Orchidee, la folle passione.

Primo capitolo

Burlington, Gennaio 1973
Fuori fa un freddo cane, gli inverni nel Vermont sono tremendi. Dik Jenkins, Ufficiale dei Marines è da poco rientrato in patria dal Vietnam e sta godendosi una licenza premio.
E’ il 7 Gennaio del 1973, la guerra in Vietnam sta finendo malamente, insieme ai tanti sogni di potenza, americani.
Dik sa che dovrà tornare ancora a combattere i Vietcong e sa anche che ogni ripartenza per il Vietnam gli garantisce solo il biglietto di andata. Per questo è tremendamente triste.
La mattinata che precede il suo ritorno in guerra, Dik lo trascorre da solo, guarda i grossi fiocchi di neve che cadono silenziosi e sogna una bella ed impossibile sciata fra i boschi del Taconic Range. Sono vallate dolci che degradano verso nord ovest nelle pianure orientali del Lago Champlain. Non può farlo.

Church Street Burlington Vermont

All’indomani, di buon ora, deve trovarsi già all’aeroporto di Burlington per tornare alla guerra. Quel che resta della giornata, la dedica a sfogliare vecchie foto di famiglia in compagnia di Jennifer, la sua giovane moglie. Rovistando fra le carte ingiallite dello studio, Dik Jenkins è attratto da una fotografia color seppia che fa da copertina a fogli di carta grezza, irrimediabilmente aggrediti da vistose macchie di muffa.

E’ cosi che inizia l’avventura di Dik, a metà fra romanzo e realtà.
Quegli appunti tenuti insieme da una piccola cordicella di canapa, attirano sin da subito l’attenzione di Dik; raccontano di strane orchidee dai fiori quasi azzurri, dai poteri magici.
Jenni! – esclama Dik – mostrando la fotografia a sua moglie – sembra proprio l’orchidea dai fiori leggermente azzurri, abbarbicata sulla parte alta, ad ovest della nostra serra.
– Sì… sì è proprio quella – risponde Jenni – chissà quali segreti nasconde.

Dik chiude gli occhi per un momento, e la sua mente lo riporta agli anni della sua infanzia quando il nonno Adam – parlando con dolcezza e passione – lo trasportava in luoghi misteriosi e lontani. Quando Dik era bambino, nessuno credeva al nonno Adam, era già vecchio e quelle storie di donne bellissime dai magici poteri donati loro da una rara orchidea… non incantavano più nessuno in famiglia… solo il bambino Dik lo stava ad ascoltare. Fu quella vecchia foto color seppia che spinse Jenkins, Dik Jenkins, a leggere con avidità gli appunti del nonno Adam, suo progenitore inglese, che descrivevano con dovizia di particolari, le sue avventure e le sue ricerche scientifiche in Assam. Le Indie Orientali
Eravamo nella seconda metà del diciannovesimo secolo – 1884 – quando il giovane Ufficiale della British Army ” Adam Jenkins” di stanza in Assam per conto della Compagnia Inglese delle Indie Orientali, si trovò a vivere una avventura misteriosa, talmente unica che gli sconvolse tutto il resto della sua vita. Dik taglia lo spago che tiene legati i fogli, alza il sigillo di ceralacca ed inizia la lettura:

“22 di Novembre del 1884, alle ore 7 del mattino sono convocato in ufficio dal Colonello Jeremy Lobb, noto per la sua passione per le orchidee.
Il colonello mi consegna un documento e mi invita a leggerlo.
In questo dispaccio sono contenuti tutti i dettagli di una missione nelle regioni Cherapunji e Shilong. In queste regioni, e precisamente fra le foreste delle colline Khasia Jaintia, vive una tribù matriarcale proveniente da Assam, chiamata Khasia.
Devo recarmi in quelle zone per scoprire una magica orchidea, più volte citata da Thomas Lobb, zio del commandante e ancora introvabile.
Il Colonello Jeremi Lobb mi informa che questa orchidea è stata più volte citata da suo zio Thomas Lobb, ma esiste una rara varietà ancora sconosciuta.
Questa varietà vive aggrappata agli alberi in una zona nota solamente alle donne Khasi – precisa il Colonello – che si tramandano il segreto con impenetrabile riservatezza. L’orchidea perderebbe il suo potere se fosse disponibile anche per gli uomini e per le donne infedeli.
Pare che con i petali dei fiori fecondati di questa ochidea, le giovani vergini raggiungano il “nirvana” e scelgano in sogno, l’uomo da sposare. Pare anche che sia possibile scegliere, tempo storico, luogo e sogno desiderato.
” Dik, visibilmente frastornato, guarda ancora la fotografia, la gira e sul retro, incollato alla foto, c’è un cartoncino contenente qualche appunto, che Dik legge con interesse.

