Sarasota U.S.A. foto 23 Christy Payne House è la sede per mostre temporanee di arte botanica e fotografia. Giunto negli U.S.A., Kovach, si recò ai giardini botanici di Marie Selby. I giardini si trovano nel contesto della ex casa di Marie e William Selby (della Texaco Oil Company) a 811 South Palm Avenue, nel cuore di Sarasota, Florida, Stati Uniti d’America. Le serre raccolgono oltre 10.500 esemplari di 92 famiglie di piante, con più di 600 generi, tra cui 4900 orchidee, 3600 bromeliacee, 660 aroids, 240 felci, 140 gesneriads, e 1300 altre piante. Marie Selby Botanical Gardens, pubblica anche una sua rivista scientifica (Selbyana), e si avvale del maggior numero di tassonomi certificati dall’AOS (American Orchid Society). Descrive e documenta una decina di nuove specie di orchidee l’anno.
Il sogno di Kovach Kovach consegnò la pianta a Wesley Higgins, primo responsabile del Marie Selby Botanical Gardens e la mostrò agli esperti presenti, che rimasero a bocca aperta. Kovach non chiese denaro, ma si accordò affinché il nuovo Phragmipedium fosse battezzato con il suo nome. L’evento creò un certo fermento al Marie Selby Botanical Gardens. La descrizione della nuova orchidea fu curata da due esperti, John T. Atwood e Stig Dalstrom e da Ricardo Fernandez (responsabile delle orchidee al museo di storia naturale di Lima in Perù). Ed è così che la nuova pianta fu nominata ufficialmente: Phragmipedium kovachii. Il 12 giugno2002, uscì un edizione speciale di “Selbyana” con la presentazione della nuova orchidea. La pubblicazione anticipò di pochi giorni l’articolo di presentazione di Erik Christenson con le descrizioni della stessa specie, uscì il 17 giugno 2002 su “Orchids” (rivista dell’American Orchid Society), con il nome Phragmipedium peruviano. Le autorità botaniche non accettarono il nome “peruvianum”; alcuni esperti (con motivazione assai discutibile), ricordarono che un nome simile era già stato utilizzato per altra specie (Phragmipedium peruviana), anche se non validamente pubblicato; trattasi di Phragmipedium richteri. Questi i fatti, Kovach realizza il suo sogno e pur non conoscendo nulla di questa nuova orchidea (habitat, coltivazione e agenti impollinatori) è ufficialmente il suo scopritore e la nuova orchidea porterà per sempre il suo nome (leggi della botanica). Costo della notorietà raggiunta, 7 dollari USA messi nelle mani callose di una povera ed ignara contadina peruviana. Ma la storia non finisce qui, anzi siamo solamente agli inizi. Il clamore suscitato da questa scoperta nell’ambiente orchidofilo internazionale, amplificato in senso negativo dalla disputa fra i due giganti (Selby e Christenson, ex dipendente Selby) comincia a mietere le prime “vittime”. Inizia la spasmodica raccolta di tutte le piante della nuova specie, presenti nel primo sito scoperto, che la porta velocemente all’estinzione in situ. Il Marie Selby Botanical Gardens sente il peso morale della azione, decisamente illegale, commessa dai suoi dirigenti responsabili e corre ai ripari. La direzione del giardino botanico, pur declinando qualsiasi responsabilità nella vicenda, decide di rispedire immediatamente in Perù, l’esemplare in suo possesso. Purtroppo anche in quest aazione, apparentemente riparatrice, si insinua l’ego del possesso: John Atwood, uno degli esperti incaricati di riconsegnare la pianta ai peruviani, la divide e porta con se un ceppo nel Vermont.
3. 8. Troppo tardi ormai per le azioni riparatrici: la “guerra” è dichiarata. Le autorità peruviane inoltrano formale accusa di esportazione illegale di orchidee protette dalla convenzione di Washington, contemporaneamente si attiva anche la polizia Americana con la mobilitazione delle sezioni abilitate alla difesa della flora e fauna in pericolo d’estinzione. Inizia l’indagine che vede Kovach, il Marie Selby Botanical Gardens, ed altri importatori americani, indagati. La pianta trovata presso John Atwood è confiscata e il Marie Selby Botanical Gardens, dopo averla negata per mesi, ammette la sua responsabilità: “non pensavamo che stavamo facendo qualcosa di sbagliato, ma l’abbiamo fatto, e ce ne dispiace” – ammise il Presidente Selby, Barbara Hansen. Nel frattempo in Perù continua la raccolta illegale di migliaia di P. Kovachii . I primi due siti conosciuti che ospitavano il Phragmipedium dai grandi fiori viola, risultano totalmente sterminati, in certi casi addirittura distrutti per far aumentare il valore delle piante già raccolte. Il busines illegale tocca anche il mercato europeo: 1000 dollari a pianta. Altre rimangono stoccate in vari viavi peruviani (per esempio presso Karol Villana del ”Vivero Agroriente”), in attesa di tempi migliori. Molte piante, vista la scarsa conoscenza colturale, muoiono.
Membri della Famiglia Villena dell’ Agroriente Viveros: da sinistra a destra, Karol (biologa e responsabile del vivaio), Milton, Mammma Tomi, Papa Renato, Milagros, Rodriguito, e Alex. Qualche persona ha cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica, sul grande patrimonio della flora e della fauna peruviana: Ecco il riassunto di una e-mail del 2003, inviata da Carol Villena a www.parkswatch.org: “Le orchidee della foresta sono state poco studiate… quasi due anni fa uno scienziato ha scoperto cinque nuove specie di orchidee solo campionamento sul ciglio della strada, e l’anno scorso la notizia della scoperta di Phragmipedium peruvianum ha fatto il giro del mondo ed è stata considerata la più grande scoperta del mondo delle orchidee la cui bellezza ha un grande potenziale genetico in ibridazioni. Purtroppo è stato scoperto dai contadini che non conoscevano il valore di questa pianta e sono stati utilizzati solo come strumenti di raccolta in sito per pochi soldi, mentre ciascuna pianta veniva venduta da $ 500 a 10.000 nel mercato nero! Credo che siamo ancora in tempo per salvare la foresta, e penso che misure immediate dovrebbero essere un enorme avvertimento o un segno, per informare che è vietato sradicare e acquistare le orchidee della foresta, e da subito bisognerebbe eliminare le bancherelle di vendita. E’ incredibile che un anno e mezzo dalla scoperta di questa specie e dopo lo scandalo del contrabbando che sta avvenendo con questa specie non si è fatto nulla… nel pomeriggio del giorno che eri qui, sono andata a visitare un negozio di artigianato che il comune ha aperto agli artigiani della città: lì ho trovato un paio di piante di questa specie, una di loro in fiore, raccolte da meno di un mese e appartenevano all’ attuale vice sindaco. Ho informato l’ingegnere che lavora presso la sede INRENA ( Instituto Nacional de Recursos Naturales) qui a Moyobamba, ma dopo due giorni dalla denuncia non era ancora intervenuto. Sono andata a trovarlo per avere notizie: “La pianta non c’è più”, mi ha detto. “Lei non mi ha detto il vero, e non voglio problemi con la stampa per quanto riguarda questa pianta” ha aggiunto. Non ti dà rabbia questo atteggiamento? E ti fanno passare anche per bugiarda!” In mezzo a tante difficoltà (il business illegale coinvolge anche le autorità peruviane preposte ai controlli), una spedizione di Harold Koopowitz individua una terza colonia di P. kovachii . Quel viaggio è l’occasione di un suo lungo articolo di denuncia, inviato alla rivista “Orchid Digest” (numero di Ottobre, Novembre e Dicembre 2003). La corsa al saccheggio era già nella fase acuta, si racconta di “pickup” carichi di grandi sacchi di juta, con diverse centinaia di enormi piante di P.kovachii, dalle grandi foglie fuori dalle cime dei sacchi senza alcun tentativo di nasconderle. Sembra che si siano impiegati perfino elicotteri per trasportare piante raccolte in zone impervie e le accuse si intrecciano. Vendita illegale di orchidee: bancherelle improvvisate, lungo i sentieri della foresta peruviana. Lee Moore accusa Faustino e stigmatizza la scarsa attenzione, se non connivenza con il mercato illegale delle autorità preposte ai controlli. Intanto, il famoso taxista Jose Mendoza, fiutato il business, batte a tappeto i terreni di Faustino Medina, e raccoglie tutte le piante che incontra, per poi venderle al mercato nero aiconcessionari in Ecuador e Lima. Per porre fine allo scempio, nel frattempo sono intervenute anche le autorità peruviane, accordando il permesso speciale ad un solo produttore locale (Alfredo Manrique Sipan), di prelevare 5 piante da questa colonia, al fine di riprodurre artificialmente la nuova specie. Ufficialmente, solo i figli di queste 5 piante di P. kovachii potranno essere commercializzati legalmente, ciò significa che sarebbero dovuti passare molti anni prima di poter vedere Phragmipedium kovachii fioriti, fuori dai siti della sua endemicità. Mentre sto scrivendo questo racconto, da allora sono trascorsi poco più di 10 anni e già agli inizi dell’anno si son viste piante fiorite in Europa: a poco è servita la decisione delle autorità peruviane. La località del sito individuato da Koopowitz è stata tenuta ufficialmente segreta, ciò nonostante la razzia attivata dalle potenti organizzazioni dei trafficanti abusivi, con la benedizione delle autorità peruviane, ha già saccheggiato anche questo ed altri tre nuovi siti. Di questo scempio, Josè Mendoza (il tassista di Kovach), Lee Moore e altri, sono stati i veri mattatori: i raccoglitori peruviani, in cambio di questo saccheggio che li vede primi artefici, hanno ricavato ben poco. Sembra che Kovach e Selby siano stati condannati a pagare somme abbastanza irrisorie più qualche condanna accessoria.
CAPITOLO 4 Orchidofili e botanici italiani: tre maestri di stile. 4.1. Viaggio fantastico fra le orchidee scoperte dal missionario salesiano di origini italiane (Castions – Friuli) Angelo Andreetta foto 26 Padre Andreetta, missionario Salesiano, è stato anche un grande portatore di umiltà e di aiuto agli “ultimi”, la sua opera spirituale ha camminato di pari passo con il suo amore per la natura, le piante e per l’appunto, le orchidee. Noi appassionati di orchidee, conosciamo il valore delle sue scoperte e del suo lavoro a favore di quel grande patrimonio presente in Ecuador, ma al di fuori del nostro magico mondo, pochi altri sono informati. La vocazione spirituale porta Padre Angelo Andreetta a vivere in Ecuador dove è presente il maggior numero di specie botaniche di orchidee esistenti al mondo. Siamo sul finire degli anni 30 del ventesimo secolo, quando questo paradiso della natura affascina il giovane Andreetta, giunto in quelle terre per istituire una missione salesiana. Avendo l’opportunità di attraversare anche le zone più vergini di quel Paese, Padre Andreetta si trova sovente al cospetto di estese colonie di orchidee. E’ così che nasce l’amore per queste piante, che lo porta a cercarle, raccoglierle e coltivarle nel giardino della sua missione. Padre Angelo Andreetta, con grande lungimiranza capisce che quel vasto patrimonio naturale presente in Ecuador può essere un’enorme opportunità di miglioramento delle condizioni di vita delle genti dei luoghi; lui non è il classico raccoglitore al servizio di qualche commerciante europeo e per questo cerca di coinvolgere nella sua opera, gli abitanti locali. Grazie al suo lavoro, nel 1968 l’Ecuador partecipa per la prima volta ad una mostra internazionale di orchidee in Colombia.
4.2. L’incontro con la famiglia Portilla Una delle famiglie ecuadoriane che inizialmente aiutarono Padre Andreetta nella coltivazione delle orchidee, fu quella dei Portilla, a quel tempo composta da padre, madre ed il figlio, Mario. Mario fu rapidamente catturato dall’amore per le orchidee di Padre Angelo. Padre Andreetta, nelle sue esplorazioni portava spesso con sé i due giovani Gualaceñi, Mario e José “Pepe” Portilla. Con il trascorrere del tempo, l’entusiasmo dei fratelli Portilla per quelle piante, li incoraggiò ad organizzare professionalmente la loro esperienza ed è così che prese forma una proficua passione per la coltivazione delle orchidee. foto 27 La sede attuale di Ecuagenera è a Gualaceo, ed è guidata da José Portilla, più popolarmente conosciuto come Pepe, con l’assistenza di alcuni suoi fratelli e nipoti. José Pepe Portilla ricorda con commozione, l’interesse di Padre Andreetta per la conservazione delle orchidee equadoriane e per la ricerca scientifica, ma per fare questo – spiega Pepe Portilla – abbiamo dovuto creare un’impresa, non è come negli Stati Uniti, in Ecuador nessuno ti dà i soldi per la ricerca. Per favorire la ricerca bisogna vendere piante – sottolinea Pepe, ed aggiunge – in Ecuador vivono oltre 4.200 specie, molte delle quali sono in pericolo di estinzione, Ecuagenera ha già contribuito alla descrizione di un migliaio di nuove specie, ma si potrà arrivare a 7.000, una volta che saranno scoperte e descritte tutte le specie endemiche nel nostro Paese. Nonostante gli spostamenti in varie missioni sparse per l’Ecuador, Padre Andreetta ha sempre mantenuto un forte contatto amichevole con la famiglia Portilla che, anche in sua assenza ha curato il giardino botanico di Bomboiza. Gli eventi hanno fatto sì che i Portilla si trasferissero a El Pangui, circa 35 Km più a sud, dove Mario ed suoi fratelli, con la benedizione esplicita di Padre Andreetta, hanno dato vita ad un piccolo vivaio di orchidee, ancora oggi in attività. Con il tempo, il vivaio della famiglia Portilla iniziò a crescere commercialmente e Padre Andreetta, per evitare le critiche dei suoi superiori si mise in disparte, assumendo il semplice ruolo di consulente.
Nel 1991, con il sostegno attivo di Padre Angelo, la famiglia Portilla avvia un nuovo vivaio di orchidee di Gualaceo, a metà strada fra Cuenca e Paute… nasce Ecuagenera. Il resto è storia dei nostri giorni: Ecuagenera è la prima azienda ecuadoriana ad ottenere il permesso legale per esportare orchidee. Oggi è la maggiore azienda esportatrice di orchidee dell’Ecuador e nel prossimo futuro sarà protagonista nell’organizzazione del World Orchid Conference 22° WOC a Guayaquil Ecuador nel 2017.
