L’orchidea dedicata a Fulvio Tomizza

Il suo pensiero

Diario del 1998 La mia Istria

Chi ha studiato la recente storia istriana, o ricorda, sa bene che il valico internazionale per passare in Istria non si situava come oggi a Rabuiese, quasi nel perimetro industriale di Trieste, ma indietreggiava di un paio di chilometri fino al paese di Skofije, diviso a metà dalle sbarre confinarie.
Là, tra le case, più che confrontarsi si guatavano due mondi e due modi di vivere contrapposti, quello dell’Est democratico. Non occorreva aver superato il rigido controllo delle guardie jugoslave per rendersi conto se ci si trovava in uno o nell’altro emisfero; lo manifestavano le facciate e i tetti degli edifici, i piccoli negozi, lo stesso manto stradale, l’umore e il vestire della gente ivi residente.
Poi, nel 1954, in seguito al Memorandum di Londra che decretava la fine del mai realizzato Territorio libero di Trieste (Tlt) e assegnava le sue due zone rispettivamente all’Italia e alla Jugoslavia, il confine veniva portato avanti nella piana di Rabuiese e lo Stato italiano ci rimetteva due altri villaggi già compresi nella più lucente ed euforica Zona A amministrata dagli angloamericani. L’Italia perdeva proprio tutto, l’annessione dell’Istria alla Jugoslavia si completava anche nei suoi estremi margini settentrionali, nonostante lo sproporzionato rapporto di forze tra i due contendenti, nonostante la solenne promessa di Francia, Inghilterra e Stati Uniti, chiamata nota tripartita, di riconsegnare al governo di Roma l’intera Zona B, da mezza Skofije alla sponda del fiume Quieto, una quarantina di chilometri verso Pola. Perché? Come era potuta accadere una soluzione altrettanto rovinosa e beffarda?
La prima risposta è che la Jugoslavia sedeva nel 1947 a Parigi tra i Paesi vincitori della Seconda guerra mondiale, i quali le assegnavano i quattro quinti della penisola istriana (oltre a Fiume e Zara) abitata anche da sloveni e croati assai provati dal ventennio fascista e in notevole parte confluiti tra i guerriglieri di Tito.

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