Orchidea dai fiori blu Vive su alberi di Gordonia (Theaceae) nelle foreste di querce e pini delle colline Khasia dell’India orientale.
Thomas Lobb, zio del mio commandante ha portato la specie in Inghilterra e nel 1850 è stata esposta per la prima volta la pianta fiorita, fra lentusiasmo degli appassionati di orchidee.
Questa varietà dai poteri magici è stata raccolta da me nel 1886. Solo alcune specie di api indiane, come l’ape nana (Apis florea), riescono a fecondare i fiori di questa varietà. Purtroppo nella mia serra non vivono più; chi le riporterà sarà sicuramente fortunato; potrà sognare a piacere e provare tutte le mie emozioni vissute in terra Khasia”
Jenni, sussurra Dik – quando sarà finita la guerra ritroveremo queste api e le riporteremo nella nostra serra a farci sognare. I sogni finirono presto, il capitano Jenkins partì per quella che sarebbe stata la sua ultima missione in Vietnam. Dik appartiene al Corpo dei Marines degli Stati Uniti, presente in Vietnam già dal 2 agosto 1954 con il nuovo gruppo di assistenza e consulenza militare degli Stati Uniti nella Repubblica del Vietnam. Per i successivi otto anni, le attività militari in Vietnam consistettero principalmente in responsabilità di consulenza e personale. Ma alla fine del 1970, erano più i Marines che se ne andavano che quelli che arrivavano come sostituti. Dopo il fallimento dell’offensiva di Pasqua dei Viet Cong e un’intensa campagna di bombardamenti sul Vietnam del Nord, il 27 gennaio 1973 fu finalmente firmato a Parigi un trattato di pace basato su due punti fondamentali; il ritiro di tutte le forze americane dal Vietnam del Sud. Il Nord, a sua volta, restituì tutti i prigionieri di guerra, inclusi 26 Marines. Fra questi c’era anche Jenkins, catturato dai Viet Cong al confine con la Birmania dove si trovava in missione segreta. Dik trascorse gli ultimi 8 mesi quasi tutti rinchiuso in quelle famigerate gabbie di bambù, la prigione in Vietnam per americani in ostaggio. La guerra in Vietnam finì nel 73 e Dik, seppur ferito, fortunatamente tornò a casa vivo, ma quel tarlo dell’orchidea blu descritta dal nonno in quel cumulo di foto sbiadite dal tempo diventò passione sfrenata . Durante la sua permanenza nella terra di nessuno a nord del Vietnam, prima di essere catturato dai Viet Cong il commandante dedicò gran parte del suo tempo alla ricerca di orchidee ed il colpo grosso potè realizzarlo con la scoperta dell’orchidea blu.

L’orchidea blu

Della guerra, Dik non ama parlare, troppo difficile metabolizzare tanti traumi vissuti – racconta Dik – Ho visto cosa significasse per il popolo vietnamita sperimentare e sopravvivere all’esistenza in una zona di guerra, vedere la propria casa in fiamme cinque, sei, sette volte… e alla fine arrendersi e smettere di ricostruire per finire a vivere una vita sotterranea nei rifugi antiaerei. E capire quale fosse il modo migliore per uscire dal rifugio per prendere un po’ di acqua e cibo, e cercare sollievo. Dovevi aspettare la fine degli spari, ma non potevi uscire troppo presto perché rischiavi di essere attaccato da un elicottero che sorvolava la zona. Dovevi assicurarti di non finire nel fuoco incrociato tra guerriglieri e americani. Ma non potevi nemmeno restare nel rifugio troppo a lungo, perché gli americani arrivavano e buttavano granate. C’era tutta una serie di decisioni da prendere e non era solo la tua vita quella che dovevi difendere, ma forse anche quella di tutta la tua famiglia – il commandante Jenkins preferisce ricordare quel poco di bello vissuto durante la sua missione. Così il marines Dik inizia il racconto della sua orchidea blu, persa in situ e inseguita da tanti raccoglitori di orchidee.

Era domenica, domenica 12 settembre del 71, la nostra giornata di riposo e l’avventura inizia attraversando un piccolo villaggio sulla strada per Sapa, provincia di Lao Cai. Non ero da solo, con me c’era anche l’amico Simon Rosner. Lungo la strada incontriamo un improbabile mercatino di fiori e altre povere cose. Simon, ricordandosi della mia ossessione per l’orchidea dai fiori blu pensò bene di avvicinarsi alla bancherella per chiedere se ci fossero delle piante di orchidea dai fiori blu.
La Signora Muong (nome dell’esile donna che gestiva la bancherella) annuì mostrando alcune piante di orchidea strappate nella vicina foresta, ma non garantì che i fiori sarebbero stati di colore blu.
La donna chiese 10 dollari USA e rimase molto sorpresa nel vedere pagare senza mercanteggiare il prezzo chiesto per quelle poche orchidee. I soldati USA non erano visti di buon occhio dai vietnamiti. Si sentì tremendamente in colpa la Signora Muong – come mai questi soldati non ribattono il prezzo – pensò la donna, vedendoci allontanare dopo aver ringraziato e pagato i 10 dollari richiesti senza discutere – lo fanno tutti i soldatii americani – mormorò dentro di sé e per attirare la loro attenzione gridò in inglese – a moment please – e con un inequivocabile cenno del braccio richiamò con un cesto di ci richiamò indietro donarci altre orchidee di varia dimensione e specie, fra queste anche dei piccoli fusti facilmente riconducibili al genere Dendrobium.