4.3. Padre Angelo Andreetta, un grande uomo.
Chiunque ami le orchidee e sia particolarmente affascinato dalle specie endemiche in Ecuador, deve essere a conoscenza del nome “Andreetta”. Padre Andreetta è conosciuto nell’ambiente orchidofilo mondiale soprattutto per la scoperta di un gran numero di orchidee, molte delle quali portano il suo nome. E’ nato in Italia, a Castions, Comune di Zoppola in Provincia di Pordenone ed è diventato missionario Salesiano in Ecuador.
I Salesiani sono presenti in Ecuador sin dal 1888. In questo paese hanno costruito strade, istituito scuole, hanno fondato ospedali ed hanno realizzato molte altre iniziative in favore delle genti dei luoghi. foto 28 E’ in questo contesto che Padre Angelo Andreetta giunge molto giovane in Ecuador sul finire degli anni 30. Egli ricorda che ci volle del tempo per abituarsi alla fauna selvatica della zona. Tuttavia, sin da subito nacque in lui un amore naturale per le piante e non poteva fare a meno di notare le meraviglie della flora tropicale che lo circondava.
Nei primi tempi si spostava sempre a piedi, e nei suoi viaggi era facile per lui, ammirare e raccogliere le piante lungo i sentieri, spesso conquistati a colpi di machete, per portarle nella sua missione a Bomboiza. Fra tutte le piante, quelle che più spesso catturavano i suoi occhi erano le orchidee. Nel lato est della sua missione aveva salvato una radura di alberi autoctoni dove ad ogni ritorno sistemava le orchidee che raccoglieva nelle varie esplorazioni; piano piano prese vita un piccolo angolo fiorito che crebbe rapidamente fino a diventare un giardino botanico. Andreetta è rimasto a Bomboiza per 25 anni, durante i quali la missione si sviluppò sia per dimensioni che per influenza, oltre che per la sua fama di giardino botanico delle orchidee. La sua memoria nel ricordare la posizione delle orchidee scoperte era fenomenale, Padre Angelo era in grado di andare mentalmente nei luoghi precisi, descrivendo con precisione anche i gruppi di alberi, dove aveva scoperto le sue Masdevallia o le sue Pleurothallis. foto 29 Egli racconta con genuino orgoglio, di aver visto Phragmipedium besseae, molto prima della sua scoperta ufficiale, e di aver individuato anche gli habitat di una rara e sconosciuta Anguloa color rosa, ma i suoi impegni in missione ponevano in secondo piano la sua passione, in fondo – dice -, prima o poi le avrei raccolte, purtroppo non sono stato in grado di farlo. Padre Andreetta, quale membro della congregazione dei salesiani, deve seguire le indicazioni della sua casa madre. Dopo 25 anni di permanenza a Bomboiza riceve l’ordine di trasferirsi a Quito, dove rimane per quattro anni, poi di nuovo verso sud a Cuenca. Cuenca è quasi a 3000 m di altitudine, molto più in alto rispetto a Bomboiza e quindi per mantenere il suo amore per le orchidee, deve costruirsi una piccola serra. Tuttavia, dopo altri quattro anni cambia ancora missione spostandosi a Paute, 30 km a nord est di Cuenca, dove continua la sua opera missionaria per oltre 25 anni, trascorrendovi anche gli ultimi della sua vita in semi-pensionamento e coltivando fino alla sua morte, avvenuta in settembre del 2011, la sua piccola collezione di orchidee composta principalmente da Cattleya coltivate in una serie di serre, per i loro fiori, che vendeva a livello locale allo scopo di raccogliere denaro da devolvere ad una chiesa, nella parte più povera di Cuenca. Il proficuo e spassionato impegno di Padre Andreetta, raccolse grande interesse che si materializzò in una specie di “cenacolo” scientifico e culturale, con botanici e ricercatori di fama mondiale come protagonisti. foto 30 Negli ultimi anni della sua vita, padre Andretta, ormai famoso nel mondo delle orchidee sudamericane, riceveva spesso le visite di botanici e studiosi di tutto il mondo. Indossava sempre un semplice abito grigio ed una camicia di lino bianca, il suo portamento era umile, e gentile. A chi gli chiedeva come mai una delle più belle specie di Masdevallia intitolate alla sua persona, portasse uno dei più angoscianti nomi di genere “Dracula“, lui, con fare scherzoso, puntava metaforicamente il dito contro il dottor Carl Luer, con il quale aveva collaborato alla descrizione di molte orchidee, soprattutto Pleurothallidinae, raccolte insieme nei loro viaggi. Per la Masdevallia, io proposi a Luer di nominarla “angelica” – rispondeva Padre Andreetta – in virtù del suo candore cristallino, ma Luer scelse il nome andreettana, mentre Dracula andreettae, era una specie già nota da alcuni anni in Colombia, seppur non ancora descritta, solo dopo la prima scoperta fatta in Ecuador del nord, vicino al confine colombiano da Alex Hirtz è stato possibile descriverla nuovamente da Luer.
Le orchidee nominate in onore di Padre Angelo Andreetta Padre Andreetta ha sempre avuto grande rispetto per il dottor Luer, ciò nonostante, in qualche caso si è trovato in disaccordo con lui su alcuni punti, soprattutto per quanto riguarda il genere Portillia, che è stato creato da W. Königer. L’unica specie del genere è Portillia popowiana Königer & JJ Portilla, ma Luer, considerandola semplicemente una Masdevallia, nella sua risistemazione delle Pleurothallidinae l’ha rinominata M. bicornis, ma in contrasto con l’opinione di Padre Andreetta che motivatamente ritiene la validità del nuovo genere monospecifico. Le specie di orchidee nominate in onore di Padre Andreetta, comprendono i seguenti generi: Masdevallia, Dracula, Brachionidium, Brassia, Chondroryncha, Cyrtochilum, Kefersteinia, Lepanthes, Lycaste, Mormodes, Porroglossum, Scaphosepalum, Stelis e Trisetella, inoltre sono anche state nominate a lui, due specie non appartenenti a generi di orchidee: Guzmania e Tillandsia.Molte altre orchidee sono state scoperte da Padre Angelo Andretta in collaborazione con Luer, il loro lavoro ha prodotto la classificazione e la descrizione di cinque Dracula, cinquantacinque Masdevallia, due Porroglossums, uno Scaphosepalum e due Trisetella. Anche un sub-genere monospecifico di Pleurothallis è chiamato Andreettaea, originariamente è stato considerato addirittura genere, ma si sa, ai botanici piace cambiare spesso i nomi, Padre Andreetta lo sa bene e sono convinto che li ha già perdonati. Chi ha avuto la fortuna di incontrare questo umile e grande uomo si deve considerare onorato, onore che avrei tanto voluto avere anch’io, ma le vicende della vita non me lo hanno concesso. Padre Andreetta è morto il 13 Settembre 2011, era nato a Castions di Zoppola (PN) Friuli Italia nel 1920. Caro Angelo, possiamo iniziarlo ora il nostro viaggio fantastico fra le tue orchidee. Avremo modo di ammirare alcune delle specie botaniche nominate in tuo onore, cercherò di non presentarle in fredde schede scientifiche, non mi piacerebbe e non ne sarei nemmeno capace, preferisco raccontarle mettendo insieme le notizie che sono riuscito a trovare, in certi casi ricche ed in altri un po’ avare.
Aetheorhyncha andreettae (Jenny) Dressler 2005.
Inizialmente questa nuova specie è stata descritta da R. Jenny, con il nome di genere Chondrorhyncha e con l’epiteto di specie andreettae, in onore del suo scopritore padre Angelo Andreetta: Chondrorhyncha andreettae Jenny, Orchidee (Hamburg) 40:92. 1989.
Successivamente, nel 2005, Dressler l’ha trasferita nel genere Aetheorhyncha. Nome riconosciuto valido ed attualmente accettato: Aetheorhyncha andreettae (Jenny) Dressler 2005.
Brassia andreettae foto 32 Brassia andreettae (Dodson) Senghas, Schlechter Orchideen I/C(33-36):2097 (1997). Specie scoperta da Padre Andreetta e da Alex Hirtz, a metà del mese di Maggio del 1988. Rimase in coltivazione nelle serre di Paute, 22 km a est di Cuenca sulla Río Paute Ecuador. Qualche anno più tardi, nel 1993, la pianta fiorita è stata descritta da Dodson, come Ada andreettae. Dodson collocò questa nuova specie nel vecchio genere Ada (sorella di Artemide, dea della caccia) descritto da Lindley nel 1853. Vive in Ecuador ad altitudini di circa 1800 metri. Pianta epifita di piccole-medie dimensioni, ama ambienti ombrosi caldi e primavere fresche. Ha uno sviluppo cespitoso con pseudobulbi avvolti da foglie basali e da un’unica, apicale, eretta, coriacea e lanceolata. In primavera spuntano racemi con molti fiori di 3 cm. Questa specie rimase poco nel genere Ada, nel 1997 Senghas la sistemò nel genere Brassia con il nome: Brassia andreettae (Dodson) Senghas 1997. Nel 2006 Szlach. & Górniak, la trasferirono in Brassiopsis andreettae(Dodson)Biodivers. Res. Conservation 1-2:12 (2006). Nome di genere attualmente accettato: Brassia andreettae (Dodson) Senghas, Schlechter Orchideen I/C(33-36):2097 (1997). Basionimo: Ada andreettae Dodson, Orquideologia 19: 777 (1993).
Dracula andreettae Dracula andreettae (Luer) Luer, Selbyana 2 (2-3): 193. 1978. Dracula, ovvero “piccolo drago” dall’aspetto intrigante dei suoi fiori e dalla sua passione per ambienti di vita umidi ed ombrosi. Questo genere appartiene alla sottotribù Pleurothallidinae, è stato creato dal Dr. Carl Luer nel 1978, per raggruppare alcune specie del genere Masdevallia con fiori pelosi e dal labello inusuale. Le prime specie furono scoperte nel 1870 nelle umide foreste della Colombia, dell’Ecuador e del Perù. Ci sono più di 100 specie conosciute, ma molte altre sono ancora da scoprire. Nell’ottobre del 1975, in collaborazione con Hirtz, Padre Andreetta scoprì una nuova specie di Dracula, sul declivio occidentale delle Ande a 1500-2000 m. di altitudine. La nuova specie fiorì in coltivazione a Cuenca, il 12 Luglio 1977. Il Dr. Luer inizialmente descrisse questa nuova specie assegnandole l’epiteto specifico “andreettae” ed inserendola nel genere Masdevallia, ma nello stesso anno (1978) la spostò nel genere Dracula. Dracula andreettae è una specie epifita da clima fresco, freddo. Vive nelle parti basse dei tronchi degli alberi formando ceppi di foglie guainate e coriacee, alla cui base si formano steli fiorali penduli che si aprono in tardo inverno.
Kefersteinia andreettae foto 34 Kefersteinia andreettae G. Gerlach, Neudecker & Seeger 1989. Sezione: Papilionatae Sinonimi: Kefersteinia salustianae D.E.Benn. & Christenson 1994. Questa specie vive nei boschi secondari in Ecuador e in Perù ad altitudini da 700 a 1500 metri. E’ una pianta epifita di piccole dimensioni a sviluppo cespitoso con le foglie a ventaglio, dalla loro base spuntano in qualsiasi periodo dell’anno, esili steli fiorali leggermente penduli, dotati di singoli fiori dal colore tenue e delicato. La prima specie del genere Kefersteinia è stata descritta nel 1852: Kefersteinia RCHB.F., Bot. Zeit. (Berlino) 10:633 (1852). = Zygopetalum sez.Kefersteinia RCHB.F., Walp. Ann. Bot. Syst. 6:657 (1861). Specie tipo: Kefersteinia graminea (LINDL.) RCHB.F.
Specie tipo del genere: Masdevallia uniflora Ruiz & Pavon 1798. Masdevallia andreettana vive nel sud-est dell’Ecuador ad altitudini che vanno da 1.400 a 2100 m. Specie epifita, nel suo habitat vive a temperature diurne di 13-20 C e 9-13 C notturne. Pianta di piccole dimensioni (4 – 5cm). I fiori, grandi, candidi e delicati misurano 3 cm di larghezza ed hanno la punta del labello di colore rosso.
Mormodes andreettae foto 36 Mormodes andreettae Dodson 1982 Specie endemica in Colombia e in Ecuador nelle foreste montane molto umide ad altitudini da 400 a 1500 metri. Pianta epifita di piccole dimensioni da clima caldo. Sviluppa un breve rizoma lungo il quale si formano diversi pseudobulbi carnosi e rigonfi, avvolti da numerose guaine basali e da foglie ellittiche, acute, sottili, plicate, distiche e decidue. Quando gli pseudobulbi maturi si spogliano, dai loro nodi spuntano le infiorescenze dalle quali emergono grandi fiori in tarda primavera.
Odontoglossum x andreetteanum> Odontoglossum x andreetteanum Ibrido naturale (O. harryanum x O. praestans). Pianta descritta dai botanici Stig Dalström & Gilberto Merino, nel 2009.
“Soltanto un artista potrebbe trovare le parole e gli aggettivi per descrivere le stupende piante che appartengono a questa tribù di epifite. Si dovrebbero fare paragoni con le piume, gli elfi dei boschi, o con le farfalle e le viole, con i monili in filigrana e figurine uscite da un balletto classico. Si dovrebbero ricordare i dorati raggi del sole, oppure gli incanti delle notti di gelo. Una volta messe insieme le lettere per dire tutto ciò, le lettere formerebbero le parole Odontoglossum, Oncidium e Miltonia, che sono i membri più importanti di questa tribù.” Così descrisse le piante appartenenti a questa grande tribù, Rebecca Tyson Northen, dolcissima interprete e profonda conoscitrice del fantastico mondo delle orchidee.
