Isabella, un nome che evoca le passioni della aristocrazia veneta e gli intrecci amorosi consumati di villa in villa, lungo il terraglio, quello stradone che unisce la terra ferma veneziana, con la “marca gioiosa et amorosa”, cantata da Dante nella divina commedia.
Messa così la storia, promette racconti caldi e piccanti, ed invece è solo un introduzione maliziosa per attirare la vostra “captatio benevolentiae” sul prosieguo del racconto.
Isabella è il nome della nobildonna che visse nella Venezia viziosa e decadente di fine Settecento, ma è anche il nome di un tipo di uva, precoce e profumata.
Gli ingredienti ci sono tutti: Isabella, nobildonna procace, ma anche Isabella, uva bianca precoce.
I miei ricordi d’infanzia non spaziano nella vita opulenta dell’aristocrazia, ma emergono da uno stentato palcoscenico fatto di vita umile e servile. Siamo in quel Veneto povero, contadino, sul finire degli anni 40; io ero piccolo, non superavo i 5 anni di età. La mia famiglia viveva lavorando un piccolo fondo, nemmeno 4 campi di terreno, a mezzadria. Poco frumento, poco mais, e poca uva da dividere a metà con il padrone.
La casa dove vivevo non era dotata di “luce”, il gabinetto era fuori, vicino alla concimaia e all’interno risultava difficile capire dove finivano gli spazi dedicati agli animali. Nella stalla c’erano due mucche ed un asino ed era l’unico “vano” della casa ad essere riscaldato (dal fiato degli animali), luogo prediletto nelle lunghe e fredde notti invernali, dove si trascorrevano le serate a fare “filò”; ricordo che si stava bene.
La casa era posta a mezzogiorno, un grande cortile di terra battuta, il marciapiede di sassi del Piave e una grande vite di uva di Sant’Anna e Isabella, sistemate a pergola, che abbracciavano tutto il lato sud.
Ogni inverno quella lunga vite veniva potata con maestria da mio nonno Antonio – “lasciami povera e ti farò ricco” – usava dirmi, mentre sfoltiva i tralci. Per la verità la pergola era formata da due tipi di uva, L’uva Isabella e l’uva di sant’Anna, così nominata perché, il 26 di Luglio, festa di sant’Anna iniziava già a maturare ed era la prima uva, bella, di un colore bianco dorato come l’Isabella che si poteva mangiare.
Ma quei grappoli d’orati che troneggiavano sopra gli occhi di un bambino, non si potevano toccare finché non erano tutti maturi. La vendemmia, o meglio i migliori grappoli sistemati in una cesta di vimini, erano le primizie da portare alla “siora parona” nella sua villa padronale ubicata vicino alla chiesa del paese.
Solamente dopo questa ritualità servile si potevano tagliare i grappoli rimasti, ben pochi e già irrimediabilmente divorati dalle vespe e dai mosconi; rimanevano pochi chicchi utili per deliziare le nostre voglie.
Ecco, nonostante siano trascorse tante estati, ogni anno riaffiora questo ricordo dell’uva impossibile da cogliere.
Ora i tempi sono cambiati, non c’è più quella vecchia arpia che aspetta la cesta con le primizie, i supermercati sono pieni di ogni ben di Dio, ma ho ugualmente voluto coltivare l’uva Isabella e l’uva di sant’Anna.
Il piacere di cogliere qualche grappolo rigorosamente biologico – seppur con qualche chicco da eliminare – di godere del loro profumo e sapore, non ha prezzo!
… E Isabella la procace nobildonna? Ne parleremo domani, ora lasciatemi gustare la mia uva senza doverla dividere con nessun padrone: è un desiderio lungo una vita.T