Ecco qua, – susurrò la donna – e aggiunse – fra queste piante c’è sicuramente l’orchidea blu, lei non capiva come mai dei soldati americani fossero interessati alle orchidee e sorridendo disse – se lo desiderate vi posso indicare i luoghi dove vivono, mio figlio Lao vi può accompagnare. Non credevamo ai nostri orecchi e il giorno seguente eravamo già lungo il sentiero che porta nella foresta di Lao Cai con il figlio della signora Muong. L’indomani di buon’ora eravamo già in cammino verso il posto segreto dove poter trovare l’orchidea blu. Ad un certo punto ecco abbarbicato ad una quercia un ceppo di canne fiorite con grandi fiori blu.

La scoperta

Dik si siede su una roccia sporgente e inizia a leggere alcuni appunti del nonno Adam. A pagina 15 trova notizie interessanti.
Dendrobium azureum è stato scoperto già nel 1938, ma è rimasto a riposare nell’erbario del Museo di Storia Naturale a South Kensington (LONDRA), dentro un cassetto, montato su un telaio ma senza nome e comunque non classificato, a parte il suo genere o raggruppamento di specie.
Dik prende nota e scrive – Visto l’orchidea abbarbicata su di un albero nella provincia di Lao Cai, nel nord del Vietnam, in prossimità del confine cinese un’altura a 1650 metri sul livello del mare. Pochissime orchidee hanno fiori blu e la maggior parte di esse sono specie terrestri, pensò Dik, questa era un’epifita – cresceva sugli alberi – l’orchidea era una specie di Dendrobium e i suoi parenti più stretti hanno fioriture scarlatte. I dubbi si inpadroniscono di Dik al punto da fargli dubitare che il blu descritto fosse veramente blu –“Ho pensato che forse il blu non era davvero blu – molti orchidofili chiamano le cose blu quando intendono malva o viola”. Ma a un’osservazione più attenta, i fiori essiccati sembravano grigiastri, piuttosto che marroni come i fiori secchi delle specie affini.
Se l’orchidea aveva davvero fiori blu cielo, allora era probabile che fosse la specie vista dal nonno di Dik e raccontata in allegato alla famosa fotografia color seppia.- Le “orchidee blu brillanti” si riferiscono a D. azureum.
Guardando di nuovo l’esemplare, Dik nota che i fiori avevano una strana sfumatura bluastra, piuttosto che una delle tante sfumature di marrone che si vedono di solito in vecchi esemplari di orchidee secche.

DENDROBIUM AZUREUM, l’orchidea perduta?
Pare proprio che, D. azureum non sia mai stato raccolto prima della spedizione di Dik Jenkins e Simon Rosner, ma la curiosità generale ora punta alla lleggenda delle donne Khasi Ora che è stata ritrovata l’orchidea blu, Dik va alla ricerca delle donne Khasi per verificare la veridicità dei racconti del nonno Adam. Sin da subito Dik, per avventurarsi fra le etnie minoritarie del nord Viettnam e dell’intera Indocina, ha chiesto collaborazione al figlio della signora Muong.Per conoscere tutte le etnie del Vietnam del nord, bisogna percorrere la National Route 6, una lunga striscia di asfalto che percorre tutto l’estremo nord della penisola indocinese fino a Sapa, la capitale dell’omonimo distretto nord-occidentale. L’85% della popolazione del distretto è suddivisa tra tribù che seguono diverse tradizioni e si vestono in modi completamenti diversi.

I racconti del nonno Adam descrivevano tradizioni particolari della etnia Khasi. Khasi è una sottopopolazione dei Va, che in tempi antichi abitavano l’intera Indocina. Dopo essere stati annientati, cacciati o assimilati dagli invasori tailandesi, shan, laotiani e siamesi, finirono per insediarsi nella regione nordorientale in tribù sparse, disperse tra le colline. Presso un sottogruppo khasi chiamato Garo, è la donna che corteggia l’uomo, e non viceversa: la ragazza fa rapire dai propri fratelli il ragazzo che le piace, che viene tenuto prigioniero per qualche tempo nella casa degli uomini, per poi venire presentato alla ragazza elegantemente vestita e ingioiellata. Se il ragazzo non fugge da lei più di tre volte di fila, significa che accetta la volontà della giovane di prenderlo come compagno, altrimenti la scelta viene invalidata.

I primi contatti con le donne Chasi. Nell’attesa di incontrare una piccola comunità, Dik e Simon trascorrrono il tempo dedicandosi alla lettura del libro ORCHIDEA

Sulle orme di Nero Wolfe: fra orchidee e cucina

Nella vita, tutto tranne la coltivazione delle orchidee, deve avere uno scopo.
… fantasie e sogni possibili, nati da una mancata ed immaginaria intervista a Nero Wolfe.