Phragmipedium andreettae Phragmipedium andreettae Cribb & Pupulin in Lankesteriana, 6(1): 1-4 (2006) Descrizione originale della nuova specie, in latino: Species affinis Phragmipedio fischeri Braem et H. Mohr sed foliis angustioribus, 1.2-2 cm latis (2.5-3 cm latis in P. fischeri), floribus pallide roseis vel albis, petalis ellipticis vel obovatis marginibus reflexis, sepalo dorsali margine reflexo, labello angustiore, 1.2-1.4 cm diametro (1.5-1.7 cm diametro in P. fischeri) pallido roseo, staminodio longiore quam latiore obtrullato ad apicem minute bifido distinguendo. Tipo: NW Ecuador, sine prov., hort. Ecuagenera, November 2005, Portilla Phragmipedium andreettae è stato scoperto nel nord-ovest dell’Ecuador. La nuova specie è strettamente legata al P. fischeri, dal quale differisce per le foglie più strette, i fiori bianchi al rosa pallido, i petali ellittici, il sepalo dorsale stretto, il labello rosa pallido e lo staminode più lungo che largo con bifidi all’apice.
Specie di piccole dimensioni a portamento cespitoso, trovata come epifita in una catena montuosa nel sud-est dell’Ecuador a 1.400 metri di altitudine. Luogo di scoperta: Prov. di Morona-Santiago: foresta nebbiosa di Cutucu, alt. 1400 m, ottobre 1983. Scopritori A. Antreetta & M. Portilla, fiorita in coltivazione 16 MARZO 1984. Scaphosepalum andreettae è ben distinguibile dalla altre specie dello stesso genere per la sua piccola dimensione. Anche i fiori sono piccoli, mostrano il sepalo centrale membranoso, con margini revoluti, i piccoli cuscini pubescenti dei sepali e petali laterali, con apici ottusi trasversalmente. Fiorisce in primavera formando infiorescenze racemose con sottili brattee tubolari ed i fiori appena sopra le foglie.
Scuticaria salesiana Scuticaria salesiana Dressler Specie descritta da Robert Louis Dressler e dedicata alla congregazione dei salesiani, ordine a cui appartiene padre Angelo Andreetta, scopritore della pianta. Specie endemica nel sud-est dell’Ecuador e del Perù in foreste montane molto bagnate ad altitudini da 600 a 1300 metri. Pianta epifita di grande dimensione da clima caldo. Si sviluppa formando pseudobulbi molto brevi con un’unica foglia apicale, cilindrica e solcata. Alla base delle foglie degli pseudobulbi maturi, in estate si formano singole infiorescenze.
Sudamerlycaste andreettae Sudamerlycaste andreettae (Dodson) F.L. Archila 2002. Sezione: Fulvescentes Oakley 2008. Questa specie è inizialmente descritta con il nome di genere Lycaste dal Dr. Dodson (1982). Nel 2002, Archila la trasferisce nel nuovo genere Sudamerlycaste, nome di genere attualmente accettato. Nel 2008, Oakley la include nel genere Ida, ma è considerato un sinonimo. Sinonimi: Ida andreettae Oakley 2008.; Ida andreettae var. pallida Oakley 2008.; Lycaste andreettae Dodson 1982. Specie endemica in Venezuela, Colombia, Ecuador e Perù, vive come terrestre sulle ripide scarpate stradali e sugli scogli a quote intorno al 1870 metri come pianta di grandi dimensioni. Ama climi freschi, si sviluppa formando pseudobulbi piriformi, increspati, con tre foglie plicate, ellittiche e fiorisce nel mese di aprile con l’inizio della nuova vegetazione, su infiorescenze erette e lunghe circa 20 cm.
Piccola specie epifita a sviluppo cespitoso, vive nel sud dell’Ecuador, nelle foreste pluviali lungo i ruscelli, ad un’altitudine di 1600 metri con fusti eretti avvolti da 2 a 3 guaine tubolari che portano una sola foglia apicale, coriacea, strettamente ellittica, subacuta con pigmentazioni color violaceo nella parte inferiore. I fiori si formano su un esile stelo, eretto, lungo 30-40 mm. e si aprono in successione.
4.6.Franco Pupulin, una vita per le orchidee foto 43 Franco Pupulin è nato ed ha trascorso gli anni della sua gioventù ad Arcisate, nei pressi di Varese. Il suo primo incontro con le orchidee è stato del tutto casuale, così come è capitato a tanti altri appasionati. Io ad esempio, sono “caduto nella trappola delle orchidee” donando una pianta di Cymbidium a mia moglie. Franco, ancora adolescente, per conquistare la sua fidanzata, pensò di regalarle un fiore. Acquistò una pianta di Phalaenopsis nel negozio annesso alle serre di Villa Cicogna. Franco rimase ammaliato da quella pianta, nella sua mente, già si statva insinuando quel “virus” che ti porta alla completa dipendenza dal loro fascino. Quella pianta non la regalò alla sua “morosetta”, diventò la prima della sua collezione di Phalaenopsis. Iniziò così quel lungo viaggio nel mondo e nello studio delle orchidee. Finiti gli studi cominciò a frequentare i paesi del centro america e nel 1997 si trasferì in Costa Rica, paradiso delle orchidee dove ora è direttore del Centro di Ricerca sulle orchidee Andine “Angel Andreetta” in Ecuador, ricercatore associato del Mary Selby Botanical Garden in Florida e collaboratore dell’Università della Florida della Università di Harvard e dei Royal Botanic Garden Kew. Molti sono i suoi studi sul riordino tassonomico delle orchidee del centro america, che lo hanno portato anche a scoprire nuove specie endemiche in quei luoghi. Non basterebbero le poche righe di un paragrafo per raccontare tutto il suo valore nel campo dell’orchidologia mondiale, mi limiterò a presentare una nuova orchidea batezzata con il suo nome.
foto 44 Trichocentrum pupulinianum Bogarín & Karremans 2013. Il Costa Rica con tutta la sua biodiversità è sicuramente un territorio molto interessante da esplorare per biologi, ricercatori e botanici. Già nel 19° secolo il ricercatore Auguste R. Endres trascorse sette anni alla scoperta, ricerca e raccolta della flora endemica del Costa Rica, in particolare orchidee. Nei suoi viaggi attraverso i Caraibi, descrisse una specie di orchidee del genere Trichocentrum. Più tardi, altri ricercatori trovarono una specie simile nel Sud del Pacifico e le assegnarono lo stesso nome di quella scoperta da Endres. Errore. Non era lo stesso fiore, affermò Diego Bogarin, ricercatore dell’Orto Botanico Lankester, Università di Costa Rica. Le specie “mascherata” è stata recentemente descritta e rinominata da Bogarin e dal suo compagno di squadra Adam Karremans come Trichocentrum pupulinianum. La nuova scoperta non è stata casuale, ma è il risultato di cinque anni di sforzi, durante i quali gli scienziati, tra i quali anche Franco Pupulin, prima effettuarono una analisi storica sulle ricerche di Endres e poi una valutazione morfologica delle specie situate nel sud del Pacifico. Endres, ad esempio, non ha mai esplorato la regione del Pacifico del Costa Rica. Gli esperti hanno stabilito che “l’orchidea situata nella regione atlantica era diversa da quella del Pacifico”. Pertanto è stato deciso di rinominarla: Trichocentrum pupulinianum in onore del botanico italiano Franco Pupulin, importante ricercatore al Lankester Botanical Garden e studioso del genere Trichocentrum.
4.7. Enzo Cantagalli, una grande figura del collezionismo orchidofilo italiano Il Presidente Enzo Cantagalli, alla mostra di S. Daniele del Friuli 1994 foto 45 Enzo Cantagalli, vive a Pieris in Provincia di Gorizia. La passione per le orchidee, si insinua nei suoi interessi hobbistici e culturali, alla fine di un percorso che lo vede come tanti altri, sensibile al meraviglioso mondo della natura e dei fiori in generale. La sua formazione esprime l’influsso della tipica famiglia borghese, collocata nel contesto storico della prima metà del secolo scorso, in una parte dell’Italia molto provata dalle vicende socio politiche che hanno segnato profondamente pensieri ed azioni delle sue popolazioni. Enzo Cantagalli, si laurea presto in chimica e questa sua preparazione professionale sarà forse la molla che lo porterà, più avanti, ad immergersi nel magico mondo delle orchidee. La mia conoscenza con Enzo avvenne all’inizio degli anni ottanta quando, sprovveduto neofita alla ricerca di consigli, trovai il suo numero di telefono (allora non c’era internet), provvidenzialmente riportato in appendice del famoso libro di Rebecca Tyson Northen: LE ORCHIDEE. Ricordo che a quei tempi, nel mio tentativo di organizzare i pochi appassionati che c’erano in zona, trovai totale disponibilità nel dr. Cantagalli, manifestata sin da subito con impareggiabile signorilità intellettuale. Ricordo il primo incontro e soprattutto le forti sensazioni che provai entrando nella la sua serra al cospetto della sua collezione di orchidee. Enzo mi raccontò del suo impegno nel mondo amatoriale, mi parlò del lavoro associativo di un altro appassionato di orchidee, Mario Dalla Rosa, ex pilota Alitalia e Presidente dell’allora S.I.O. (Società Italiana Orchidee), ed insieme facemmo una carrellata di possibili coltivatori dilettanti da contattare. Praticamente, nacque l’embrione della prima Associazione orchidofila nel Triveneto. Riuscimmo a mettere insieme il numero sufficiente di persone per poter costituire l’associazione. Una sera ci trovammo a Oderzo (Treviso) nello Studio Notarile del Dr. Helio Pierotti, emerito entomologo – sono un entomologo che per vivere fa il notaio – così amava presentarsi agli amici, e in quell’occasione, oltre alla stipula, ci fece anche una cortesia infinita: non ci chiese il conto. Il Dr. Cantagalli, divenne il primo Presidente dell’associazione: era il 1987. Con il passare degli anni, come in un film, si sono accavallarono varie vicende, ma le esperienze e gli insegnamenti maturati insieme, crearono una proficua scuola di pensiero, valida ancor oggi, dentro e fuori delle associazioni: la mutualità. In altre parole, lo scambio o la semplice donazione di proprie piante agli amici, e non da ultimo il proselitismo: divulgare, consigliare, mostrare e socializzare liberamente, con l’obbiettivo di alimentare un magico rapporto fra orchidofili e orchidee. In buona sostanza, l’associazionismo, quale strumento propedeutico che elimenta la passione per le orchidee. A volte può capitare di vedersi rompere quel rapporto magico, creato con loro, ed allora la magia si tinge di tristezza. Quando si inizia l’avventura con le orchidee, spesso ci si perde subito per strada, più raramente si crea una bella collezione, che cresce attorno a te e quasi ti avvolge, ma il suo mantenimento richiede sempre la tua presenza, il tuo amore e la tua passione. Le insidie sono enormi e le occasioni di sconforto ti assalgono quasi giornalmente. Molti sono gli aneddoti di fallimenti, di grandi collezioni finite e di sacrifici buttati al vento. La collezione di orchidee invecchia insieme al suo collezionista è la legge della vita.
4.7. Visita alla collezione di Enzo, l’ultima. Quanti bei ricordi abbiamo vissuto insieme a Enzo Cantagalli in tanti anni di frequentazioni. Ricordi fatti di visite, di reciproci incontri conviviali, e soprattutto di gioviali momenti amichevoli. Enzo coltiva orchidee da una vita, la sua età ha superato la ottantina da un bel po di tempo. La sua collezione di orchidee è stata splendida per anni, e per molti di noi è stata la fonte dei nostri desideri, l’occasione per assaporare la magia e per attingere a piene mani, saggezza e consigli. Col passare degli anni, però, la sua sfida con le orchidee si è fatta sempre più difficile e da qualche tempo, forse, Enzo sta mollando.
foto 46 La foto a sinistra ci sorprende insieme, nel suo giardino solare. Ho scelto un sabato pomeriggio soleggiato e caldo per far visita a Enzo Cantagalli. L’occasione è stata quella di portargli qualche sacco di bark per i rinvasi. Enzo mi telefonò ancora in maggio per chiedermi del bark. Al telefono parlai anche con Maria, sua moglie, e fu lei a dirmi, in dialetto giuliano: “Guido, adesso xe la Livia (sua figlia) che cura le orchidee, Enzo non vol più andar in serra”. La frase mi sorprese, ma rimandai ogni considerazione alla visita, che di li a breve avrei sicuramente fatto a casa loro. Per la verità passò del tempo prima che riuscissi a percorrere quei 100 chilometri e passa, che dividono le nostre residenze. Sabato finalmente mi misi in viaggio. Decisi di evitare l’autostrada, quasi a volermi godere la vecchia strada statale che porta a Trieste, bella, quando c’è poco traffico. Giunsi a Pieris verso le 17 e fui accolto da Enzo con un abbraccio caloroso. Ad attendermi c’era anche la moglie Maria e la figlia Livia. Seduti nella loggia che da sul giardino abbiamo conversato amabilmente, un po di “amarcord” e poi…le orchidee. “Enzo, andemo in serra?” – Chiedo io – questa era la frase di rito che dava il la alla nostra “immersione nella sua serra” in occasione delle numerose visite, ma questa volta la sua risposta fu distaccata e per certi versi anche attesa: “Guido, xe più de un mese che no vado in serra, no so cossa che me sucedi, ma con le orchidee no go più interesse, preferisco far qualche giereto in bicicletta dentro le grave dell’Isonzo”- rispose Enzo. Maria, sua moglie, confermo: “Sì, ora xe la Livia che la segue tutto, ma ela la lavora”- Livia intanto annuiva e i suoi occhi lasciavano trasparire un certo orgoglio misto a timore di non riuscire nell’impresa. Si continuò a conversare e improvvisamente Enzo esclamò: Ti vol che andemo in serra? – varda che xe na disperassion!” – Non me lo faccio ripetere due volte, e quasi a voler sdrammatizzare, rispondo: “Dai che andemo, chissà che non trova qualche specie che me manca!”.
4.8. In serra La serra un po stanca, mostrava qualche problema, ma complessivamente la trovai ancora in forma. I bancali delle Cattleye con evidenti segni di trattamenti contro la cocciniglia, quella maledetta cocciniglia che da anni faceva impazzire Enzo, bellissimi esemplari di tillandsia, una bellissima pianta di Oncidium flexuosum in fiore, ma ecco, la, lungo la parete, uno splendido esemplare di Bifrenaria inodora in fiore: “Stupendo”! – esclamo: “Ce ne sono due piante” – risponde Livia, quasi sorpresa.