… “Sono a New York nella trentacinquesima strada, di fronte alla famosissima casa di arenaria dove vive Nero Wolfe. Sono in anticipo di una ventina di minuti, ma fa freddo e nevica; decido di non aspettare. Busso.

Coelogyne pandurata collezione Guido De Vidi
La porta si apre e compare un esile ed impeccabile figura:
Mi chiamo Archie Goodwin. E voi?
Buona sera a lei, sono Guido De Vidi mi manda la redazione di Orchids Club Italia, gradirei conversare col signor Wolfe a riguardo di quell’introvabile orchidea nera e della famosa ricetta “salsicce mezzanotte” che tanto lo deliziò da giovane.
A.G.Il signor Wolfe non è in casa, è fuori sede per partecipare al convegno culinario dei quindici migliori cuochi del mondo – sono spiacente.
Guido Non fa niente, leggeremo le avventure di questo viaggio, nel suo prossimo romanzo”… Nero Wolfe, quando non è impegnato a mangiare, a curare le sue orchidee o a leggere i suoi libri, è un genio nello smascherare i criminali, senza mai dover uscire dalla sua casa di arenaria sulla trentacinquesima strada ovest di New York, comodamente seduto alla sua scrivania a sorseggiare birra o impegnato con le sue orchidee nella serra al terzo piano.
Solo quella ed unica volta era fuori casa per presenziare al convegno di alta cucina…

Nero Wolfe sul treno diretto al convegno culinario
…..”Non mi resta ancora molto da vivere, non ho più molti libri da leggere, ironie da cogliere, pranzi da gustare – Sospirò a occhi semichiusi, poi li riaprì. – Cinquemila dollari. Odio mercanteggiare“.
Con un mix di perentorietà e di sornionesco pietismo verso se stesso, Nero Wolfe, il ciclopico investigatore-gourmet creato da Rex Stout, su quel treno che lo sta portando verso il convegno dei quindici migliori cuochi del mondo, tenta il tutto per tutto. L’oggetto del desiderio sono le “salsicce mezzanotte”, di cui si era deliziato un giovane Nero Wolfe, all’inizio della carriera; la controparte è Jéròme Bérin, il creatore della ricetta segreta, a suo tempo inseguito attraverso il Mediterraneo sino al Cairo fino a perderne le tracce.
Il destino sembra ora favorirlo, facendoglielo ritrovare sullo stesso convoglio e diretto alla stessa meta. Ma siamo solo all’inizio del romanzo dal promettente titolo, “Alta cucina”, e l’epilogo gastronomico non avverrà che all’ultimo respiro del giallo, quando il nodo delittuoso sarà sciolto, naturalmente ad opera di Wolfe. Ma allora sull’altro piatto della bilancia ci sarà un peso ben diverso: Jéròme Bérin, sospettato dell’omicidio di uno degli chef partecipanti al simposio, deve infatti la vita all’investigatore che, scendendo a livelli di mero mercanteggiamento, non si lascia sfuggire l’opportunità di farlo pesare, previo un sottile gioco psicologico. “- Be’…- Wolfe sospirò. – Se non volete accettarlo come gesto di amicizia, sia pure. In questo caso l’unica cosa che posso fare è presentarvi il conto. Il che è semplice. Se fosse possibile fare una valutazione precisa dei servizi professionali che vi ho reso dovrebbe essere altissima, poiché i servizi sono stati eccezionali. Così… visto che insistete per pagare… mi dovete la ricetta della salsicce mezzanotte”. Le spire del Nero pitone si avvolgono inesorabilmente intorno al collo della vittima, che tenta di divincolarsi: ” – Cosa? -Bérin gli lanciò un’occhiataccia. – Puah! Ridicolo“. Ma il pitone non allenta la presa… “– Come ridicolo? Mi avete chiesto voi cosa mi dovevate. E io ve l’ho detto” …se non quel tanto per lasciare il fiato di sigillare la trattativa.
” – Bah! – Sbuffò Bérin. – È un ricatto”. Obtorto collo, e a patto che la ricetta non sia rivelata a nessuno al mondo, Bérin si decide a rivelare la magica alchimia. Solo nel 1938, dopo cinque anni dalla morte di Jéròme Bérin, Fritz, il cuoco svizzero a servizio di Wolfe, la usa in “Orchidee nere”, ma assolutamente priva di dosi.

La ricetta
La ricetta è pubblicata ne “Le ricette di Nero Wolfe”, così come aveva voluto il suo creatore: “II signor Bérin disse a Wolfe che esse variano a seconda del clima, della stagione, delle personalità che preparano il piatto, dei cibi che si mangiano prima e dopo le salsicce, e del vino che viene servito”.