L’abbiamo fotografata, ovviamente, eccola in giardino.
Bellissimo esemplare, Enzo mi chiese più volte se io lo avevo. Ho questa specie nella mia collezione ed è proprio il frutto di una divisione donatami da lui qualche “visita” fa. Però ho riflettuto prima di rispondere affermativamente…lui avrebbe avuto il piacere di regalarmene una, ma ho pensato che quelle orchidee fiorite, dovevano rimanere nella sua serra, magari per tenerlo ancora vicino alle orchidee, ma forse Enzo stava già consegnando il testimone, con stile e discrezione, a sua figlia Livia. Era una calda giornata dell’Agosto 2008. I presagi c’erano tutti, nella mente di Enzo si stava insinuando quella malattia subdola che mina gli anni dell’età matura. Due anni dopo, eravamo nel mese di luglio del 2010, quando mi recai a far visita al carissimo amico Enzo. La sua mente è già entrata nella galleria buia che, seppur non a breve, porta alla fine. Non mi ha riconosciuto, ma un flebile impulso aleggiava comunque nell’aria. Molti momenti intensi mi sono passati per la testa in quelle due ore trascorse in compagnia, insieme a sua moglie e sua figlia. I ricordi ci hanno portati alle sue passioni, le orchidee, la botanica, la musica, sì anche la musica e la grande raccolta di dischi al vinile, ascoltati molte volte in quel grande mobile in radica che chiamavamo “radio-giradischi”. Frank Sinatra… grande Frank!! Sono ritornato a casa felice come le altre volte, quando ci si trovava nella sua serra piena di orchidee, si beveva un bicchiere e si parlava del nostro mondo. Ora è vuota quella serra. Però questa volta non sono tornato con qualche divisione delle sue orchidee, solo la sua raccolta di riviste: Orchids, Caesiana, Orchid digest, con l’impegno di conservarla, insieme ad un grosso nodo alla gola, lo stesso che mi divora mentre scrivo. Enzo ci lascia il 24 ottobre 2013, all’età di 90 anni.
Mamma mia! La tassonomia, storie e discussioni.”Meliora sunt vulnera diligentis, quam fraudulenta oscula odientis”. Ho semplicemente cercato di approfondire la correttezza tassonomica di un nome di specie, e mi son trovato a incrociare personaggi e storie, senza per altro raggiungere la certezza di aver trovato il giusto nome alla mia profumatissima “Maxillaria bianca”. Forse sì! Una storia che merita di essere raccontata. Non aspettatevi una recensione scientifica e lasciatemi ondivagare fra il sacro ed il profano, così come si usa fare quando ci si inoltra immeritatamente nei “campi” dei botanici e dei tassonomi.
Maxillaria sp. collezione rio Parnasso.
La storia inizia nel mese di novembre del 2001. Sto camminando fra i sentieri della serra e ad un certo momento, mi avvolge un’aroma intenso, fresco come gli odori dei prati coperti di rugiada, quasi a far sentire il sapore delle mandorle. “Eccola, è quella” – esclamo stupito per quei fiori bianchi, delicati e leggiadri, che all’improvviso si materializzano davanti ai miei occhi.
Era la prima fioritura di una piccola orchidea, della quale non riuscivo a ricordare nemmeno la sua provenienza. Come si usa fare quando la memoria ti tradisce, guardo il cartellino, una piccola eticchetta con su scritto nome di genere Maxillaria, seguito da un altro epiteto leggibile a fatica, che allora interpretai come “tiaraensis”. Cercai, ma trovai poco su internet, quasi nulla se non questi dati: Maxillaria tiaraensis Carnevali & G.A.Romero in G.A.Romero & G.Carnevali, Orchids Venezuela, ed. 2: 1140 (2001). Nessuna fotografia, e nella mia bibliografia cartacea, niente descrizioni di riferimento. Tanto erano affascinanti quei delicati fiori bianchi, quanto misteriosi che fu inevitabile cercare di risolvere l’enigma. Analizzando le foto disponibili su internet, le specie che potevano confondersi con l’orchidea misteriosa scovata in serra, erano: Maxillaria splendens, oppure Maxillaria ocroleuca, ed anche Maxillaria confusa. Il nome di quest’ultima specie mi pareva interessante, ma in definitiva, mancando una foto di comparazione con la fantomatica “Maxillaria tiaraensis” tutto rimase in sospeso… forse mi piaceva quel nome e quello che evocava: probabilmente il nome di specie “tiaraensis” fa riferimento al suo luogo di endemicità “TIARA Venezuela”. Tutto risolto? No di certo, la scienza tassonomica non va dove ti porta il cuore, esige dati certi e verificati. Nel novembre del 2013, riproposi il quesito con questo post e in quell’occasione giunse un aiuto, che subito non presi in considerazione ed anche allora la “dama bianca” rimase nel limbo della tassonomia.
Mostra di Treviso
Ed è così che arriviamo ai giorni nostri e precisamente al 6 di novembre 2015 in occasione della preparazione della mostra orchidofila di Treviso. La fase di cernita delle piante da portare in esposizione è sempre caotica e faticosa. E’ mio costume tirar fuori dalla serra tutte le piante in fiore, ed eccola lei, bella fiorita, per la verità non del tutto, ma già carica di fiori aperti, tanto da guadagnarsi il suo bel posticino nel set espositivo.
Senza avere in mente tutta la storia della bella Maxillaria bianca, la presentai per il giudizio: era così bella ai miei occhi che non pensai alle sue incertezze tassonomiche. Ricevette anche un premio, ma il dubbio sulla sua genealogia aleggiava nell’aria, e rimase anche a mostra terminata. Povera lei, il premio se l’è meritato tutto, ma quel tarlo non risolto del nome, mi consigliò di riprendere le ricerche e di chiedere ai giudici di togliere la pianta dalla lista dei premi, in attesa di trovare la sua giusta sistemazione tassonomica. Le nuove ricerche Ripresi in esame la “pista” venezuelana di Tiara, che si dimostrò subito non foriera di risposte: non ci sono foto e quindi la abbandonai definitivamente. Rifeci la comparazione con M. confusa, M. splendens, M. ocroleuca ed altre similari, ma il colore pallido del labello dei fiori della mia pianta, le mise subito fuori del gioco. Decisi di documearmi sugli studi sulla tassonomia di Eric A. Christenson. Siamo nel mese di Maggio del 2010 quando Eric Christenson nella sua ultima visita alla serra di Patricia A. Harding, Michael McIllmurray, ebbe modo di osservare una Maxillaria fiorita, a suo avviso da considerarsi nuova specie.
Il personaggio
Alston Eric Christenson nasce nel 1956 a Westport
(Connecticut) e muore nel mese di aprile del 2011. E’ stato un botanico
specializzato nello studio e nella coltivazione delle orchidee. Nel 1986
ottiene il dottorato in Filosofia all’Università del Connecticut,
discutendo la tesi dal titolo “Una revisione tassonomica del genere
Aerides Lour.
E’ opinione diffusa che Eric Christenson avesse una super memoria, dote
che gli consentiva di poter relazionare su fatti ed eventi, senza
bisogno di consultazioni.
Questa sua capacità di classificare, e di ricordare ha aiutato
Christenson a diventare un botanico di fama mondiale: a lui vanno
ascritte le prime descrizioni di centinaia di nuove specie di fiori, in
particolare orchidee.
Christenson è morto nella sua casa di Bradenton per cause sconosciute. Aveva 57 anni e soffriva di diabete.
Era già una delle autorità più importanti sulle orchidee, ma la sua
notorietà è aumentata a dismisura dopo la famosa disputa con gli
scienziati del Marie Selby Botanical Gardens nel 2002.
Christenson e Selby erano entrambi in corsa per diventare il primo a
descrivere una nuova specie, considerata il “Santo Graal” del mondo
delle orchidee: il famoso Phragmipedium peruviano dai fiori colore pesca e-viola. La storia è nota e a distanza di anni, i fatti di allora suonano come cose andate: entrambi i protagonisti sono morti.
“Egli era ben conosciuto prima di allora, ma l’incidente “kovachii” lo
ha reso famoso in tutto il mondo”, ha detto Marni Turkel, un coltivatore
di orchidee dalla California e suo amico di lunga data.
Christenson non ha mai perdonato i funzionari Selby, e denunciava
pubblicamente il loro comportamento. A onor del vero va anche rilevato
che la sua riluttanza a perdonare e dimenticare, faceva parte del suo
carattere e della sua continua ansia a denominare nuovi fiori: “Il carattere dell’uomo è il suo demone”. (Eraclito)
Questo suo carattere lo ha reso abbastanza solo negli ultimi anni della sua vita.
“Come tassonomista, era favoloso, assolutamente brillante”, ha detto
Turkel. .. “Ma lui non ammetteva mai di sbagliare… il suo demone, per
l’appunto.
Ed è in questo quadro che prende sostanza l’ipotesi che la descrizione di Christenson, fatta prendendo in esame la Maxillaria
dei signori Patricia A. Harding, Michael McIllmurray, per molti aspetti
può risultare utile per confrontare le caratteristiche morfologiche
della bella Maxillaria bianca, reduce dalla mostra di Treviso.
La descrizione appare su Orchideen Journal del 18 settembre 2012, a cura della “Vereinigung Deutscher Orchideenfreunde”.
Christenson descrive una nuova specie di Maxillaria – quella che ha avuto in esame nella serra di cui sopra – e la denomina: Maxillaria fraudulenta.
Anche in questo caso, il nome assegnato da Christenson alla nuova specie
è tutto un programma: lui motiva l’epiteto latino “fraudulenta”, per
evidenziare la propensione della stessa a mascherarsi rispetto alle
altre sorelle similari.
Ecco nel testo integrale, le osservazioni di Christenson.
“A new species of Maxillaria (Orchidaceae) from Ecuador and Peru Eric A. Christenson † Abstract: Maxillaria fraudulenta, a new species from Ecuador and Peru is described. Key Words: Maxillaria fraudulenta, Orchidaceae, Ecuador, Peru. Published: 18.09.2012; 22:00h (MEZ) OrchideenJournal ISSN Number 1864-9459 A beautiful white-flowered species of Maxillaria from Ecuador and northern Peru has been consistently misidentified as M. confusa Ames & C. Schweinf., M. grayi Dods., and M. jucunda Lehm. & Kraenzl. It is described here as a new species, M. fraudulenta Christenson. In addition to distinct floral features, M. fraudulenta is immediately sepaated from those species by its very different, short-petiolate leaves. Maxillaria fraudulenta Christenson, spec. nov. TYPE: ECUADOR. Commercially exported without locality data, flowered in cultivation in England, M. McIllmurray E-29 (holotype: K). Species haec Maxillaria grayi Dods. similis sed brevipetiolaris, sepalis lateralibus nondecurvatis in medio differt. Caespitose epiphytes or terrestrials. Pseudobulbs ovoid-ellipsoid, compressed, 4.5 x 2.7 cm, with an additional neck 2.5 x 0.7 cm, subtended by 1-2 foliaceous bracts, the bracts subsimilar to but smaller than the leaves. Leaves one, elliptic, petiolate, acute, the petioles strongly bilaterally compressed, 5-6 cm long, the blades 29-30.5 x 5.7 cm. Inflorescences a flush of several erect scapes produced from mature pseudobulbs with the onset of new growth, the peduncles 5.8-9.5 cm long, the floral bracts elliptic, acute, subequal to slightly longer than the ovaries, to 2.2 cm long. Flowers fragrant (“strong grassy scent” according to McIllmurray), white, the junction of the column foot and lip pale orange, the lip pale lemon yellow. Dorsal sepal oblong-elliptic, obtuse, arching, with revolute lateral margins, keeled at the apex, 2.4-2.9 x 0.6-1 cm, the lateral sepals oblong-ovate, obtuse, strongly divergent, spreading, with revolute lateral margins, 2.5-2.9 x 1-1.1 cm. Petals obliquely lanceolate, acute, inflexed, 2-2.5 x 0.6 cm. Lip unlobed, ovate, obtuse, arching, 1.7 x 0.8 cm, the disk covered with pale lemon yellow farinaceous trichomes, the callus ligulate, obtuse-rounded, shallowly sulcate, from the base of the lip to slightly above the middle. Column arching, 1.1 cm long, the clinandrium minutely irregular, the column foot 0.8 cm long. Pedicel and ovary 6-sulcate, 1.7 cm long. Etymology: From the Latin fraudulent, referring to its masquerading as different species in botany and horticulture. Paratypes: ECUADOR: Napo, km 15, Cotundo to Hollin, 1100 m, 17 June 1983, C. H. Dodson et al. 14013, SEL; Pastaza, 2.5 km N of Mera on the Banos-Puya road, Hacienda San Antonío Baron von Humboldt, 1050-1300 m, 14 Mar 1985, C. H. Dodson & L. M. Bermeo 15680, MO! 1 Maxillaria fraudulenta was first illustrated by Dodson and Dodson (1989) as M. jucunda Lehm. & Kraenzl. It is clearly not M. jucunda (TYPE: ECUADOR. Near Cuchibamba, Andes east of Cuenca, 1000-1050 m, F. C. Lehmann 6554, holotype: B, destroyed; isotypes: K). The petioles of M. fraudulenta are 5-6 cm long in contrast to those of M. jucunda which are 11-12 cm long. In addition, the lip of M. jucunda was described as brown spotted (“fusco-maculatum”) and I have not seen any material of M. fraudulenta with any anthocyanin pigments on the lip. Maxillaria confusa is known from Belize to Colombia. It differs from M. fraudulenta by having cupped flowers with the sepals and petals subparallel, like your fingers when you hold a ball with your fingertips. The lateral sepals of M. confusa have flat margins unlike the characteristically revolute margins seen in M. fraudulenta. The lip of M. confusa is nearly straight and has just a few scattered trichomes unlike the conspicuously arching lip of M. fraudulenta covered with lemon yellow farinaceous trichomes. Finally, the undersurface of the lip of M. confusa is variously marked with reddish purple in contrast to the unmarked lip of M. fraudulenta. Foto : Michael McIllmurray , holder of the British National Plant Collection of Maxillaria Species. I considered the first few plants of M. fraudulenta I examined to be a simple variant of M. grayi, differing mostly in the attitude of the lateral sepals. As more samples became available, however, it became clear that there were other consistent differences. The lateral sepals of M. grayi in addition to twisting above the middle, are held at a downward angle at the point of insertion. In contrast, the lateral sepals of M. fraudulenta are strongly divergent and held at to each other. But more significantly, the petiole3 length separates the species. Maxillaria fraudulenta has petioles 5-6 cm long in contrast to the elongate petioles of M. grayi which range 2 from 14-25 cm long. The type description of M. grayi cites shorter petioles as well but these are from the foliaceous bracts subtending the pseudobulbs and not the true leaves terminating the pseudobulbs. Finally, M. fraudulenta is also similar to M. dalessandroi Dods. But that species has a very differently shaped flower, a 3-lobed lip, and an emarginated (notched) lip apex.”
Questa pubblicazione non validò subito la nuova specie, si dovrà aspettare il 2013 con la pubblicazione della momografia sulla revisione del Genere Maxillaria.
,Osservazioni Seppur dettagliata, la descrizione di Christenson risolve solo in parte i raffronti morfologici, ad esempio: 1) – nella relazione, quale elemento dirimente, si evidenzia la presenza e/o la lunghezza dei piccioli (manici delle foglie) nelle varie specie in esame. In questo caso siamo vicini alla M. fraudolenta (lunghezza del picciolo 5 cm.) 2) – Maxillaria confusa si differenzia da M. fraudulenta avendo fiori a coppa con sepali e petali subparalleli, come quando si tiene una palla con la punta delle dita. I sepali laterali di M. confusa hanno margini piatti a differenza dei margini tipicamente revoluti in M. fraudulenta. Il labello di M. confusa è quasi dritto e ha pochi peli sparsi a differenza del labello vistosamente inarcato di M. fraudulenta. Infine, la superficie inferiore del labello di M. confusa è variamente contrassegnato con rosso porpora in contrasto con il labello di M. fraudulenta. 3) – nel raffronto con M. splendens, seppur a prima vista la struttura del fiore sia abbastanza simile – non corrisponde la forma ed il colore del labello, inoltre le foglie non evidenziano la picciolatura.
Conclusione Con qualche ragionevole dubbio, siamo molto vicini alla Maxillaria di Christenson, ma per il verdetto finale sarà bene attendere una foto della M. tiaraensis.
Le orchidee con i fiori che tendono al colore nero sono sempre affascinanti e desiderate, misteriose e impossibili. In natura sono poche le specie dai fiori fortemente scuri, ma gli ibridatori, ben consci dell’iteresse del collezionismo per le orchidee “nere” sono riusciti a creare incroci interessanti. L’argomento è di quelli che affascinano perché sta sempre a metà strada fra la realtà ed il mito. Nero Wolfe coltivava la sua “orchidea nera” nella serra a New York. Nota con il nome popolare di “orchidea nera” è anche la Coelogyne pandurata, per la verità i fiori di questa orchidea, di nero hanno solamente alcune protuberanze sul labello.
Maxillaria schunkeana M.A. Campacci & R.A. Kautsky 1993. Da qualche tempo nelle nostre collezioni si incontra una specie del genere Maxillaria che impressiona enormemente per il colore verosimilmente nero dei suoi fiori è la Maxillaria schunkeana, l’ennesima orchidea nera. Il genere Maxillaria Maxillaria Ruiz & Pav. (1794) è un genere di orchidee vasto e con morfologie molto diverse, per questo motivo molti orchidofili ritengono che l’attuale stato della tassonomia del genere Maxillaria, abbia bisogno di una profonda revisione. Il nome scientifico è derivato dalla parola latina “maxilla” – mascella, dalla forma della colonna e della base del labello di alcune specie, che può evocare un mandibola sporgente. La specie tipo è Maxillaria ramosa Ruiz & Pavon 1794.
Maxillaria schunkeana M.A. Campacci & R.A. Kautsky 1993 – “O gênero Maxillaria no Espírito Santo: uma nova espécie. Orquidário 7: 136–137.” Sottofamiglia: Epidendroideae Tribù: Maxillarieae Sottotribù: Maxillariinae Genere: Maxillaria Ruiz & Pav. Specie originaria del Brasile, Stato di Espirito Santo costa atlantica foresta pluviale ad altitudini di 600 a 700 metri.
Maxillaria schunkeana propone un problema interessante. L’architettura vegetativa di questa specie assomiglia a quella del gruppo M. gracilis, poichè ha foglie esili e lanceolate. Tuttavia la morfologia del fiore è estremamente simile al complesso M. madida, poichè i fiori di M. schunkeana sono color vinaccia scuro, con il labello ed il pollinarium molto brillanti. Inoltre, ricerche molecolari preliminari evidenziano uno stretto collegamento della M. schunkeana con M. picta e M. marginata. Questa specie quindi, richiede ulteriori approfondimenti morfologici e molecolari per chiarire la sua posizione filogenetica. Lo studio degli insetti pronubi delle varie specie di Maxillaria può contribuire a conoscere meglio l’intera tribù, a tal riguardo è interessante questo lavoro: RODRIGO B. SINGER SAMANTHA KOEHLER
Note morfologiche Pianta di piccole dimensioni, epifita a sviluppo simpodiale con pseudobulbi fusiformi e cilindrici dotati di 2 foglie apicali. Le corte infiorescenze escono dalla base degli pseudobulbi maturi e producono fiori singoli di colore viola scuro tendente fortemente al nero. In natura (Brasile) fiorisce in primavera estate, non è profumata. Desidera temperature fresco-intermedie (minime 10-18) , buona luce, substrato sempre umido e ben drenato. Questa specie può essere coltivata sia in vaso con substrato di corteccia o di fibra arborea, ed anche su zattera.
Le api euglussine
Riflessioni: la lussureggiante Stanhopea e le stagioni della vita
https://www.youtube.com/embed/LyTBCaCnYco?rel=0 Si presentava così, oggi, quel magnifico e lussureggiante esemplare di Stanophea nigroviolacea, ormai quasi tutta sfiorita. Lo sguardo sul terreno focalizzò quel che rimaneva dei suoi fiori, così imponenti e profumati solo qualche giorno prima, e d’un tratto mi assalì un turbinio di sensazioni: tristezza, già nostalgia e attesa per la prossima fioritura, ma soprattutto occasione per qualche riflessione sulle parentesi della vita, quelle della pianta, della nostra, della vostra, della vita in generale.
Le stagioni della vita Chissà, saran gli anni, tanti ormai, che facilitano l’andare con i pensieri alle stagioni passate, sarò forse io, per certi versi troppo sognatore, ma se avrete la bontà di seguirmi “riavvolgeremo” insieme le stagioni della vita. La stagione degli amori. E’ la stagione più calda, d’un tratto scopri l’amore nei sentimenti, nel corpo e nell’anima; tutto diventa luminoso ed ogni impulso della tua vita è rivolto ad alimentare nuove e piacevoli sensazioni. Si scopre e si fa l’amore, proprio come è capitato qualche giorno fa ai fiori della nostra Stanhopea. Di neccessità virtù, si dirà. In assenza delle api euglossine (maschio), i fiori nel massimo del loro splendore hanno accolto di buon grado anche la mano dell’uomo. La stagione della fertilità. Ed eccolo il risultato degli amori: dopo qualche giorno dall’avvenuta impollinazione, già si cominciano a notare i rigonfiamenti delle capsule seminali, gravide e feconde. La gravidanza durerà diversi mesi, ma qundo saranno mature, ci doneranno centinaia di migliaia di nuove vite allo stato embrionale: la natura e l’uomo, nel nostro caso, faranno il resto: la vita ricomincia.
L’impollinazione Un aspetto molto affascinante delle Stanhopeinae è la loro impollinazione. Nel loro habitat naturale i grandi fiori sono impollinati ad opera dei maschi delle api euglossine, del genere Euglossa meriana ed Euglossa cordata, note come “le api delle orchidee.” Ogni singola specie di api euglossine, visita solamente una specie di orchidea, questo a garanzia della non interferenza biologica. Le api sono attratte ai fiori dal loro profumo, a volte dolce ed in certi casi pungente. Come si può evincere dalle foto, i fiori sono delle incredibili creazioni della natura, sia nelle loro forme, che nelle loro strutture complesse, modellate apposta per ottenere l’impollinazione. Le Stanhopeinae attraggono le api con il loro profumo e servendosi di un sofisticato meccanismo le obbligano ad effettuare percorsi utili a garantire la fecondazione. I fiori rendono il loro “bocconcino” di nettare alle api visitatrici, le quali poi lo trasformano (attraverso una loro secrezione ghiandolare) in fragranza utile per attrarre le loro femmine. I fiori sono di breve durata ed all’evidenza, con un sistema così efficace d’impollinazione, se lo possono permettere. E’ utile ricordare che la fioritura è sempre un dispendio d’energia. La stagione della fine e dell’oblio. I giorni della lussuria, del piacere e dell’ammirazione sono passati. Quel gruppo enorme di fiori non ha trovato la sua ape, peccato! Piano piano, uno alla volta, i fiori son appassiti e si sono staccati inesorabilmente dalle infiorescenze che li sostenevano: è finita per loro. Rimangono lì per terra muti e informi in attesa che “qualche anima buona” li metta a riposare più dignitosamente.
Stanhopeaoculata
Stanhopea oculata… occhi che ti guardano dentro il cuore
Stanhopea oculata (Lodd.) Lindley 1832 I fiori delle Stanhopea sono impollinati dai maschi delle api Euglossine. Ogni specie produce un profumo diverso dalle altre. La fragranza emanata da una specie di Stanhopea attrae solo i maschi di una delle tante specie di api euglossine – l’aroma serve ai maschi per attirare l’attenzione delle femmine della loro specie – fantastico!! Ordine assoluto: niente ibridazioni e niente infedeltà fra le api, almeno così pare.
Capita però che qualche specie di Stanhopea si diverta a fare la cinica: non produce alcun nettare da donare alle api maschio… ed allora? Come mai i maschi delle api visitano ugualmente questi fiori avari? Tutto calcolato, i fiori senza nettare ricevono la visita dei maschi giovani…quelli ancora imbranati, buona palestra di allenamento per tempi migliori, quando a loro servirà veramente l’aroma per attirare le api femmine!
Anathallis obovata
Il genere Anathallis Il genere Anathallis fu proposto da João Barbosa Rodrigues nel 1877, pubblicato su Genera et Species Orchidearum Novarum 1: 23. Garay ha designato come suo lectotipo Anathallis fasciculata descritta da Barbosa Rodrigues, in Orquideología 9: 122, nome considerato sinonimo di Anathallis obovata. Etimologia Il nome del genere deriva dal greco anathallos, che significa privo di ramificazioni.
Storia Nelle varie risistemazioni tassonomiche della famiglia delle orchidaceae, capita spesso che siano resuscitati generi dormienti. Il genere Anathallis è stato stabilito da Barbosa Rodrigues nel lontano 1877, ma inspiegabilmente è sempre stato ignorato dai tassonomi. Rimasto dormiente per oltre 110 anni, Anathallis, suscita gli interessi di Fabio de Barros, in una sua breve rassegna di alcune specie brasiliane egli propone di raggrupparle in un genere separato allo scopo di evidenziare le loro caratteristiche morfologiche in maniera più definita. Per farlo ritiene di poter usare quel nome dormiente. Nel 2001 comparvero i primi lavori sul DNA delle Pleurothallidinae, ed è in tale contesto che, Pridgeon e Chase trasferirono varie specie precedentemente classificate come sottogeneri o sezioni del grande ed ormai troppo incerto genere Pleurothallis. Nel 2006 anche Luer interviene nella riconsiderazione del genere, proponendo Panmorphia, un genere distinto accanto ad Anathallis. I confini tra Anathallis e Panmorphia non sono ancora molto ben stabiliti, queste incertezze causano spostamenti di specie da un genere all’altro a seconda degli umori dei tassonomi. La pubblicazione più recente che tratta di questo argomento è di Luer, ma va da sè capire che in futuro ci saranno ulteriori cambiamenti. Anathallis come concepito da Barbosa Rodrigues, è un genere con circa ottanta specie distribuite dal Messico al sud del Brasile, in habitat caratterizzatio da foreste ombreggiate, umide, a volte più secche. Una quarantina di specie sono endemiche in Brasile.
Descrizione del genere. Il genere Anathallis è composto da orchidee epifite a sviluppo cespitoso che presentano una grande variabilità morfologica. Sono piante senza pseudobulbi e dotate di gambi monofogliati; le foglie sono coriacee, più o meno ellittiche, a volte allungate e presentano una o più infiorescenze per ramicaule alla base della foglia, con molti fiori che si aprono simultaneamente. Luer divide il genere in due sezioni: Acuminata, la più numerosa, e Altae. In Orchidaceae Brasilienses, Pabst & Dungs, distinguono le specie brasiliane di questo genere in quanto presentano specificità morfologiche, tipo callosità o papille allineate longitudinalmente al centro del labello, non menzionate da Luer, all’evidenza perché non viste da lui in quanto presenti principalmente nella specie del Brasile.
Anathallis obovata Etimologia del nome di specie: foglie simili ad un uovo. Specie endemica in Nicaragua, Cuba, Repubblica Dominicana, Porto Rico, Guyana, Venezuela, Colombia, Ecuador, Perù, Bolivia, Brasile e Argentina in foreste montane umide, ad altitudini da 500 a 1800 metri. Specie a sviluppo cespitoso, epifita, unifoliata. Vive su tronchi d’albero formando rizomi striscianti dai quali crescono gambi eretti e slanciati, dotati basalmente da 2 a 3 guaine tubolari con una singola foglia apicale, eretta, coriacea, sotto la quale si formano da 3 a 4 infiorescenze.