Salsicce mezzanotte
Ingredienti:
Cipolla – aglio – grasso d’oca – brandy – vino rosso – brodo di manzo – timo – rosmarino – zenzero – noce moscata – chiodo di garofano – pane grattugiato – bacon – lonza – oca – fagiano – sale – pepe nero – noccioline di pistacchio – intestini di maiale.
Tritate le cipolle e 1 spicchio di aglio poi rosolateli nel grasso di oca. Versate prima il brandy fino a coprire le cipolle, poi il vino rosso e il brodo di manzo in quantità doppia rispetto al brandy. Aggiungete un pizzico di timo e di rosmarino e spolverate con zenzero, noce moscata e con un’idea di chiodo di garofano. Cuocete a fuoco lento per 10 minuti e aggiungete pane grattugiato sufficiente a ottenere una polpa. Cuocete ancora per 5 minuti. Aggiungete prima il bacon bollito e l’arrosto di lonza, poi l’arrosto di oca e di fagiano, in quantità doppia rispetto alla lonza. Tutta la carne deve essere sminuzzata. Condite con sale e con una generosa dose di pepe nero, aggiungete del pistacchio e lasciate cuocere a fuoco lento finché l’impasto di carne abbia la consistenza del ripieno di una salsiccia fresca. Raffreddate completamente. Lavate e scottate gli intestini di maiale. Riempiteli con l’impasto di carne, strozzando di tanto in tanto con del filo per ottenere le salsicce. Cuocetele nella griglia del forno, dopo aver bucato qua e là la pelle.

Fritz, un gran maestro di cucina.
A comprensione della maestria di cui Fritz è capace, ecco il menù orchestrato per la cena organizzata da Lewis Hewitt, milionario americano amante delle orchidee, in cui si ritrovano annualmente i Dieci per l’Aristologia, gruppo di edonisti che persegue la perfezione nel bere e nel mangiare.

Menù
Blinis con panna acida
Zuppa di tartaruga
Passera di mare al vino bianco
Salsa di cozze e funghi
Arrosto di fagiano
Porcellino di latte
Crocchette di castagne
Insalata con salsa pioggia del diavolo
Formaggio

Durante quella cena sfortunatamente venne avvelenato uno degli ospiti (la panna acida era spruzzata d’arsenico), ma poiché Fritz era incolpevole la cena risultò superba.
Includiamo la ricetta della panna acida, una costante della cucina dell’Est adottata per condire moltissime ricette.
Per ottenere la panna acida, mettete 1 tazza di panna in un vaso di vetro sterilizzato. Aggiungete 2 cucchiai di latte fermentato, coprite il vaso e agitate vigorosamente. Aggiungete un’altra tazza di panna, coprite e agitate ancora. Lasciate riposare per 24 ore al caldo, mettete nel frigorifero per altre 24 ore.
Oltre ad essere un amante e grande intenditore di birra, Nero Wolfe è noto per il suo debole nei confronti del Martini, di cui riportiamo una ricetta nata negli States negli anni ’30-40′, dal nome di “Adonis”:
2/3 Sherry Fino muy seco
1/3 Martini
1 goccia di Orange bitter

Si prepara nel mixing glass e si versa nel bicchiere “old fashion” con ghiaccio, senza decorazioni.
Un altro liquore che spesso interviene nelle misture americane è il Gin, come per “Caruso”, ispirato al celebre cantante italiano, che in America ha avuto particolare successo agli inizi del XX secolo, quando sui palcoscenici furoreggiava la voce del grande tenore.
1/3 Dry Gin
1/3 Vermouth Dry
1/3 Liquore di menta verde

Si shakera e si versa nel bicchiere “old fashion” con ghiaccio, senza decorazioni.

Se decidi di giocarti una bella nottata dal sapore luculliano ti ricordo che le salsicce vanno mangiate a mezzanotte e con l’orchidea nera all’occhiello!

FASCINO E PROBLEMI

Sensuali e misteriose come i luoghi della loro provenienza
Da qualche secolo la coltivazione ed il collezionismo delle orchidee tropicali affascina e “rapisce” persone di ogni ceto sociale e di diverse nazionalità. Però le nostre maliarde, in natura, vivono nella fascia tropicale del pianeta e quindi richiedono particolari esigenze di vita, condizioni, che nei nostri climi temperati non ci sono.
Storie fantasiose, passioni sfrenate, un amore febbrile, una vera e propria mania; per gran parte dell’Ottocento il vecchio continente, e sopratutto l’Inghilterra, vennero travolti da un’ammirazione incontenibile per le orchidee esotiche.
Irresistibli oggetti del desiderio arrivati da ogni parte dei nuovi mondi, nei giardini e negli orti botanici europei nella seconda metà del Settecento, circondati da un alone di mistero trasformatosi in entusiasmo sfrenato di gran lunga superiore a quello suscitato un paio di secoli prima dalla “tulipano-mania”.