Epigeneium deriva dal greco antico latinizzato, epi=sopra e geneion=mento in quanto i sepali laterali sono fusi con il piede esteso della colonna formando un struttura simile ad un mento; amplum deriva invece dal latino e significa ampio, grande, notevole, suppongo dovuto alla dimensione del fiore rispetto alla pianta. Così lo descrive Lindley nel 1830 in “The genera and species of orchidaceous plants” sotto il nome di Dendrobium amplum: “D. rhizomate repente squamoso pseudo-bulbos ovatos squamosos diphyllos gerente, foliis ovato-oblongis emarginatis petiolatis, floribus solitariis longipendiculatis axillaribus e bracteis duabus oblongis petaloideis provenientibus, sepalis ovatis acuminatis obtusis petalis angustioribus, labello sessili trilobo medio lamellato: lobis lateralibus abbreviatis rotundatis, intermedio ovato crenulato acuto. Flores straminei, intus guttati, expansis 3 uncias lati: labellum cum basi dilatata columnae articulatum, lamellis tribus in medio, quarum intermedia abbreviata; lobo intermedio atropurpureo. Ovarium ferè tres uncias longum bracteâ ad basin solitariâ ovatâ. Pedunculus vix unciam excedens bracteis 2 margnis foliaceis albis ex basi ortis tectus”. Come poi puntualizzato dallo stesso Lindley tale specie ha caratteristiche più affini al genere Bulbophyllum che non a quello dei Dendrobium. Una caratteristica che balza subito all’occhio, peculiarità quasi esclusiva dei Bulbophyllum è la mobilità del labello che invece di essere ben saldo sulla colonna è libero di oscillare dall’alto al basso come ad esempio in B. lobbii. Di questa specie apparve bando d’asta sul “Gardener’s Chronicle” del 9 Marzo 1895, vendita operata da Proterhoe and Morris nella loro principale sala vendita al 67 e 68 di Cheapside a Londra, asta che sarebbe avvenuta il venerdì 15 marzo successivo. La specie allora all’asta era venduta come Dendrobium coelogyne uno dei sinonimi di questa specie.
La specie: Epigeneium amplum(Lindl.) Summerhayes, Kew Bull. 12: 260 (1957). cresce epifita o litofita dal Nepal (centro Himalaya), Bhutan, Nord-est India, Myanmar (ex Birmania) Thailandia alla Cina (Yunnan e Sud Guangxi). Descrizione: Pseudobulbi lunghi 4-7 cm., angolati sui 4 lati, che si dipartono 5-12 cm dal rizoma. foglie lunghe 10-15 cm e larche 3-5 cm. Infiorescenza singola, fiore di circa 7-9 cm., profumato, ceroso, dal crema al giallo macchiato di marron, labello di un marron-porpora scuro. Epifita nelle foreste con fronde ampie, o litofita sulle rocce a 1.000-2.000 mt. di altitudine Sinonimi homotipici: * Dendrobium amplum Lindl. in N.Wallich, Pl. Asiat. Rar. 1: 25 (1830). (BASIONIMO) Sarcopodium amplum (Lindl.) Lindl. & Paxton, Paxton’s Fl. Gard. 1: 155 (1850). Bulbophyllum amplum(Lindl.) Rchb.f. in W.G.Walpers, Ann. Bot. Syst. 6: 244 (1861). Callista ampla(Lindl.) Kuntze, Revis. Gen. Pl. 2: 654 (1891). Katherinea ampla(Lindl.) A.D.Hawkes, Lloydia 19: 95 (1956).
Una piccola nota in merito al fiore…inizialmente i due petali inferiori erano disposti a V, a formare con il petalo mediano superiore un ideale triangolo, caratteristica comune a tantissime orchidee, dopo alcuni giorni dall’apertura i due petali inferiori si sono piegati convergendo verso il centro fino ad incrociarsi come appare nelle foto. Coltivazione Coltivo questa specie su zattera di sughero, supporto che la pianta pare gradire, purtroppo data la tendenza della pianta ad allungare i rizomi prima di emettere un nuovo pseudobulbo, le zattere da utilizzare è opportuno siano ben più grandi della pianta. Questa orchidea trova posizione nella zona più luminosa della serra , le radici sono supportate da un piccolo pane di muschio sempre umido. Data l’altitudine alla quale cresce sopporta bene tanto le temperature fresche autunnali quanto quelle calde estive. Concimazioni regolari con bilanciato Peters Professional 20-20-20 .
Note: foto gentilmente concesse da Ecuagenera, spunti tratti da varie fonti Internet e da un articolo apparso su ORCHID REVIEW Vol. 112 a cura di Steve Manning. Un particolare ringraziamento all’amico Alberto Grossi per la sua collaborazione alla corretta stesura dei testi.
Burlington, Gennaio 1973 Fuori fa un freddo cane, gli inverni nel Vermont sono tremendi. Dik Jenkins, Ufficiale dei Marines è da poco rientrato in patria dal Vietnam e sta godendosi una licenza premio. E’ il 7 Gennaio del 1973, la guerra in Vietnam sta finendo malamente, insieme ai tanti sogni di potenza, americani. Dik sa che dovrà tornare ancora a combattere i Vietcong e sa anche che ogni ripartenza per il Vietnam gli garantisce solo il biglietto di andata. Per questo è tremendamente triste. La mattinata che precede il suo ritorno in guerra, Dik lo trascorre da solo, guarda i grossi fiocchi di neve che cadono silenziosi e sogna una bella ed impossibile sciata fra i boschi del Taconic Range. Sono vallate dolci che degradano verso nord ovest nelle pianure orientali del Lago Champlain. Non può farlo.
All’indomani, di buon ora, deve trovarsi già all’aeroporto di Burlington per tornare alla guerra. Quel che resta della giornata, la dedica a sfogliare vecchie foto di famiglia in compagnia di Jennifer, la sua giovane moglie. Rovistando fra le carte ingiallite dello studio, Dik Jenkins è attratto da una fotografia color seppia che fa da copertina a fogli di carta grezza, irrimediabilmente aggrediti da vistose macchie di muffa.
E’ cosi che inizia l’avventura di Dik, a metà fra romanzo e realtà. Quegli appunti tenuti insieme da una piccola cordicella di canapa, attirano sin da subito l’attenzione di Dik; raccontano di strane orchidee dai fiori quasi azzurri, dai poteri magici. Jenni! – esclama Dik – mostrando la fotografia a sua moglie – sembra proprio l’orchidea dai fiori leggermente azzurri, abbarbicata sulla parte alta, ad ovest della nostra serra. – Sì… sì è proprio quella – risponde Jenni – chissà quali segreti nasconde.
Dik chiude gli occhi per un momento, e la sua mente lo riporta agli anni della sua infanzia quando il nonno Adam – parlando con dolcezza e passione – lo trasportava in luoghi misteriosi e lontani. Quando Dik era bambino, nessuno credeva al nonno Adam, era già vecchio e quelle storie di donne bellissime dai magici poteri donati loro da una rara orchidea… non incantavano più nessuno in famiglia… solo il bambino Dik lo stava ad ascoltare. Fu quella vecchia foto color seppia che spinse Jenkins, Dik Jenkins, a leggere con avidità gli appunti del nonno Adam, suo progenitore inglese, che descrivevano con dovizia di particolari, le sue avventure e le sue ricerche scientifiche in Assam. Le Indie Orientali Eravamo nella seconda metà del diciannovesimo secolo – 1884 – quando il giovane Ufficiale della British Army ” Adam Jenkins” di stanza in Assam per conto della Compagnia Inglese delle Indie Orientali, si trovò a vivere una avventura misteriosa, talmente unica che gli sconvolse tutto il resto della sua vita. Dik taglia lo spago che tiene legati i fogli, alza il sigillo di ceralacca ed inizia la lettura:
“22 di Novembre del 1884, alle ore 7 del mattino sono convocato in ufficio dal Colonello Jeremy Lobb, noto per la sua passione per le orchidee. Il colonello mi consegna un documento e mi invita a leggerlo. In questo dispaccio sono contenuti tutti i dettagli di una missione nelle regioni Cherapunji e Shilong. In queste regioni, e precisamente fra le foreste delle colline Khasia Jaintia, vive una tribù matriarcale proveniente da Assam, chiamata Khasia. Devo recarmi in quelle zone per scoprire una magica orchidea, più volte citata da Thomas Lobb, zio del commandante e ancora introvabile. Il Colonello Jeremi Lobb mi informa che questa orchidea è stata più volte citata da suo zio Thomas Lobb, ma esiste una rara varietà ancora sconosciuta. Questa varietà vive aggrappata agli alberi in una zona nota solamente alle donne Khasi – precisa il Colonello – che si tramandano il segreto con impenetrabile riservatezza. L’orchidea perderebbe il suo potere se fosse disponibile anche per gli uomini e per le donne infedeli. Pare che con i petali dei fiori fecondati di questa ochidea, le giovani vergini raggiungano il “nirvana” e scelgano in sogno, l’uomo da sposare. Pare anche che sia possibile scegliere, tempo storico, luogo e sogno desiderato.” Dik, visibilmente frastornato, guarda ancora la fotografia, la gira e sul retro, incollato alla foto, c’è un cartoncino contenente qualche appunto, che Dik legge con interesse.
Orchidea dai fiori blu Vive su alberi di Gordonia (Theaceae) nelle foreste di querce e pini delle colline Khasia dell’India orientale. Thomas Lobb, zio del mio commandante ha portato la specie in Inghilterra e nel 1850 è stata esposta per la prima volta la pianta fiorita, fra lentusiasmo degli appassionati di orchidee. Questa varietà dai poteri magici è stata raccolta da me nel 1886. Solo alcune specie di api indiane, come l’ape nana (Apis florea), riescono a fecondare i fiori di questa varietà. Purtroppo nella mia serra non vivono più; chi le riporterà sarà sicuramente fortunato; potrà sognare a piacere e provare tutte le mie emozioni vissute in terra Khasia” Jenni, sussurra Dik – quando sarà finita la guerra ritroveremo queste api e le riporteremo nella nostra serra a farci sognare. I sogni finirono presto, il capitano Jenkins partì per quella che sarebbe stata la sua ultima missione in Vietnam. Dik appartiene al Corpo dei Marines degli Stati Uniti, presente in Vietnam già dal 2 agosto 1954 con il nuovo gruppo di assistenza e consulenza militare degli Stati Uniti nella Repubblica del Vietnam. Per i successivi otto anni, le attività militari in Vietnam consistettero principalmente in responsabilità di consulenza e personale. Ma alla fine del 1970, erano più i Marines che se ne andavano che quelli che arrivavano come sostituti. Dopo il fallimento dell’offensiva di Pasqua dei Viet Cong e un’intensa campagna di bombardamenti sul Vietnam del Nord, il 27 gennaio 1973 fu finalmente firmato a Parigi un trattato di pace basato su due punti fondamentali; il ritiro di tutte le forze americane dal Vietnam del Sud. Il Nord, a sua volta, restituì tutti i prigionieri di guerra, inclusi 26 Marines. Fra questi c’era anche Jenkins, catturato dai Viet Cong al confine con la Birmania dove si trovava in missione segreta. Dik trascorse gli ultimi 8 mesi quasi tutti rinchiuso in quelle famigerate gabbie di bambù, la prigione in Vietnam per americani in ostaggio. La guerra in Vietnam finì nel 73 e Dik, seppur ferito, fortunatamente tornò a casa vivo, ma quel tarlo dell’orchidea blu descritta dal nonno in quel cumulo di foto sbiadite dal tempo diventò passione sfrenata .Durante la sua permanenza nella terra di nessuno a nord del Vietnam, prima di essere catturato dai Viet Cong il commandante dedicò gran parte del suo tempo alla ricerca di orchidee ed il colpo grosso potè realizzarlo con la scoperta dell’orchidea blu.
L’orchidea blu
Della guerra, Dik non ama parlare, troppo difficile metabolizzare tanti traumi vissuti – racconta Dik – Ho visto cosa significasse per il popolo vietnamita sperimentare e sopravvivere all’esistenza in una zona di guerra, vedere la propria casa in fiamme cinque, sei, sette volte… e alla fine arrendersi e smettere di ricostruire per finire a vivere una vita sotterranea nei rifugi antiaerei. E capire quale fosse il modo migliore per uscire dal rifugio per prendere un po’ di acqua e cibo, e cercare sollievo. Dovevi aspettare la fine degli spari, ma non potevi uscire troppo presto perché rischiavi di essere attaccato da un elicottero che sorvolava la zona. Dovevi assicurarti di non finire nel fuoco incrociato tra guerriglieri e americani. Ma non potevi nemmeno restare nel rifugio troppo a lungo, perché gli americani arrivavano e buttavano granate. C’era tutta una serie di decisioni da prendere e non era solo la tua vita quella che dovevi difendere, ma forse anche quella di tutta la tua famiglia – il commandante Jenkins preferisce ricordare quel poco di bello vissuto durante la sua missione. Così il marines Dik inizia il racconto della sua orchidea blu, persa in situ e inseguita da tanti raccoglitori di orchidee.
Era domenica, domenica 12 settembre del 71, la nostra giornata di riposo e l’avventura inizia attraversando un piccolo villaggio sulla strada per Sapa, provincia di Lao Cai. Non ero da solo, con me c’era anche l’amico Simon Rosner. Lungo la strada incontriamo un improbabile mercatino di fiori e altre povere cose. Simon, ricordandosi della mia ossessione per l’orchidea dai fiori blu pensò bene di avvicinarsi alla bancherella per chiedere se ci fossero delle piante di orchidea dai fiori blu. La Signora Muong (nome dell’esile donna che gestiva la bancherella) annuì mostrando alcune piante di orchidea strappate nella vicina foresta, ma non garantì che i fiori sarebbero stati di colore blu. La donna chiese 10 dollari USA e rimase molto sorpresa nel vedere pagare senza mercanteggiare il prezzo chiesto per quelle poche orchidee. I soldati USA non erano visti di buon occhio dai vietnamiti. Si sentì tremendamente in colpa la Signora Muong – come mai questi soldati non ribattono il prezzo – pensò la donna, vedendoci allontanare dopo aver ringraziato e pagato i 10 dollari richiesti senza discutere – lo fanno tutti i soldatii americani – mormorò dentro di sé e per attirare la loro attenzione gridò in inglese – a moment please – e con un inequivocabile cenno del braccio richiamò con un cesto di ci richiamò indietro donarci altre orchidee di varia dimensione e specie, fra queste anche dei piccoli fusti facilmente riconducibili al genere Dendrobium.