In quel periodo le orchidee tropicali sembravano fatte apposta per rispondere alla mania esotica dell’Inghilterra Vittoriana. Fiori sensuali, strani, spettacolari, grandi come mai se n’ erano visti in precedenza, oppure minuscoli come preziose miniature, accesero l’immaginario della società più opulenta dell’epoca.
Le inedite fragranze dei fiori delle orchidee esotiche, estasiavano le nobildonne che nelle occasioni mondane, non esitavano ad esibire le rarità appena giunte dalle colonie. Ad eccitare la fantasia si aggiungevano le radici delle specie epifite, che invece di nascondersi nella profondità della terra pendevano sospese nell’aria come per incanto, e poi quelle bacche piene di una misteriosa polvere impalpabile: la scoperta, in seguito, che si trattava solo di una miriade di minuscoli semi non cambiò di molto l’impressione originaria, visto che per molto tempo non si riuscì assolutamente a farli germinare.
In più, le orchidee arrivavano da luoghi dei quali si conoscevano a stento i nomi e le coordinate geografiche, un mondo che per l’Europa era ancora in gran parte da scoprire: vivevano nel cuore di giungle tropicali popolate da animali feroci, percorse da rumori sinistri, e molti erano anche fermamente convinti dell’esistenza, in quegli angoli remotissimi, di piante capaci di divorare esseri umani. Circolavano con insistenza voci inquietanti che riferivano addirittura la presenza di orchidee carnivore: una credenza rafforzata dalla vendita, a un’asta londinese, di un Dendrobium abbarbicato a un teschio umano, una bizzarria scovata da un cacciatore di piante in una zona impervia della Nuova Guinea.
All’epoca, le orchidee esotiche se le potevano permettere soltanto gli aristocratici, nelle loro costosissime serre.
All’inizio dell’Ottocento le orchidee esotiche si potevano trovare negli orti botanici oppure nelle lussuose residenze di qualche aristocratico che poteva permettersi giardinieri e serre costosissime, come ad esempio William George Spencer Cavendish, sesto duca del Devonshire, che per soddisfare una passione nata davanti a un esemplare di Oncidium papilio esposto in una mostra londinese, spedì nell’Assam, John Gibson, famoso cacciatore di orchidee dell’epoca.

Chatsworth: Great Conservatory
Serra costruita (1836-1841) e demolita nel 1920.
Questi, risalendo il corso del Brahmaputra e dei suoi affluenti, riuscì a trovare un centinaio di specie che poi spedì nella nebbiosa residenza del duca a Chatsworth, per essere custodite nella fantastica serra costruita dal capogiardiniere, Joseph Paxton.
Un paradiso tropicale che suscitò l’ammirazione di tutti, perfino della regina Vittoria e del principe Alberto, che in una gelida serata invernale del 1843 lo visitarono in carrozza scoperta e alla luce di ben 12.000 lampade predisposte proprio per l’occasione.

Il clima tropicale piace alle orchidee esotiche.
Il clima tropicale abbraccia la zona torrida della Terra, quella parte del pianeta, compreso dentro i due tropici del Cancro e del Capricorno. In questo clima si sviluppano le foreste tropicali, e le savane, habitat ideali per le orchidee. Esso si caratterizza per avere elevate temperature durante tutto l’anno, e nel sottotipo equatoriale, per le precipitazioni assai abbondanti. E’ proprio il regime pluviometrico che codifica i vari tipi di clima tropicale:
1. della foresta pluviale tropicale, sempre umida.
2. monsonico con una stagione secca e una umida.
3. della foresta pluviale nonostante un periodo secco.
4. della savana, più secco e con forti escursioni termiche.
Le aree del pianeta con clima tropicale si trovano nell’America centrale, nella parte nord dell’America del sud, in una porzione dell’Africa e nell’intera Oceania. E’ in questa fascia climatica, che le orchidee “esotiche”, trovano la loro endemicità naturale.
L’incontro con loro comincia sempre per caso e si rimane presto affascinati da tutto quello che ci raccontano. Ci ammalia la voglia di scoprire quello che non si sa della loro vita, della loro storia e della affascinante letteratura che le descrive, ma soprattutto si insinua nella nostra mente il desiderio di coltivarle. I commercianti di fiori e di piante, a partire dalle fiorerie, che tengono in negozio anche qualche pianta di orchidea “commerciale”, arrivando fino ai venditori specialisti di orchidee rare, tranquillizzano il neofita titubante, che si accinge ad effettuare il suo primo acquisto. “E’ facile coltivare orchidee esotiche”, esclama con suadente gestualità, il venditore. Il principiante sa perfettamente che la storia è diversa, ma non sempre sa resistere ed ecco che si crea quella strana dimensione evanescente nella quale il denaro perde valore, mentre quelle piante strane, devono essere possedute a tutti i costi. Nei salotti e nelle verande delle nostre abitazioni capita sempre più spesso di trovare le orchidee più impossibili.
Nei secoli passati le orchidee erano considerate piante misteriose e costose, per questi motivi era raro trovarle come elemento floreale di coreografia abitativa. Con il trascorrere degli anni sono migliorate e tecnologie per la riproduzione da seme e da meristema, fattori questi, che hanno resa possibile la proliferazione di massa delle orchidee. Da qualche anno, le varie fiere e mercati, presenti in varie città, sono sempre fornitissimi di specie, un tempo introvabili. Ma il neofita, che tanto ha sognato il possesso di quelle piante dai nomi così affascinanti, finito l’onirico viaggio esotico, comincia a porsi mille domande.