Ecco qua, – susurrò la donna – e aggiunse – fra queste piante c’è sicuramente l’orchidea blu, lei non capiva come mai dei soldati americani fossero interessati alle orchidee e sorridendo disse – se lo desiderate vi posso indicare i luoghi dove vivono, mio figlio Lao vi può accompagnare. Non credevamo ai nostri orecchi e il giorno seguente eravamo già lungo il sentiero che porta nella foresta di Lao Cai con il figlio della signora Muong. L’indomani di buon’ora eravamo già in cammino verso il posto segreto dove poter trovare l’orchidea blu. Ad un certo punto ecco abbarbicato ad una quercia un ceppo di canne fiorite con grandi fiori blu.
La scoperta
Dik si siede su una roccia sporgente e inizia a leggere alcuni appunti del nonno Adam. A pagina 15 trova notizie interessanti. Dendrobium azureum è stato scoperto già nel 1938, ma è rimasto a riposare nell’erbario del Museo di Storia Naturale a South Kensington (LONDRA), dentro un cassetto, montato su un telaio ma senza nome e comunque non classificato, a parte il suo genere o raggruppamento di specie. Dik prende nota e scrive – Visto l’orchidea abbarbicata su di un albero nella provincia di Lao Cai, nel nord del Vietnam, in prossimità del confine cinese un’altura a 1650 metri sul livello del mare. Pochissime orchidee hanno fiori blu e la maggior parte di esse sono specie terrestri, pensò Dik, questa era un’epifita – cresceva sugli alberi – l’orchidea era una specie di Dendrobium e i suoi parenti più stretti hanno fioriture scarlatte. I dubbi si inpadroniscono di Dik al punto da fargli dubitare che il blu descritto fosse veramente blu –“Ho pensato che forse il blu non era davvero blu – molti orchidofili chiamano le cose blu quando intendono malva o viola”. Ma a un’osservazione più attenta, i fiori essiccati sembravano grigiastri, piuttosto che marroni come i fiori secchi delle specie affini. Se l’orchidea aveva davvero fiori blu cielo, allora era probabile che fosse la specie vista dal nonno di Dik e raccontata in allegato alla famosa fotografia color seppia.- Le “orchidee blu brillanti” si riferiscono a D. azureum. Guardando di nuovo l’esemplare, Dik nota che i fiori avevano una strana sfumatura bluastra, piuttosto che una delle tante sfumature di marrone che si vedono di solito in vecchi esemplari di orchidee secche.
DENDROBIUM AZUREUM, l’orchidea perduta? Pare proprio che, D. azureum non sia mai stato raccolto prima della spedizione di Dik Jenkins e Simon Rosner, ma la curiosità generale ora punta alla lleggenda delle donne Khasi Ora che è stata ritrovata l’orchidea blu, Dik va alla ricerca delle donne Khasi per verificare la veridicità dei racconti del nonno Adam. Sin da subito Dik, per avventurarsi fra le etnie minoritarie del nord Viettnam e dell’intera Indocina, ha chiesto collaborazione al figlio della signora Muong.Per conoscere tutte le etnie del Vietnam del nord, bisogna percorrere la National Route 6, una lunga striscia di asfalto che percorre tutto l’estremo nord della penisola indocinese fino a Sapa, la capitale dell’omonimo distretto nord-occidentale. L’85% della popolazione del distretto è suddivisa tra tribù che seguono diverse tradizioni e si vestono in modi completamenti diversi.
I racconti del nonno Adam descrivevano tradizioni particolari della etnia Khasi. Khasi è una sottopopolazione dei Va, che in tempi antichi abitavano l’intera Indocina. Dopo essere stati annientati, cacciati o assimilati dagli invasori tailandesi, shan, laotiani e siamesi, finirono per insediarsi nella regione nordorientale in tribù sparse, disperse tra le colline. Presso un sottogruppo khasi chiamato Garo, è la donna che corteggia l’uomo, e non viceversa: la ragazza fa rapire dai propri fratelli il ragazzo che le piace, che viene tenuto prigioniero per qualche tempo nella casa degli uomini, per poi venire presentato alla ragazza elegantemente vestita e ingioiellata. Se il ragazzo non fugge da lei più di tre volte di fila, significa che accetta la volontà della giovane di prenderlo come compagno, altrimenti la scelta viene invalidata.
I primi contatti con le donne Chasi. Nell’attesa di incontrare una piccola comunità, Dik e Simon trascorrrono il tempo dedicandosi alla lettura del libro ORCHIDEA
Sulle orme di Nero Wolfe: fra orchidee e cucina
Nella vita, tutto tranne la coltivazione delle orchidee, deve avere uno scopo. … fantasie e sogni possibili, nati da una mancata ed immaginaria intervista a Nero Wolfe.
… “Sono a New York nella trentacinquesima strada, di fronte alla famosissima casa di arenaria dove vive Nero Wolfe. Sono in anticipo di una ventina di minuti, ma fa freddo e nevica; decido di non aspettare. Busso.
Coelogyne pandurata collezione Guido De Vidi La porta si apre e compare un esile ed impeccabile figura: – Mi chiamo Archie Goodwin. E voi? – Buona sera a lei, sono Guido De Vidi mi manda la redazione di Orchids Club Italia, gradirei conversare col signor Wolfe a riguardo di quell’introvabile orchidea nera e della famosa ricetta “salsicce mezzanotte” che tanto lo deliziò da giovane. A.G. – Il signor Wolfe non è in casa, è fuori sede per partecipare al convegno culinario dei quindici migliori cuochi del mondo – sono spiacente. Guido – Non fa niente, leggeremo le avventure di questo viaggio, nel suo prossimo romanzo”… Nero Wolfe, quando non è impegnato a mangiare, a curare le sue orchidee o a leggere i suoi libri, è un genio nello smascherare i criminali, senza mai dover uscire dalla sua casa di arenaria sulla trentacinquesima strada ovest di New York, comodamente seduto alla sua scrivania a sorseggiare birra o impegnato con le sue orchidee nella serra al terzo piano. Solo quella ed unica volta era fuori casa per presenziare al convegno di alta cucina…
Nero Wolfe sul treno diretto al convegno culinario …..”Non mi resta ancora molto da vivere, non ho più molti libri da leggere, ironie da cogliere, pranzi da gustare – Sospirò a occhi semichiusi, poi li riaprì. – Cinquemila dollari. Odio mercanteggiare“. Con un mix di perentorietà e di sornionesco pietismo verso se stesso, Nero Wolfe, il ciclopico investigatore-gourmet creato da Rex Stout, su quel treno che lo sta portando verso il convegno dei quindici migliori cuochi del mondo, tenta il tutto per tutto. L’oggetto del desiderio sono le “salsicce mezzanotte”, di cui si era deliziato un giovane Nero Wolfe, all’inizio della carriera; la controparte è Jéròme Bérin, il creatore della ricetta segreta, a suo tempo inseguito attraverso il Mediterraneo sino al Cairo fino a perderne le tracce. Il destino sembra ora favorirlo, facendoglielo ritrovare sullo stesso convoglio e diretto alla stessa meta. Ma siamo solo all’inizio del romanzo dal promettente titolo, “Alta cucina”, e l’epilogo gastronomico non avverrà che all’ultimo respiro del giallo, quando il nodo delittuoso sarà sciolto, naturalmente ad opera di Wolfe. Ma allora sull’altro piatto della bilancia ci sarà un peso ben diverso: Jéròme Bérin, sospettato dell’omicidio di uno degli chef partecipanti al simposio, deve infatti la vita all’investigatore che, scendendo a livelli di mero mercanteggiamento, non si lascia sfuggire l’opportunità di farlo pesare, previo un sottile gioco psicologico. “- Be’…- Wolfe sospirò. – Se non volete accettarlo come gesto di amicizia, sia pure. In questo caso l’unica cosa che posso fare è presentarvi il conto. Il che è semplice. Se fosse possibile fare una valutazione precisa dei servizi professionali che vi ho reso dovrebbe essere altissima, poiché i servizi sono stati eccezionali. Così… visto che insistete per pagare… mi dovete la ricetta della salsicce mezzanotte”. Le spire del Nero pitone si avvolgono inesorabilmente intorno al collo della vittima, che tenta di divincolarsi: ” – Cosa? -Bérin gli lanciò un’occhiataccia. – Puah! Ridicolo“. Ma il pitone non allenta la presa… “– Come ridicolo? Mi avete chiesto voi cosa mi dovevate. E io ve l’ho detto” …se non quel tanto per lasciare il fiato di sigillare la trattativa. ” – Bah! – Sbuffò Bérin. – È un ricatto”. Obtorto collo, e a patto che la ricetta non sia rivelata a nessuno al mondo, Bérin si decide a rivelare la magica alchimia. Solo nel 1938, dopo cinque anni dalla morte di Jéròme Bérin, Fritz, il cuoco svizzero a servizio di Wolfe, la usa in “Orchidee nere”, ma assolutamente priva di dosi.
La ricetta La ricetta è pubblicata ne “Le ricette di Nero Wolfe”, così come aveva voluto il suo creatore: “II signor Bérin disse a Wolfe che esse variano a seconda del clima, della stagione, delle personalità che preparano il piatto, dei cibi che si mangiano prima e dopo le salsicce, e del vino che viene servito”. Salsicce mezzanotte Ingredienti: Cipolla – aglio – grasso d’oca – brandy – vino rosso – brodo di manzo – timo – rosmarino – zenzero – noce moscata – chiodo di garofano – pane grattugiato – bacon – lonza – oca – fagiano – sale – pepe nero – noccioline di pistacchio – intestini di maiale. Tritate le cipolle e 1 spicchio di aglio poi rosolateli nel grasso di oca. Versate prima il brandy fino a coprire le cipolle, poi il vino rosso e il brodo di manzo in quantità doppia rispetto al brandy. Aggiungete un pizzico di timo e di rosmarino e spolverate con zenzero, noce moscata e con un’idea di chiodo di garofano. Cuocete a fuoco lento per 10 minuti e aggiungete pane grattugiato sufficiente a ottenere una polpa. Cuocete ancora per 5 minuti. Aggiungete prima il bacon bollito e l’arrosto di lonza, poi l’arrosto di oca e di fagiano, in quantità doppia rispetto alla lonza. Tutta la carne deve essere sminuzzata. Condite con sale e con una generosa dose di pepe nero, aggiungete del pistacchio e lasciate cuocere a fuoco lento finché l’impasto di carne abbia la consistenza del ripieno di una salsiccia fresca. Raffreddate completamente. Lavate e scottate gli intestini di maiale. Riempiteli con l’impasto di carne, strozzando di tanto in tanto con del filo per ottenere le salsicce. Cuocetele nella griglia del forno, dopo aver bucato qua e là la pelle.
Fritz, un gran maestro di cucina. A comprensione della maestria di cui Fritz è capace, ecco il menù orchestrato per la cena organizzata da Lewis Hewitt, milionario americano amante delle orchidee, in cui si ritrovano annualmente i Dieci per l’Aristologia, gruppo di edonisti che persegue la perfezione nel bere e nel mangiare.
Menù Blinis con panna acida Zuppa di tartaruga Passera di mare al vino bianco Salsa di cozze e funghi Arrosto di fagiano Porcellino di latte Crocchette di castagne Insalata con salsa pioggia del diavolo Formaggio Durante quella cena sfortunatamente venne avvelenato uno degli ospiti (la panna acida era spruzzata d’arsenico), ma poiché Fritz era incolpevole la cena risultò superba. Includiamo la ricetta della panna acida, una costante della cucina dell’Est adottata per condire moltissime ricette. Per ottenere la panna acida, mettete 1 tazza di panna in un vaso di vetro sterilizzato. Aggiungete 2 cucchiai di latte fermentato, coprite il vaso e agitate vigorosamente. Aggiungete un’altra tazza di panna, coprite e agitate ancora. Lasciate riposare per 24 ore al caldo, mettete nel frigorifero per altre 24 ore. Oltre ad essere un amante e grande intenditore di birra, Nero Wolfe è noto per il suo debole nei confronti del Martini, di cui riportiamo una ricetta nata negli States negli anni ’30-40′, dal nome di“Adonis”: 2/3 Sherry Fino muy seco 1/3 Martini 1 goccia di Orange bitter Si prepara nel mixing glass e si versa nel bicchiere “old fashion” con ghiaccio, senza decorazioni. Un altro liquore che spesso interviene nelle misture americane è il Gin, come per “Caruso”, ispirato al celebre cantante italiano, che in America ha avuto particolare successo agli inizi del XX secolo, quando sui palcoscenici furoreggiava la voce del grande tenore. 1/3 Dry Gin 1/3 Vermouth Dry 1/3 Liquore di menta verde Si shakera e si versa nel bicchiere “old fashion” con ghiaccio, senza decorazioni.
Se decidi di giocarti una bella nottata dal sapore luculliano ti ricordo che le salsicce vanno mangiate a mezzanotte e con l’orchidea nera all’occhiello!
FASCINO E PROBLEMI
Sensuali e misteriose come i luoghi della loro provenienza Da qualche secolo la coltivazione ed il collezionismo delle orchidee tropicali affascina e “rapisce” persone di ogni ceto sociale e di diverse nazionalità. Però le nostre maliarde, in natura, vivono nella fascia tropicale del pianeta e quindi richiedono particolari esigenze di vita, condizioni, che nei nostri climi temperati non ci sono. Storie fantasiose, passioni sfrenate, un amore febbrile, una vera e propria mania; per gran parte dell’Ottocento il vecchio continente, e sopratutto l’Inghilterra, vennero travolti da un’ammirazione incontenibile per le orchidee esotiche. Irresistibli oggetti del desiderio arrivati da ogni parte dei nuovi mondi, nei giardini e negli orti botanici europei nella seconda metà del Settecento, circondati da un alone di mistero trasformatosi in entusiasmo sfrenato di gran lunga superiore a quello suscitato un paio di secoli prima dalla “tulipano-mania”.