Storie di serre famose e di passioni amorose.
La passione per le piante tropicali fu dominante in vari paesi europei per tutto il 19 ° secolo. L’nteresse coincise con lo sviluppo delle varie tecnologie per la costruzione di grandi “serre”. La più bella e la più famosa è sicuramente quella costruita presso il Royal Botanic Gardens di Kew, appena fuori Londra, dove furono realizzati enormi contenitori in vetro per ospitare diversi tipi di piante tropicali provenienti dalle varie colonie dell’Impero Britannico. Grande protagonista di quell’epoca fu il costruttore di serre, Joseph Paxton.
Sir Joseph Paxton (3 agosto 1803 – 8 giugno 1865), architetto britannico nato a Milton Bryant, nel Bedfordshire, intuendo le grandi possibilità tecniche, nonchè gli spettacolari e innovativi effetti formali del ferro, fu tra i primi a servirsi di strutture metalliche per costruire serre.

Crystal Palace ricostruito in versione ingrandita dopo il trasloco.
Nel 1850 gli fu affidato l’incarico di portare a termine l’opera a cui è rimasta legata essenzialmente la sua fama: il Palazzo di Cristallo per l’esposizione internazionale di Londra in Hyde Park (circa 120 metri di larghezza e 562 di lunghezza), coperto da archi di varie altezze e interamente costruito con pezzi prefabbricati.
L’enorme costruzione in stile vittoriano, eretta nella capitale britannica, ma inizialmente installata a Hyde Park, è stata smontata nel 1854 e ricostruita in un’altra zona della città, Sydenham Hill. Il 30 novembre del 1936 viene purtroppo distrutto da un incendio.

Ma fu nel 1827, che un medico inglese di nome Nathaniel Ward, rivoluzionò completamente il rapporto dell’uomo con la botanica. Nell’immaginario collettivo la serra è vista come una scatola di materiale trasparente, che lascia filtrare la luce. La scatola può essere di dimensioni enormi, vedi quelle professionali, oppure le amatoriali medio piccole, per arrivare fino ai microscopici terrari o orchidari che dir si voglia.
L’orchidario, per chi ama le orchidee è l’embrione del sogno chiamato serra, sogno di chi è in attesa della serra vera o del jardin d’hiver, dove immergersi in un piccolo angolo tropicale, un luogo intimo dove concentrare il proprio sguardo verso la natura.
Ma come e quando nacque l’idea di proteggere in ambiente chiuso le essenze vegetali, e chi scoprì il miracolo della coltivazione sotto vetro?
foto 5 Nathaniel Bagshaw Ward, by Richard James Lane, printed by M & N Hanhart, after John Prescott Knight, 1859.
A fare questa scoperta fu Nathaniel Bagshaw Ward (1791-1868), quest’uomo, che ha il merito di aver cambiato il mondo botanico così drasticamente, rimane l’ennesimo personaggio-ombra che emerge dalle nebbie della Londra vittoriana. Non pensiate che questa sia la solita frase retorica, dietro alle sue scoperte, si nascondono una serie di evoluzioni storiche senza le quali il mondo moderno sarebbe decisamente diverso da quello che noi conosciamo.

Nathaniel Bagshaw Ward (1791-1868)
Sarebbe noioso stilare l’elenco delle società che lo vedevano attore partecipe, basti sapere che spaziavano dal campo medico, farmaceutico a quello botanico. Ma partiamo con ordine: nato a Londra Ward sviluppò presto il suo interesse per il mondo naturale nonostante lo circondasse il grigio panorama della città industrializzata. Alla tenera età di 13 anni si ritrova per mare su una nave in viaggio per la Giamaica: era convinto di far carriera in marina. Dopo quel viaggio, come sperava il padre, valente chirurgo, egli abbandonava l’idea di essere un marinaio per seguirlo nella pratica medica. Ma la flora tropicale aveva risvegliato in lui l’interesse per la natura e in particolare per palme e felci. Ward lavorava nell’est End di Londra e continuava a coltivare la sua passione per la botanica e l’entomologia tra un paziente e l’altro, nel tempo libero collezionava piante coltivandole all’aperto: il suo erbario contava più di 25000 specie. Sognava ricoprire un vecchio muro di confine del suo giardino di felci e muschi.
Il suo giardino a Wellclose square non fu esattamente quello che Ward si era immaginato, solo poche delle felci piantate sopravvissero. Questo tasso di fallimento fu determinato dalla cappa di inquinamento soffocante della Londra industrializzata, la stessa atmosfera inquinata dal fumo proveniente dalla combustione del carbone e dai solfuri che fece coniare a un giornalista nel 1905 il termine “smog”, abbreviazione di “smokey fog” (nebbia fumosa). Ward girò il mondo per dar soddisfazione al suo interesse per l’entomologia. In occasione di uno dei suoi viaggi, egli raccolse la pupa di un lepidottero (sfinge) e la collocò in un contenitore trasparente e sigillato. La storia non ricorda il destino del lepidottero, ma dopo un po’ di tempo, Ward notò che alla base del contenitore chiuso, dal terreno iniziavano a germogliare delle felci: la sua curiosità su quanto tempo queste potessero vivere in un ambiente protetto, o meglio sigillato, portò a una delle scoperte botaniche ed economiche più importanti dell’età vittoriana: la cassetta wardiana (Wardian Case).
Preso dal fervore per la sua scoperta, Ward inizò tutta una serie di esperimenti. Costruì dei terrari in vetro, di varie dimensioni, che riempirono il suo giardino e ogni stanza della sua abitazione: alcuni li mise perfino sopra il tetto di casa! Il terrario più grande (2.4 mq) conteneva al suo interno più di 50 specie di piante abbarbicate sulla riproduzione di una finestra della Tintern Abbey.
I contatti con la famosa Loddiges Nursery che sponsorizzava le spedizioni esplorative, volte alla scoperta di nuove piante, gli permisero di testare il potenziale della sua invenzione per il trasporto di esemplari per mare. All’epoca la sopravvivenza a questi lunghi viaggi era impensabile. Le piante tenute sottocoperta morivano per mancanza di luce, mentre quelle tenute sul ponte per salsedine, forti venti, bruciature da sole e mancanza d’acqua.

foto 6 Wardian Case da interno. Foto tratta dal libro:
On the Growth of Plants in Closely Glazed Cases di Nathaniel Bagshaw Ward (1852)

Coltivare e spedire piante sotto vetro non era cosa nuova, ma nuovo era il concetto dell’ambiente sigillato non contaminato dalle condizioni atmosferiche circostanti. Ward fece costruire da un carpentiere una cassa per le sperimentazioni, il telaio doveva essere in legno duro e le connessioni più rigide e resistenti possibili: questo per evitare danni per effetto della condensa. Ed ecco nato il primo terrario! Nel 1833 spedì, in due casse, delle felci native dell’Inghilterra, in Australia, questo fu il suo primo grande esperimento. Dopo 6 mesi di navigazione il carico sbarcò nel porto di Sydney con le piante vive e vegete! Le casse come su richiesta vennero pulite e riempite di specie native australiane che prima di allora non si erano mai riuscite a trasportare oltremare; nel febbraio del 1835 il carico salpò, ma la nave, sconvolta dalle tempeste di Capo Horn arrivò a Londra solo dopo 8 mesi di navigazione. Le casse erano sul ponte e non erano state aperte nonostante le temperature fossero variate da -7 a 49 C° e coperte dalla neve durante parte del viaggio.

I successi degli esperimenti
Intanto in città Ward attendeva ansioso di visionare il carico. Nel suo libro del 1852 scrisse: “I shall not readily forget the delight expressed by Mr. G. Loddiges, who accompanied me on board, at the beautiful appearance of the fronds of Gleichenia microphylla [umbrella or coral fern], a plant now for the first time seen alive in this country.” L’esperimento ebbe successo e Ward pubblicò un pamphlet dal titolo “The growth of Plants without open exposure to the Air” in cui descriveva i sui metodi. A questo seguì la pubblicazione nel 1842 del libro “On the Growth of Plants in Closely Glazed Cases”.
Dopo di lui tutta l’Inghilterra iniziò a usare i terrari, sia per le coltivazioni cittadine che per le spedizioni via mare e Loddiges potè constatare che il tasso di sopravvivenza delle piante era cresciuto dallo 0.1 al 90%.
Joseph Dalton Hooker fu uno dei primi a servirsi delle cassette wardiane per la sua spedizione in Antartico nel 1839, ma il primo di cui si ha notizia fu John Gibson, pupillo di Paxton, che partì per l’India nel 1835 per conto del duca del Devonshire, in un viaggio che lo tenne lontano dall’Inghilterra per oltre 2 anni e che riportò al duca più di 80 specie di orchidee diverse, tra cui quello che venne chiamato Dendrobium devonianum, che fiorì per la prima volta nelle serre di Chatsworth nel 1840.
Nel 1854 il dott. Ward diede lettura della sua scoperta alla Royal Society nel Chelsea Physic Garden: in quel tempo era già noto che la sue wardian cases avevano cambiato la faccia del commercio in tutto il mondo. Queste rimasero in uso per parecchio tempo, si dovette aspettare più di un secolo l’arrivo delle buste in plastica e le ingombranti e pesanti cassette vennero soppiantate.

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