In quel periodo le orchidee tropicali sembravano fatte apposta per rispondere alla mania esotica dell’Inghilterra Vittoriana. Fiori sensuali, strani, spettacolari, grandi come mai se n’ erano visti in precedenza, oppure minuscoli come preziose miniature, accesero l’immaginario della società più opulenta dell’epoca. Le inedite fragranze dei fiori delle orchidee esotiche, estasiavano le nobildonne che nelle occasioni mondane, non esitavano ad esibire le rarità appena giunte dalle colonie. Ad eccitare la fantasia si aggiungevano le radici delle specie epifite, che invece di nascondersi nella profondità della terra pendevano sospese nell’aria come per incanto, e poi quelle bacche piene di una misteriosa polvere impalpabile: la scoperta, in seguito, che si trattava solo di una miriade di minuscoli semi non cambiò di molto l’impressione originaria, visto che per molto tempo non si riuscì assolutamente a farli germinare. In più, le orchidee arrivavano da luoghi dei quali si conoscevano a stento i nomi e le coordinate geografiche, un mondo che per l’Europa era ancora in gran parte da scoprire: vivevano nel cuore di giungle tropicali popolate da animali feroci, percorse da rumori sinistri, e molti erano anche fermamente convinti dell’esistenza, in quegli angoli remotissimi, di piante capaci di divorare esseri umani. Circolavano con insistenza voci inquietanti che riferivano addirittura la presenza di orchidee carnivore: una credenza rafforzata dalla vendita, a un’asta londinese, di un Dendrobium abbarbicato a un teschio umano, una bizzarria scovata da un cacciatore di piante in una zona impervia della Nuova Guinea. All’epoca, le orchidee esotiche se le potevano permettere soltanto gli aristocratici, nelle loro costosissime serre. All’inizio dell’Ottocento le orchidee esotiche si potevano trovare negli orti botanici oppure nelle lussuose residenze di qualche aristocratico che poteva permettersi giardinieri e serre costosissime, come ad esempio William George Spencer Cavendish, sesto duca del Devonshire, che per soddisfare una passione nata davanti a un esemplare di Oncidium papilio esposto in una mostra londinese, spedì nell’Assam, John Gibson, famoso cacciatore di orchidee dell’epoca.
Chatsworth: Great Conservatory Serra costruita (1836-1841) e demolita nel 1920. Questi, risalendo il corso del Brahmaputra e dei suoi affluenti, riuscì a trovare un centinaio di specie che poi spedì nella nebbiosa residenza del duca a Chatsworth, per essere custodite nella fantastica serra costruita dal capogiardiniere, Joseph Paxton. Un paradiso tropicale che suscitò l’ammirazione di tutti, perfino della regina Vittoria e del principe Alberto, che in una gelida serata invernale del 1843 lo visitarono in carrozza scoperta e alla luce di ben 12.000 lampade predisposte proprio per l’occasione.
Il clima tropicale piace alle orchidee esotiche. Il clima tropicale abbraccia la zona torrida della Terra, quella parte del pianeta, compreso dentro i due tropici del Cancro e del Capricorno. In questo clima si sviluppano le foreste tropicali, e le savane, habitat ideali per le orchidee. Esso si caratterizza per avere elevate temperature durante tutto l’anno, e nel sottotipo equatoriale, per le precipitazioni assai abbondanti. E’ proprio il regime pluviometrico che codifica i vari tipi di clima tropicale: 1. della foresta pluviale tropicale, sempre umida. 2. monsonico con una stagione secca e una umida. 3. della foresta pluviale nonostante un periodo secco. 4. della savana, più secco e con forti escursioni termiche. Le aree del pianeta con clima tropicale si trovano nell’America centrale, nella parte nord dell’America del sud, in una porzione dell’Africa e nell’intera Oceania. E’ in questa fascia climatica, che le orchidee “esotiche”, trovano la loro endemicità naturale. L’incontro con loro comincia sempre per caso e si rimane presto affascinati da tutto quello che ci raccontano. Ci ammalia la voglia di scoprire quello che non si sa della loro vita, della loro storia e della affascinante letteratura che le descrive, ma soprattutto si insinua nella nostra mente il desiderio di coltivarle. I commercianti di fiori e di piante, a partire dalle fiorerie, che tengono in negozio anche qualche pianta di orchidea “commerciale”, arrivando fino ai venditori specialisti di orchidee rare, tranquillizzano il neofita titubante, che si accinge ad effettuare il suo primo acquisto. “E’ facile coltivare orchidee esotiche”, esclama con suadente gestualità, il venditore. Il principiante sa perfettamente che la storia è diversa, ma non sempre sa resistere ed ecco che si crea quella strana dimensione evanescente nella quale il denaro perde valore, mentre quelle piante strane, devono essere possedute a tutti i costi. Nei salotti e nelle verande delle nostre abitazioni capita sempre più spesso di trovare le orchidee più impossibili. Nei secoli passati le orchidee erano considerate piante misteriose e costose, per questi motivi era raro trovarle come elemento floreale di coreografia abitativa. Con il trascorrere degli anni sono migliorate e tecnologie per la riproduzione da seme e da meristema, fattori questi, che hanno resa possibile la proliferazione di massa delle orchidee. Da qualche anno, le varie fiere e mercati, presenti in varie città, sono sempre fornitissimi di specie, un tempo introvabili. Ma il neofita, che tanto ha sognato il possesso di quelle piante dai nomi così affascinanti, finito l’onirico viaggio esotico, comincia a porsi mille domande.
Storie di serre famose e di passioni amorose. La passione per le piante tropicali fu dominante in vari paesi europei per tutto il 19 ° secolo. L’nteresse coincise con lo sviluppo delle varie tecnologie per la costruzione di grandi “serre”. La più bella e la più famosa è sicuramente quella costruita presso il Royal Botanic Gardens di Kew, appena fuori Londra, dove furono realizzati enormi contenitori in vetro per ospitare diversi tipi di piante tropicali provenienti dalle varie colonie dell’Impero Britannico. Grande protagonista di quell’epoca fu il costruttore di serre, Joseph Paxton. Sir Joseph Paxton (3 agosto 1803 – 8 giugno 1865), architetto britannico nato a Milton Bryant, nel Bedfordshire, intuendo le grandi possibilità tecniche, nonchè gli spettacolari e innovativi effetti formali del ferro, fu tra i primi a servirsi di strutture metalliche per costruire serre.
Crystal Palace ricostruito in versione ingrandita dopo il trasloco. Nel 1850 gli fu affidato l’incarico di portare a termine l’opera a cui è rimasta legata essenzialmente la sua fama: il Palazzo di Cristallo per l’esposizione internazionale di Londra in Hyde Park (circa 120 metri di larghezza e 562 di lunghezza), coperto da archi di varie altezze e interamente costruito con pezzi prefabbricati. L’enorme costruzione in stile vittoriano, eretta nella capitale britannica, ma inizialmente installata a Hyde Park, è stata smontata nel 1854 e ricostruita in un’altra zona della città, Sydenham Hill. Il 30 novembre del 1936 viene purtroppo distrutto da un incendio.
Ma fu nel 1827, che un medico inglese di nome Nathaniel Ward, rivoluzionò completamente il rapporto dell’uomo con la botanica. Nell’immaginario collettivo la serra è vista come una scatola di materiale trasparente, che lascia filtrare la luce. La scatola può essere di dimensioni enormi, vedi quelle professionali, oppure le amatoriali medio piccole, per arrivare fino ai microscopici terrari o orchidari che dir si voglia. L’orchidario, per chi ama le orchidee è l’embrione del sogno chiamato serra, sogno di chi è in attesa della serra vera o del jardin d’hiver, dove immergersi in un piccolo angolo tropicale, un luogo intimo dove concentrare il proprio sguardo verso la natura. Ma come e quando nacque l’idea di proteggere in ambiente chiuso le essenze vegetali, e chi scoprì il miracolo della coltivazione sotto vetro? foto 5 Nathaniel Bagshaw Ward, by Richard James Lane, printed by M & N Hanhart, after John Prescott Knight, 1859. A fare questa scoperta fu Nathaniel Bagshaw Ward (1791-1868), quest’uomo, che ha il merito di aver cambiato il mondo botanico così drasticamente, rimane l’ennesimo personaggio-ombra che emerge dalle nebbie della Londra vittoriana. Non pensiate che questa sia la solita frase retorica, dietro alle sue scoperte, si nascondono una serie di evoluzioni storiche senza le quali il mondo moderno sarebbe decisamente diverso da quello che noi conosciamo.
Nathaniel Bagshaw Ward (1791-1868) Sarebbe noioso stilare l’elenco delle società che lo vedevano attore partecipe, basti sapere che spaziavano dal campo medico, farmaceutico a quello botanico. Ma partiamo con ordine: nato a Londra Ward sviluppò presto il suo interesse per il mondo naturale nonostante lo circondasse il grigio panorama della città industrializzata. Alla tenera età di 13 anni si ritrova per mare su una nave in viaggio per la Giamaica: era convinto di far carriera in marina. Dopo quel viaggio, come sperava il padre, valente chirurgo, egli abbandonava l’idea di essere un marinaio per seguirlo nella pratica medica. Ma la flora tropicale aveva risvegliato in lui l’interesse per la natura e in particolare per palme e felci. Ward lavorava nell’est End di Londra e continuava a coltivare la sua passione per la botanica e l’entomologia tra un paziente e l’altro, nel tempo libero collezionava piante coltivandole all’aperto: il suo erbario contava più di 25000 specie. Sognava ricoprire un vecchio muro di confine del suo giardino di felci e muschi. Il suo giardino a Wellclose square non fu esattamente quello che Ward si era immaginato, solo poche delle felci piantate sopravvissero. Questo tasso di fallimento fu determinato dalla cappa di inquinamento soffocante della Londra industrializzata, la stessa atmosfera inquinata dal fumo proveniente dalla combustione del carbone e dai solfuri che fece coniare a un giornalista nel 1905 il termine “smog”, abbreviazione di “smokey fog” (nebbia fumosa). Ward girò il mondo per dar soddisfazione al suo interesse per l’entomologia. In occasione di uno dei suoi viaggi, egli raccolse la pupa di un lepidottero (sfinge) e la collocò in un contenitore trasparente e sigillato. La storia non ricorda il destino del lepidottero, ma dopo un po’ di tempo, Ward notò che alla base del contenitore chiuso, dal terreno iniziavano a germogliare delle felci: la sua curiosità su quanto tempo queste potessero vivere in un ambiente protetto, o meglio sigillato, portò a una delle scoperte botaniche ed economiche più importanti dell’età vittoriana: la cassetta wardiana (Wardian Case). Preso dal fervore per la sua scoperta, Ward inizò tutta una serie di esperimenti. Costruì dei terrari in vetro, di varie dimensioni, che riempirono il suo giardino e ogni stanza della sua abitazione: alcuni li mise perfino sopra il tetto di casa! Il terrario più grande (2.4 mq) conteneva al suo interno più di 50 specie di piante abbarbicate sulla riproduzione di una finestra della Tintern Abbey. I contatti con la famosa Loddiges Nursery che sponsorizzava le spedizioni esplorative, volte alla scoperta di nuove piante, gli permisero di testare il potenziale della sua invenzione per il trasporto di esemplari per mare. All’epoca la sopravvivenza a questi lunghi viaggi era impensabile. Le piante tenute sottocoperta morivano per mancanza di luce, mentre quelle tenute sul ponte per salsedine, forti venti, bruciature da sole e mancanza d’acqua.
foto 6 Wardian Case da interno. Foto tratta dal libro: On the Growth of Plants in Closely Glazed Cases di Nathaniel Bagshaw Ward (1852) Coltivare e spedire piante sotto vetro non era cosa nuova, ma nuovo era il concetto dell’ambiente sigillato non contaminato dalle condizioni atmosferiche circostanti. Ward fece costruire da un carpentiere una cassa per le sperimentazioni, il telaio doveva essere in legno duro e le connessioni più rigide e resistenti possibili: questo per evitare danni per effetto della condensa. Ed ecco nato il primo terrario! Nel 1833 spedì, in due casse, delle felci native dell’Inghilterra, in Australia, questo fu il suo primo grande esperimento. Dopo 6 mesi di navigazione il carico sbarcò nel porto di Sydney con le piante vive e vegete! Le casse come su richiesta vennero pulite e riempite di specie native australiane che prima di allora non si erano mai riuscite a trasportare oltremare; nel febbraio del 1835 il carico salpò, ma la nave, sconvolta dalle tempeste di Capo Horn arrivò a Londra solo dopo 8 mesi di navigazione. Le casse erano sul ponte e non erano state aperte nonostante le temperature fossero variate da -7 a 49 C° e coperte dalla neve durante parte del viaggio.
I successi degli esperimenti Intanto in città Ward attendeva ansioso di visionare il carico. Nel suo libro del 1852 scrisse: “I shall not readily forget the delight expressed by Mr. G. Loddiges, who accompanied me on board, at the beautiful appearance of the fronds of Gleichenia microphylla [umbrella or coral fern], a plant now for the first time seen alive in this country.” L’esperimento ebbe successo e Ward pubblicò un pamphlet dal titolo “The growth of Plants without open exposure to the Air” in cui descriveva i sui metodi. A questo seguì la pubblicazione nel 1842 del libro “On the Growth of Plants in Closely Glazed Cases”. Dopo di lui tutta l’Inghilterra iniziò a usare i terrari, sia per le coltivazioni cittadine che per le spedizioni via mare e Loddiges potè constatare che il tasso di sopravvivenza delle piante era cresciuto dallo 0.1 al 90%. Joseph Dalton Hooker fu uno dei primi a servirsi delle cassette wardiane per la sua spedizione in Antartico nel 1839, ma il primo di cui si ha notizia fu John Gibson, pupillo di Paxton, che partì per l’India nel 1835 per conto del duca del Devonshire, in un viaggio che lo tenne lontano dall’Inghilterra per oltre 2 anni e che riportò al duca più di 80 specie di orchidee diverse, tra cui quello che venne chiamato Dendrobium devonianum, che fiorì per la prima volta nelle serre di Chatsworth nel 1840. Nel 1854 il dott. Ward diede lettura della sua scoperta alla Royal Society nel Chelsea Physic Garden: in quel tempo era già noto che la sue wardian cases avevano cambiato la faccia del commercio in tutto il mondo. Queste rimasero in uso per parecchio tempo, si dovette aspettare più di un secolo l’arrivo delle buste in plastica e le ingombranti e pesanti cassette vennero soppiantate.